«L’impulsività, il tendenziale non rispetto per le regole, è assai più evidente in Montalbano giovane; non che nel Montalbano adulto si perda, non è che nasce incendiario e muore pompiere. Rimane sempre incendiario, solo “criptato”. Nelle indagini, Montalbano giovane è più veloce del Montalbano adulto; la maturità l’ha portato, prima di formulare un’accusa, ad esserne profondamente convinto, mentre al giovane basta esserne convinto al 70%. Ma l’essenziale e fondamentale caratteristica in entrambi è di avere un cervello speculativo».
Andrea Camilleri
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La stanza numero 2, Doppia indagine, Morte in mare aperto,
Il biglietto rubato, La transazione,
Come voleva la prassi,
Un’albicocca, Il ladro onesto: 8 indagini di un Montalbano giovane e senza paura, irruente, audace, pistola in mano, carica, e carico di risorse investigative, con largo uso di «sfunnapedi» e «trainelli».
Il suo amore con Livia vive la stagione più bella, quella della passione e dell’urgenza di stare sempre insieme; il commissariato di Vigàta è abitato dai personaggi che i lettori di Camilleri conoscono bene, sono i rapporti di Montalbano con i sottoposti che sono diversi: con Fazio il legame è ancora gerarchico, Augello è l’impenitente dongiovanni della prima ora, la sua insopprimibile brama di conquiste mette addirittura in pericolo, nel corso di una indagine, la vita di Montalbano; lucido, veloce è però il migliore compagno di strada del commissario; uno sbatacchiare di porte infine, segna l’entrata sulla scena di Catarella. A Montelusa il questore è Burlando, paterno, di larghe vedute: in fondo quel commissario intemperante gli piace e gli copre ben volentieri le spalle in qualche occasione.
I racconti sono situati negli anni Ottanta, un’Italia in cui si muovono fatti e personaggi di quella stagione, dall’affare Sindona all’attentato a Giovanni Paolo II. Montalbano si trova alle prese con indagini di tutti i tipi, dalla speculazione edilizia, ai contrasti familiari, il rumore di fondo però è quello della mafia.
Sono otto le «mosse» narrative che Camilleri si concede lungo le otto colonne e le otto traverse della sua geometrica scacchiera del racconto: tra i quattro lati del libro, e nell’ordine chiuso di un romanzo-matrioska che dentro di sé inclina, procedendo di racconto in racconto, di tensione in tensione, sull’asse unico dell’attività investigativa del commissariato di Vigàta. Più che racconti lunghi sono romanzi ristretti quelli che qui si spintonano a vicenda e concorrono al disegno unitario: uno compie un giro, l’altro ricomincia. L’andatura piacevolmente svagata e a punte d’arguzia è un effetto stilistico della restrizione e degli scorci.
Fra gli aliti grassi del mare e il fresco odore salino, a Vigàta si conduce la solita vita fragorosa di ripicche e di rimbecchi; di passioni irritabili, di insofferenze e di strampalerie. La cameriera Adelina e Livia, la fidanzata «straniera» di Montalbano, si annusano sempre da lontano. Catarella, devoto alle cerimonie più smaccate, indossa imperterrito il proprio corpo come una maschera cui aderiscono gesti e mimiche di dialettalità selvaticamente impetuosa e arruffata. Perdurano le moschetterie giornalistiche delle due contrapposte televisioni locali, abilmente strumentalizzate da Montalbano. Il medico legale, Pasquano, solo davanti a una guantiera di cannoli di ricotta è disposto a deporre acrimonie, ringhi, e «cabasisi». Il vicecommissario Mimì Augello conosce il catalogo e le vite tutte delle donne più belle e disponibili del villaggio. L’ispettore capo, Fazio, è il solerte e indisponente scout del «già fatto». L’epitome dei caratteri include una ricca galleria di ritratti, una parata di volti, un ampio esercizio fisiognomico: facce da requiem, volti dilavati, sorrisi che hanno o non hanno morbidezza, grinte e grugni di gaglioffi, musi di bruti.
Il commissario tiene gioco sovrano. Appiana ostacoli. Stabilisce relazioni tra fatti diversi. Deduce e va sicuro. Montalbano è aspramente giovane, qui. È strabordante e pieno di slanci: scontroso talvolta, ma anche disponibile e tollerante. Cauto e insidioso insieme, ricorre a tatticismi, a stratagemmi, a incursioni rese lecite solo dalla necessità del momento. La bassa industria del delitto, le vicende atroci, le storie sordide, gli insabbiamenti legali, gli accordi criminali tra le famiglie mafiose, lo sgomentano senza mai avvilirlo. Montalbano non manca di generosa indulgenza e di un delicato senso di giustizia assai più giusto dell’impersonale rigore burocratico. Qualcuno ha dato fuoco a un albergo. Non ci sono vittime. Deve essere intransigente di fronte a una mattana d’amore? Si imbatte in un professionista del furto, in un correttissimo ladro «a tariffa fissa» che con la sua arte sa aiutare la giustizia: deve negargli la mano che lo tiri fuori dalla necessità del mestiere? Va bandita l’umana «pietà», che non assolve e non condanna?
Salvatore Silvano Nigro
Morte in mare aperto
Era 'na matinata di primavera e Montalhano si stava vivenno la solita cicaronata di cafè quanno sonò il tilefono. Era Fazio.
