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COSTA MI HA INSEGNATO A SCRIVERE (Intervista a Andrea Camilleri)

I ricordi si affastellano e si incrociano con riflessioni sull'arte e la vita. Paesaggi umani si innestano su paesaggi naturali. La figura del maestro emerge da una giornata di sole, oppure da un pomeriggio piovoso. Le impressioni avanzano con una loro precisa temperatura, nel racconto di uno scrittore di culto, affabulatore d'eccezione, regista, sceneggiatore, poeta, forse il solo in Italia capace di scatenare veri fenomeni di fanatismo, un uomo cresciuto, anche lui, alla scuola di Costa. "C'era una giornata magnifica - dice Andrea Camilleri, nella sua lingua musicale, fatta, come quella che ha inventato sulla pagina, di parole materiche e respiri umoristici e suspense quel primo giorno che misi piede all'Accademia, mentre dentro c'era un ambiente buio, cupo, illuminato solo da qualche lampadina". Il teatrino di via Vittoria dovette sembrare un luogo d'iniziazioni segrete, un posto non salutare, al ragazzo di Porto Empedocle che già da qualche anno mandava "da quel sommergibile affondato che era la Sicilia strani messaggi in forma di poesia al resto d'Italia, che più d'uno raccoglieva". Anche perché, come racconta, in quel piccolo angolo di una grande e stordente città, ci capitò un po' per caso: "Avevo scritto una commedia, nel '47, intitolata Giudizio a mezzanotte, che vinse il premio Firenze. La giuria era presieduta da Silvio d'Amico, che mi scrisse poi incoraggiandomi a sostenere l'esame all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica come allievo regista. Devo dire che durante il viaggio di ritorno da Firenze a Porto Empedocle, che allora durava tre giorni, rilessi la commedia e mi sembrò ignobile. Così la buttai dal finestrino. Era l'unica copia. L'anno dopo andai a fare l'esame, ma finalizzando tutto alla possibilità di frequentare quegli ambienti letterari romani che mi parevano chissà cosa. Sennonché mi trovai di fronte Orazio Costa, cioè a dire uno dei cervelli più acuti che abbia mai incontrato in vita mia". Il primo incontro non fu rassicurante. Dominava, al contrario, un clima inquisitorio e punitivo che ancora adesso Camilleri ricorda con nitidezza: "Ho conosciuto Costa alla fine del 1949, quando vinsi il concorso all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica come allievo regista…Allora si portava una tesi scritta e non ci fu un punto, dico uno solo, della mia tesi (il tema era Così è se vi pare di Pirandello), sul quale Orazio si trovasse d'accordo. Costa, che era un trentacinquenne elegantissimo, aveva un'aria che diventava sempre più distaccata e inquisitoria. Dopo un'ora e mezzo, mi fermai. D'Amico mi chiese perché mi ero bloccato, ed io gli risposi che non vedevo per quale motivo dovessi farmi torturare dentro una stanza buia quando fuori c'era un sole bellissimo. D'Amico mi incoraggiò ad andare avanti. Con Costa restammo in disaccordo fino all'ultima domanda. Lui mi chiese quale titolo avrei scelto se avessi avuto molti soldi a disposizione per fare una regia. Pare che tutti rispondessero Edipo re, Amleto. Io risposi La Vedova allegra. Orazio disse: "Non è una risposta seria", d'Amico disse: "E' una risposta serissima". Così me ne andai, convinto di non farcela. Abitavo in un alberghetto in via del Lavatore, ma decisi di andarmene ad Ostia da un mio amico. Dopo dodici giorni, comprai il biglietto per tornare in Sicilia ma mi venne l'ispirazione di passare da via del Lavatore: trovai un mucchio di telegrammi di mio padre che disperatamente mi cercava per comunicarmi che ero stato preso all'Accademia con la massima borsa di studio. Ero l'unico allievo ammesso". Il giovane, enigmatico maestro iniziò così la sua opera di "dirottatore", non lavorando su corde emotive, private, ma affidandosi piuttosto al modello della relazione intellettuale: "Fu la sua cultura letteraria a fare da grimaldello presso di me. Detto questo, dopo due mesi decisi di lasciare l'Accademia perché non potevo stare tutti i giorni dentro una stanza con un individuo che era un iceberg dal punto di vista umano". Camilleri, che aveva solo ventiquattro anni e nessuna dichiarata vocazione masochista, stava per tornare ai cari luoghi, non senza conflitti, quando apparve sulla sua strada una signora che gli farà cambiare idea, e grazie alla quale inizierà un rapporto d'arte e d'amicizia destinato a non spegnersi. Quella donna era la madre di