Il Corriere della sera,
27.1.2002
ITALIANI Una critica scritta in francese
Ospiti d’onore al Salone del Libro di Parigi: ecco come siamo visti
PARIGI - Come è cambiata la letteratura italiana, nell'immagine
dei francesi? Dove è finito quel filo resistente che ci ha legati
a Parigi per tutto il secondo Novecento? E che cosa è rimasto dello
slancio degli anni Ottanta, quando l'editoria d'Oltralpe guardava ai nostri
«giovani scrittori» come a novità da importare? Ne sapremo
di più durante il 22° Salone del Libro di Parigi, che si aprirà
il 22 marzo prossimo e che avrà come ospite d'onore proprio l'Italia.
(Il che ha già provocato una dura polemica la settimana scorsa,
quando il ministro francese dalla Cultura, Catherine Tasca, ha invitato
Berlusconi a rinunciare alla sua presenza in quanto «ospite sgradito»).
Intanto, giriamo queste domande a quegli intellettuali francesi che in
un modo o nell'altro hanno a che fare professionalmente con la nostra letteratura:
editori, critici, traduttori. E proprio al ricordo del passato si richiama
René De Ceccatty, il quale legge da tempo gli italiani sia come
critico del quotidiano Le Monde sia come consulente della casa editrice Seuil, dove ha un piccolo ufficio con le pareti bianche, nel cuore di Saint
Germain: «Gli scrittori che ancora oggi, dopo Calvino, Moravia, Sciascia
e Eco, hanno più ascolto in Francia sono quelli che hanno esordito
negli anni Ottanta: Tabucchi, Del Giudice, De Carlo, Rasy». Le
ragioni? L'immaginario e i modelli culturali di riferimento: «Sono
tra i pochi scrittori che sin dall'inizio erano capaci di uscire dal guscio
nazionale: Tabucchi guardava al Portogallo, De Carlo agli Stati Uniti,
Del Giudice alla Mitteleuropa, Rasy alla Francia. Una letteratura italiana
che dimenticava di essere italiana, come se guardasse al suo Paese dall'esterno».
Gli anni precedenti, quelli della sperimentazione, non hanno lasciato traccia?
«La letteratura ermetica della neoavanguardia, da Manganelli a Malerba,
è stata scoperta tardi, però ai francesi non è mai
piaciuta molto». E i cambiamenti di questi ultimi anni, l'imporsi
di una buona letteratura di genere (gialla o noir ), l'attenzione alla
realtà del consumo postmoderno e tecnologico? De Ceccatty non nasconde
tutta la sua indifferenza: «Brizzi, Ammaniti, Culicchia? Ho molta
difficoltà a leggerli. E' una questione di linguaggio, l'apertura
della letteratura alla lingua e ai gerghi delle classi sociali medio-basse...Il
linguaggio parlato in traduzione diventa qualcosa di artificiale. E poi
è un tipo di letteratura, quella dei cosiddetti pulp , che vuole
stabilire a tutti i costi una complicità con il lettore: un fenomeno
di rispecchiamento. Io preferisco Claudio Piersanti o Gilberto Severini».
Si parla del successo, anche francese, di Susanna Tamaro («che non
si rivolge certo alla sua generazione, anzi parla alle mamme e alle nonne»)
e dell'attenzione per Alessandro Baricco («che sembra uscito da una
scuola di scrittura creativa, è artificiale»). Si parla anche
della dispersione di Camilleri presso troppi editori. Poi ci sono le passioni
del critico: Rosetta Loy, Consolo, Pontiggia, De Luca, «la cui personalità
piace ai francesi, per il carisma, il profilo da vecchio attivista
politico, operaio un po' mistico».
Se ci si rivolge a Teresa Cremisi, da tredici anni direttore editoriale
della Gallimard, un'italiana che regge la casa editrice più prestigiosa
di Francia, bisogna evitare di parlare di «generi», «generazioni»,
«cambiamenti». Se si accenna a Lucarelli, a Fois e al nuovo
noir italiano, ribatte: «Non riesco a vedere che cosa sia cambiato:
Scerbanenco era più o meno la stessa cosa». Teresa Cremisi,
seduta nel suo piccolo ed elegante ufficio, tiene a precisare che «l'atteggiamento
francese per l'Italia è come sempre rispettoso, come quello per
l'Irlanda o per la Spagna». Nessuno ne dubitava. La lista dei «suoi»
autori è lunghissima: Calasso, Magris, Citati, Mariotti, lo stesso
Lucarelli, Serena Vitale, De Luca, ma si potrebbe continuare. Inutile,
secondo Teresa Cremisi, cercare di cogliere prospettive o stili dominanti:
contano
solo le singole voci.
