Il suo ultimo libro, “La paura di Montalbano”, ha già raggiunto
le vette delle classifiche, i suoi romanzi sono stati tradotti in una decina
di lingue, tra cui il greco e il giapponese: naturalmente sto parlando
di Andrea Camilleri, il “papà” del commissario Montalbano. La sua
ultima fatica è una raccolta di racconti ambientati, ad eccezione
di una trasferta valdostana, in Sicilia, nell'immaginaria Vigàta.
Incontro lo scrittore di Porto Empedocle nella sua casa romana. Nel
racconto “La paura di Montalbano” il commissario lascia la Sicilia e lo
ritroviamo addirittura in Val d'Aosta. «E' un'uscita fuori dalla
corazza. Montalbano non vuole essere promosso o farsi trasferire perché
teme di non conoscere i codici di comportamento di altri luoghi. Ma stavolta
va in vacanza in un mondo a lui completamente sconosciuto. Si sente come
un alieno e, privato delle sue sicurezze, può svelare a se stesso
il perché di una paura». La paura di vedere riflessa la sua
immagine nello specchio che riflette “gli abissi dell'animo umano“? «Sul
racconto che dà il titolo al libro si rifrange il delitto di Cogne,
che ha turbato tutti, indipendentemente dalle ipotesi di colpevolezza.
Un estraneo che ammazza un bambino di due anni è qualcosa di mostruoso.
Ma nell'ipotesi che sia stata la madre a ucciderlo, è l'inaspettato
mostro che è dentro di noi a farci paura. Di fronte a fatti simili,
capisci che potresti essere tu la persona che agisce in quel modo. E proprio
di questo, pur in una situazione diversa, si rende conto Montalbano».
A proposito di Cogne: oggi per risolvere un caso si fa sempre più
ricorso alla polizia scientifica. Anche Montalbano ricorre ai “camici bianchi”,
ma è solo un tassello di una costruzione più ampia, fatta
delle convinzioni che ha maturato nel corso delle indagini. Può
comportarsi così perché è un commissario letterario?
«Oggi demandiamo alla scienza ciò che non siamo in grado di
capire in qualità di esperti di una certa branca. Una volta il medico
ricorreva alle analisi per avere conferma di una sua intuizione. Montalbano
fa lo stesso: la “scientifica” per lui è solo la garanzia di un'ipotesi
investigativa già delineata». Ma Montalbano non ha il fiato
dell'opinione pubblica e delle TV sul collo… «Montalbano è
fortunato, ha solo due o tre giornalisti che gli ronzano attorno. Oggi
invece processi e indagini si svolgono tra televisioni e giornali. E spesso
pervengono a risultati affrettati». Se Montalbano trovasse un suo
caso discusso a Porta a Porta, come reagirebbe? «Gli prenderebbe
un colpo. Quando si trova di fronte ai microfoni balbetta, anche perché
gli viene chiesto di anticipare risultati dei quali è ancora incerto».
Per gli altri racconti da cosa ha tratto ispirazione? «Alla base
c'è sempre un fatto di cronaca vera, elaborato per renderlo irriconoscibile.
Il quarto segreto, ad esempio, è nato dalla lettura delle statistiche
sul numero mostruoso di operai che ogni anno muoiono per incidenti sul
lavoro. Mi sono chiesto: “E se qualcuna di queste morti bianche fosse procurata
per screditare un'impresa”»? Camilleri, il suo investigatore resiste
senza telefono cellulare. «Ho trasferito in lui la mia idiosincrasia
per il cellulare. Forse ce l'ha, ma lo lascia a casa». Per la prima
volta il commissario collabora con i carabinieri, cosa che sembrava impossibile…
«Sì, ma lo fa soltanto per il rispetto che prova verso un
investigatore più bravo e più forte di lui, un maresciallo
dei carabinieri che in punto di morte deve risolvere un caso, altrimenti
non se ne va in pace». Il primo racconto si apre con il protagonista
che legge un romanzo di Carlo Lucarelli e in tutto il libro ci sono riferimenti
ad altri scrittori. «Sono piccoli omaggi. Per esempio “Ferito a morte”,
il titolo del secondo racconto, è anche quello di un libro di Raffaele
La Capria». Insomma, come sta Montalbano? «Sta male, perché
io continuo a chiedergli spunti per un nuovo romanzo che lui non vuole
darmi. In un romanzo dovrebbe mettere in discussione la sua condizione
di poliziotto dopo il G8 a Genova e dopo i fatti di Napoli». Sono
trascorsi circa dieci anni dall'esplosione del suo successo. Se la sente
di fare un bilancio? «Ho scritto romanzi riusciti e altri meno, ma
il bilancio è positivo perché sono riuscito a conservare
la mia idea di romanzo, che per me, oltre ad appassionare e divertire,
deve far riflettere. Il fatto che i critici riconoscano nei miei libri
un certo impegno sociale mi dà molta soddisfazione». I lettori
sono sulla sua stessa lunghezza d'onda? «Non sempre. Una signora
mi ha scritto una letteraccia per aver trovato nei miei libri un tono critico
verso l'attuale governo. Ma io credo che chi scrive un racconto d'attualità
abbia il dovere di parlare dell'attualità e di esprimere il suo
punto di vista. Uno scrittore non è un giornalista, che a tutti
i costi dev'essere obiettivo». Come risponde a chi l'accusa di eccessiva
prolificità? «Eccessiva prolificità rispetto a chi?
Rispetto a Balzac non sono prolifico. E nemmeno rispetto a Georges Simenon.
La differenza è che mentre Simenon ci ha messo una vita per scrivere
214 romanzi, io dal 1978 ne ho scritti diciassette. La prolificità
non esiste, esiste il ritmo che riesci a mantenere. Quando mi accorgerò
che la mia scrittura non cresce più o addirittura regredisce, mi
fermerò. Anche perché non mi divertirei più».
Scrivere per lei è un divertimento? «E' un lavoro serio. Ogni
tanto puoi perdere una giornata su una frase, e allora sudi e ti disperi.
Ma è sempre meglio che perdere una giornata al catasto o in miniera.
Kafka scriveva per liberarsi dalla monotonia della sua vita di bancario,
la letteratura era uno sfogo, un momento di relax. Oddio, poi il suo momento
di relax è diventato l'incubo della nostra esistenza quotidiana…»
Il romanzo poliziesco italiano conosce un momento d'oro, anche sulla scia
del suo successo. Non c'è il rischio che per assecondare il mercato
si pubblichi qualche “bufala”? «E' un rischio che bisogna correre,
sarà il pubblico a decidere. In Italia i gialli hanno promosso una
letteratura d'indagine e di attenzione alla società che prima non
c'era. Il merito è di Giorgio Scerbanenco, che cominciò a
descrivere una Milano terribile con libri straordinariamente verosimili.
E' quanto fa oggi Lucarelli con Bologna e Rimini, Marcello Fois per la
Sardegna, Massimo Carlotto col Nord-Est, e lo stesso faccio io con la Sicilia».
Qual è l'ultimo giallo che ha letto? «“I cani di Riga”, dello
svedese Henning Mankell. Il suo protagonista, Wallander, ha molti punti
in comune con Montalbano. Sta invecchiando, ha la fidanzata lontana, passeggia
al porto per riflettere e gli piace mangiare». E l'ultimo giallo
italiano? «“Lo stato delle anime” di Giorgio Todde, uno scrittore
sardo che ha ambientato il libro alla fine dell'Ottocento, nella sua isola.
L'investigatore si chiama Efisio Marini, è un imbalsamatore e pare
sia realmente esistito. Gran bel giallo».
Nicola Zamperini