«Che c'è?».
«Ha telefonato Matteo Cosentino che...».
«Scusa, chi è?».
«Matteo Cosentino è il propietario unico di cinco piscaricci».
«E che voliva?».
«Voliva dirinni che in uno dei sò piscaricci, il Carlo III, ce stato un incidenti e hanno un morto a bordo».
«Ma che tipo d'incidenti?».
«Pari che un omo dell 'equipaggio ha ammazzato per sbaglio al motorista».
«E 'sto piscariccio indov'è?».
«Sta tornanno a Vigàta. Tra un tri quarti d'ura attraccherà. Lei può viniri direttamentì al porto, io ci staio annanno. Devo avvirtiri il pm, la Scientifica e compagnia bella?».
«Prima videmo come stanno le cose».
Mentri che s'addiriggiva verso Vigàta si spiò per quali mistiriosa scascione Cosentino avissi dato al piscariccio il nomi di un re di Spagna, ma non seppi darisi 'na risposta.
La zona riservata ai piscaricci era nella parti esterna del molo cintrali. Ccà c'era 'na longa filata di magazzini frigoriferi. Non era l'ura del rientro dalla pisca epperciò c'era picca genti.
Montalbano vitti la machina di servizio e le si firmò allato. Fazio era tanticchia cchiù distanti e parlava con un sissantino tracagno e trasannato.
Fazio fici le presentazioni. Matteo Cosentino spiegò subito al commissario che il piscariccio ritardava pirchì il motori non funzionava bono.
«Lei come ha saputo dell'incidente?».
«Attraverso la radio di bordo. Stanotti alle tri mi chiamò il capobarca».
«E lei a che ora ha telefonato in commissariato?».
«Alle setti».
«Ma perché ha lasciato passare tutto questo tempo?».
«Commissario, la facenna è successa a cinco ure di mari da ccà. Si io lo chiamavo che faciva? Si 'mbarcava e li raggiungiva 'n mari aperto?».
«Il capobarca le ha detto com'è successo l'incidente?».
«L'accenni pure a me».
«Il motorista, che s'acchiamava Franco Arnone, s'attrovava dintra al vano motori pirchì c'era qualichi cosa che non funzionava e Tano Cipolla, uno dell'equipaggio, era assittato supra al bordo del boccaporto e chiacchiariava con lui pulizianno la sò pistola quanno...».
«Un momento. Gli equipaggi dei suoi pescherecci sono armati?».
«A mia non arresulta».
«E come lo spiega che Cipolla era armato?».
«E chi nni saccio? Glielo spiasse a lui quanno arriva».
«Sta entrando un peschereccio» disse Fazio.
Matteo Cosentino taliò verso l'imboccatura del porto.
«E il Carlo III» confirmò.
Montalbano non resisti alla curiosità.
«Mi scusi, ma perché ha chiamato così il suo peschereccio?».
«Tutti i mè piscaricci s'acchiamano Carlo e vanno da uno a cinco. E il nomi del mè unico figlio che morse a vint'anni».
Mentri che il piscariccio stava accostanno, 'na poco di sfacinnati s'avvicinaro, 'ncuriosuti dal rientro fora tempo della varca.
Appena che si sarebbi saputo che c'era un morto a bordo, le pirsone sarebbiro addivintate un centinaro, facenno 'na gran confusioni e distrubbanno il travaglio.
Montalbano pigliò 'na ràpita decisioni. Parlò arrivolto a Cosentino.
«Non faccia scendere nessuno dell'equipaggio, saliamo noi tre a bordo e dopo il peschereccio se ne riparte».
«E dove gli dico di andare?» spiò Cosentino.
«Mi basta che esca dal porto, poi si fermi dove vuole».
Deci minuti appresso il piscariccio si dunnuliava a motori astutato a mezzo chilometro dal faro che era la meta delle jornaliere passiate digestive del commissario.
Dal ponti, talianno attraverso il boccaporto dintra al vano motori, il corpo dell'ammazzato si vidiva bono.
Stava in una posizioni stramma, era agginocchiato davanti al motori, col vrazzo dritto tinuto in avuto da 'na manopola contro la quali gli si era 'ncastrata la mano.
La parti di darrè della testa non ci stava cchiù, frammenti d'ossa e materia ciribrali erano 'mpiccicati nelle pareti del vano.
«Chi è Tano Cipolla?».
Dal gruppo di setti marinari che si nni stavano a puppa a parlari con Cosentino, si staccò un quarantino sicco sicco, pallito per il nirbùso, l'occhi spirdati, i capilli dritti supra alla testa. Si cataminava a scatti, come un pupo miccanico.
«È stata 'na disgrazia! Io mi nni stavo...».
«Questo me lo racconterà dopo. Adesso si vada a mettere nello stesso posto in cui si trovava nel momento in cui sparò al motorista».
Cipolla protistò. Aviva la voci che gli trimava, l'occhi chiaramenti pronti alla chiangiuta.
«Ma io a Franco non ci volivo sparari!».
«D'accordo. Ma intanto mi faccia vedere».
Tano Cipolla, sempri come a un pupo, s'assittò supra al bordo del boccaporto con le gammi che gli pinnuliavano dintra al vano motori.
«Accussì priciso mi nni stavo. E chiacchiariavo con lui che 'ntanto travagliava».
(Incipit pubblicato su
Il Secolo XIX, 23.10.2014)