«Si traduce quasi tutto, ma con molto ritardo» dice Martine
Vangeertruyden che dirige per Le Seuil la collana italiana e ha rifiutato
in passato la Tamaro e Baricco «senza pentimenti». «Così
succede, per esempio, che la scuola degli scrittori noir, con Lucarelli
e Fois, venga presentata dai giornali come una scoperta recentissima.
La stessa cosa è accaduta con i pulp, che su Libération
sono stati salutati con enfasi quando in Italia non se ne parlava quasi
più. I giornali hanno sempre l'esigenza di inquadrare gli autori
in filoni e fenomeni». Martine, però, non nega la vitalità
di alcuni generi: per esempio, appunto, il giallo-noir: «Interessante,
si tratta di romanzi molto radicati nella cultura italiana, con aspirazioni
civili e politiche». Comunque, sottolinea che nel gradimento dei
francesi per le letterature europee non siamo più al primo posto:
ora trionfano gli spagnoli, che hanno un tipo di narrativa «più
divertente, più impostata sull'intreccio. Mentre la lettura degli
italiani rimane per lo più una cosa da intellettuali».
Non bisogna camminare molto per raggiungere l'appartamento di Jean-Paul
Manganaro, il re dei traduttori: un'ottantina di romanzi dall'italiano
al francese, una lista interminabile, da Gadda a Calasso, da Camon a Fleur
Jaeggy, alla Ballestra. Anche per lui il discrimine è negli anni
'83-'84: Tabucchi, Del Giudice, Busi, De Carlo, Tondelli. «Gli ultimi?
No, non mi sembra che i cannibali abbiano avuto un grande impatto, mi sembrano
svaniti nel nulla, a parte qualcuno». Accenna alla perdita di Bernard
Simeone, il maggior saggista, critico e traduttore degli italiani, come
a una lacuna grave. «Purtroppo ha coinciso con la morte di un altro
grande scrittore, Francesco Biamonti, che lo stesso Simeone aveva promosso
in Francia». Dice che non vede molta vitalità nella letteratura
contemporanea: «Oltre a Del Giudice,
Tabucchi, Consolo, Arbasino (incredibilmente tradotto male e poco),
che cosa c'è? Camilleri non è letteratura, è prodotto
di consumo. La Tamaro, tutta protesa verso la virtualità del bene,
non mi interessa molto. Baricco sì, interessante e schizofrenico,
con prove buone e altre meno convincenti. Antonio Moresco sì, ma
l'ho proposto ad alcuni editori senza successo. E' un peccato che non ci
sia più Tondelli. Ma certo, rispetto agli anni '60 e '70, è
tutto cambiato. I personaggi tipo Calvino e Pasolini non esistono più,
c'erano anche condizioni politiche e ideali molto più vivificanti».
Manganaro, di padre siciliano e di madre bordolese, accenna a una lettura
molto critica della cultura italiana di questi anni: «Sono rimasto
scosso dall'invasione di misticismo e trascendenza come necessità
espressiva anche nella vita
quotidiana. E' tramontato il razionalismo del dopoguerra: una resa
incondizionata, un antilaicismo arrogante e violento che si riflette nella
vita civile, ma anche nella letteratura».
La libreria Torre di Babele, in rue du Roi de Sicile, da diciassette
anni è un luogo di ritrovo per intellettuali, lettori, scrittori,
critici. Fortunato Tramuta, che la gestisce, ne è fiero. Siciliano
di Agrigento, 48 anni, gran lettore. «La data storica per la letteratura
italiana all'estero è l'84, l'anno in cui i cosiddetti "giovani
scrittori" furono presentati al Salone del Libro di Francoforte. Da allora
le cose sono andate sempre meglio». Sempre meglio? «Prima la
nostra letteratura era conosciuta diciamo per i classici: Pavese, Moravia,
Morante, Pasolini, Sciascia e Calvino su tutti, l'italiano più francese,
il più venduto». Tramuta ricorda che per avere Lo stadio di
Wimbledon di Del Giudice «la gente veniva a bussare quando la libreria
era già chiusa». E Umberto Eco? «Ha dato una spinta.
Poi la nostra immagine si è rinnovata
anche per fattori extraletterari: la moda, per esempio. Qui non siamo
più i macaronì». La Torre di Babele vende soprattutto
libri in italiano, pur avendo un pubblico francese. Come vanno i nostri
scrittori in riva alla Senna: Tabucchi? «Sì, benissimo».
De Carlo? «Mai avuto successo, qui». De Luca? «Bene sin
dal primo libro».
Busi? «Non ha raggiunto il lettore». Brizzi? «Uno
sfacelo». Baricco: «Bene Seta , il più facile».
I pulp ? «Troppo ripiegati in situazioni regionali o locali. Per
vedere i supermercati, il sangue, eccetera, i francesi preferiscono leggere
gli americani. E non hanno torto».
Paolo Di Stefano