QuiTouring, Anno XXXI N.8, settembre
2001
Vigàta e Montelusa. LA SICILIA DI CAMILLERI
Porto Empedocle, Agrigento e dintorni: un viaggio reale nei luoghi
fantastici in cui vive Salvo Montalbano, il commissario più amato
dagli italiani, protagonista letterario e televisivo.
Nato nella Londra nebbiosa di Conan Doyle, cresciuto nella Francia livida
e marcia di Simenon, incarognito nelle giungle urbane di Dashiell Hammett
e Raymond Chandler, il romanzo giallo trova oggi le sue trame e i suoi
delitti sulle sponde del Mediterraneo. Un Mediterraneo che ormai è
un mondo nel mondo, ammalato di ipertrofia geografica, affratellato dagli
odi etnici. Che, come scriveva Fernand Braudel, è sempre più
“la misura di tutte le cose”.
L’Algeri di Yasmina Khadra, la Barcellona di Manuel Vázquez
Montalbán, la Marsiglia magrebina di Jean-Claude Izzo, l’Atene balcanizzata
di Petros Markaris: il “giallo” scende in Grand Tour dal gelido Nord verso
un Sud sempre meno levantino e solare, che ha smarrito le sicurezze della
storia e dell’identità etnica e religiosa, cementificato in città
violente e tentacolari, globalizzato anche dalla letteratura. Assetato
di calore e di polvere, il giallo ha spezzato le catene del divertissement
logico e i vincoli dell’intreccio deduttivo, si è fatto aspro e
disordinato, malvagio e spregiudicato in un mare brulicante di criminali
senza speranze né motivazioni e di detective malinconici, di investigatori
gourmet, di piedipiatti appassionati di jazz, blues e buone letture.
E dove, se non nella Sicilia sudoccidentale e greco-araba, il romanzo
giallo poteva racchiudere in un cerchio così perfetto antiche ascendenze
– la tragedia greca – e nuove tendenze – l’ansia estrema di mediterraneità?
Dove, se non in questa fetta di Sicilia tagliata tra Gela e Sciacca, potevano
trovar casa Andrea Camilleri e Salvo Montalbano? Lo scrittore e il commissario
di polizia più amati dagli italiani il cui ultimo loro libro, L’odore
della notte, sta tuttora terremotando le classifiche.
Come ogni meridionale dannato e beato all’esilio volontario, prima
che come scrittore da decenni trasferito a Roma, Camilleri distilla una
Sicilia depurata da eccessi di contemporaneità, filtrata attraverso
memorie e sensazioni di gioventù, frequentata e vissuta per interposta
persona (nella fattispecie il commissario Salvo Montalbano). Una Sicilia
di persone e gente, più che di fatti e posti. Montalbano indaga
in pianerottoli di condomini anonimi, tra effluvi di pasta e broccoli e
sarde a beccafico; interroga pensionati in vestaglia e ragionieri in pantofole
che di cognome magari fanno Lapecora; non s’illanguidisce curvo su doppi
whisky in bar desolati come in un quadro di Hopper, ma si esalta in trattoria,
davanti a un piatto di triglie fritte; persino i delitti su cui deve far
luce, per quanto efferati, s’ingentiliscono in “ammazzatine”. Un po’ come
nei libri del commissario francese Sanantonio, Camilleri insaporisce un
genere letterario codificato dalle mode con una lingua tutta sua, l’inedito
patois italo-siculo che trova nell’ineffabile Catarella il suo sgangheratissimo
Ariosto.
Gli autori del Nuovo Giallo Mediterraneo hanno promosso la città
a protagonista, al pari dei suoi delinquenti e dei suoi desolati giustizieri.
Ne hanno descritto con minuzia strade e quartieri, umori e atmosfere. I
lettori di Izzo o Montalbán possono sovrapporre le pagine dei loro
libri alle piante delle loro città, e trovarvi perfetta corrispondenza.
Con Camilleri il gioco è impossibile: invano vi affannereste coll’indice
sulle cartine a cercare Vigàta, provincia di Montelusa, tra Fela
e Fiacca. Nei suoi romanzi i luoghi trasfigurano in geografie fantastiche,
i toponimi si aggrovigliano in cartografie immaginarie. Eppure Vigàta
è più vera del vero.
Esiste.
Decreto di re Ferdinando II di Borbone: “A contare dal 1° gennaio
1853 la Borgata del Molo di Girgenti sarà separata dall’Amministrazione
Comunale di quella città e formerà un Comune distinto con
Amministrazione propria e indipendente”. È l’estratto dell’atto
di nascita di Porto Empedocle, provincia di Girgenti (l’Akràgas
greca, l’odierna Agrigento). Ce lo rammenta Camilleri stesso in Biografia
del figlio cambiato, romanzo “in quadri” della vita di Luigi Pirandello,
altro celebre empedoclino in un fazzoletto di terra fertilizzato dalla
letteratura, considerando che la Racalmuto di Sciascia è a pochi
chilometri verso nord. Porto Empedocle – allora una manciata di case arroccate
tra il mare di zolfo e la collina di Girgenti – aveva trovato nome, per
regio decreto; glielo toglieranno i suoi figli più illustri, che
la ricorderanno con un altro non suo. Pirandello la ribattezza Nisia, o
Vignetta, o la Marina. Diventerà Vigàta, la città
del commissario Montalbano.
A Porto Empedocle/Vigàta
Porto Empedocle, oggi. Un paesone grasso e arrotolato tra costa e colline,
che corre ad abbracciare Agrigento in una fuga interrotta dai templi che
tremolano e svaporano nella calura, tra costoni di marna bianchissima calcinata
dal sole e sfarinata dal vento, lungo il mare azzurro stritolato dai moli
del porto che lo fanno sfuriare su spiaggette rosicchiate dalle onde. Scomparsi
i carri carichi di zolfo a fare spola tra la stazione ferroviaria e i mercantili
all’ancora, i depositi di minerale sulla spiaggia, gli scaricatori gialli
di polvere, come li descrisse, forse per l’ultima volta, Pirandello. Oggi
sulle banchine bivaccano i turisti in partenza per Linosa e Lampedusa,
magari con l’ultimo Montalbano chiuso nello zaino, sullo sfondo da archeologia
industriale della Montedison in abbandono. E nella centralissima via Roma
consumata dallo struscio serale, dove si passeggia guardati a vista da
gente che sui marciapiedi s’impigrisce a cavallo di una sedia esercitando
l’antica arte della “taliata” – sguardo straboccante di parole che brilla
solo in occhi siciliani – , è difficile ritrovare anche la Vigàta
del commissario, drammaticamente urbana, vibrante di intrighi metropolitani,
profumata di seducenti “fimmine svidisi”.
C’è qualche indizio culinario, come il ristorante San Calogero,
dove Montalbano affoga le amarezze della vita e della professione nel sughetto
di tenerissimi “purpitieddri”; qualche segnale glottologico, come un passo
carrabile che perentoriamente invita a “lasciare libero lo scarrozzo”,
rammentandoci che siamo nella città di Catarella; e qualche testimonianza
sussurrata a mezza voce, come il ricordo della strage di dieci anni fa
(superstite anche Camilleri, ignaro avventore del caffè Albanese),
apogeo della guerra sotterranea tra vecchia mafia e nuova, feroce “stidda”
agrigentina. Eccola, la Sicilia di Montalbano: non quella a misura d’audience
degli sceneggiati televisivi, tutta monumenti barocchi e cartoline scelte
qua e là, ma quella educata e selvaggia, civile e barbara, bellissima
e sfregiata da unghiate di cemento armato. La Sicilia del Caos.
“Io sono figlio del Caos”, scrisse Pirandello, alludendo – ma non solo
– alla contrada Càvusu, dove si trova la sua casa natale, che un
impiegato dell’anagrafe traslitterò in Caos, con precisione etimologica
chissà quanto consapevole, dal momento che Càvusu era “la
corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xos”.
Verso Agrigento/Montelusa
Appena fuori Vigàta, sulla provinciale per Fela (torniamo alla
nostra toponimia parallela), Villa Caos si acquatta in un lembo di campagna
arsa e segaligna. Una cancellata ne sbarra l’ingresso circondato da un
enorme parcheggio deserto, l’interno non è visitabile. Sul retro,
il pino sotto il quale sono interrate le ceneri dello scrittore (tornate
in Sicilia nel vaso greco ora esposto al Museo Archeologico d’Agrigento)
sembra il monumento di uno scultore contemporaneo, scheletrico, astratto,
ucciso da un fulmine maligno. Spingendosi sull’orlo del dirupo, vengono
i brividi: la costa fugge verso San Leone, litorale prediletto degli agrigentini,
per poi risollevarsi in altopiani coperti di campagna, giù giù
fino a Gela; in basso la spiaggia del Caos, smunta riga di sabbia lungo
la falesia candida e strapiombante, disegna un burrone sul mare di cobalto,
come a Ponza o a Salina; dall’altro lato, in posa da sfinge sulla sua acropoli,
fumosa dietro le quinte di grattacieli e tangenziali del furore edilizio,
sta Agrigento (Montelusa, la chiamò proprio Pirandello). E alla
prima sera, quando la via Atenea che traversa la vecchia Girgenti si offre
al passeggio, si illuminano i templi a valle, appesi al buio come diamanti
nella notte. Monumenti che “un popolo divino elevò ai suoi dei umani”,
disse Maupassant.
Potete trovare il testo completo del servizio sul numero di settembre
2001 di Qui Touring
Testo di Ernesto Fagiani, foto di Emanuela De Santis