Costa. "Un giorno – continua lo scrittore siciliano – mi telefonò la signora Costa: "Vorrei vederla senza che Orazio sappia". Presi il treno e andai a Napoli. Mi trovai di fronte una vecchietta che mi disse: "Ho saputo da Mario Ferrero che lei vuole andarsene. Ma non può farlo. Darebbe un grandissimo dispiacere a mio figlio Orazio, ed io non ho nessuna voglia che mio figlio Orazio abbia dei dispiaceri". Mi apparve, dal suo racconto, un altro Costa: un Costa più umano, che ogni sera si confidava con sua madre,. Così decisi di rimanere. Ma ben presto, per altre ragioni, mi buttarono fuori dall'Accademia". La relazione maestro-allievo si trasformò così in una collaborazione artistica, quando, nel 1950 Camilleri divenne assistente di Costa al Piccolo Teatro della Città di Roma. Ma soprattutto iniziò un'intesa, una complicità, una pratica di reciproco ascolto che si nutriva di forti scontri ("La mia non voluta laicità mi faceva rifiutare certe forme di calvinismo teatrale di Orazio") e paterne riflessioni. "Più volte intervenne nella mia vita privata. Io andavo a chiedergli spesso consiglio, convinto che le sue parole fossero sempre disinteressate e dettate da un affetto profondo per quello che lui era stato capace di vedere in me". "Mi leggeva le sue poesie, i suoi diari – continua l'autore di best-seller come Il ladro di merendine o Il birraio di Preston – e quella cosa meravigliosa che erano i suoi diari dei sogni. Quando mi sposai e nacque la mia prima figlia, volle fare da padrino. Poi ha cominciato a frequentare la mia casa di San Miniato, a passare Natale con me, Capodanno con me. Eravamo capaci di fare le tre, le quattro del mattino, parlando non solo di teatro, ma anche di politica, letteratura, di noi stessi. Questo filo non si è mai interrotto: la distanza può avere indebolito la frequentazione ma non la profondità dell'affetto. Proprio perché eravamo lontani, in realtà accadevano episodi misteriosissimi. Mia nipote nacque prima di quanto si pensasse. Alle sette del mattino squillò il telefono. Orazio era a Firenze e mi disse: "Ho sognato una grande gioia nella vostra casa. Cosa è successo?". Ci capitava anche di avere una contemporaneità di sogni". Ci fu, poi, ad un certo momento, una consegna, una trasmissione di ruolo: "Quando lui se ne andò dall'Accademia, designò me come suo successore per l'insegnamento di regia, che ho svolto dal '74 al '98. Sapeva che designava l'ex allievo più infedele al suo rigore teologico del teatro". Stranamente, Costa non andò mai a vedere uno spettacolo di Camilleri (come regista ne ha firmati più di cento), il quale però ancor oggi legge quest'assenza come un "atto d'amore": "Spiegò a mia moglie che temeva che non gli piacessero". A Camilleri invece quelli di Costa piacevano molto, e ne individuava già allora il tratto d'autore, la firma, nella capacità che il maestro aveva di "sopraelevare il tono di un testo": "Le racconto un episodio che forse nessuno sa – continua lo scrittore – Quando nel '50 mise in scena Il poverello di Copeau, assistetti ad un'irruzione di Silvio d'Amico che voleva sconsigliare Costa dal rappresentare quel testo: gli sembrava un elenco telefonico. Orazio lo mise in scena lo stesso e devo dire che è lo spettacolo più bello che abbia mai visto in vita mia. In virtù di quella capacità che Costa aveva di scoprire la spiritualità che ogni atto di teatro contiene. Voglio fare un esempio. Nel finale del primo tempo, Francesco, finalmente spoglio dei vistosi abiti da ricco, indossato il saio fatto di juta, scalzo, con un bastone in mano, felice della trovata povertà, faceva un urlo sovrumano (con il quale Tonino Pierfederici rischiò di rimetterci i polmoni), poi spezzava il bastone sul ginocchio, e cominciava a ballare da solo seguendo un suo pensiero. Credevo che ci avrebbero linciato. Invece ci fu un momento di commozione e di applauso a scena aperta. Costa aveva il coraggio dello spirito". Camilleri, come Costa, è una figura controcorrente. Come il suo maestro, è schivo, ostinato, vive il successo con stupore. Quando improvvisamente l'Italia si svegliò, qualche anno fa, e collocò i suoi romanzi (non solo quelli con Montalbano protagonista) alle vette delle classifiche, lo scrittore parlò di un complotto, di una cospirazione. E ancora oggi ama ripetere che continua a scrivere come se i suoi fossero mille lettori e non centinaia di migliaia. Come Costa, è uno che segue la propria voce fino in fondo e che ama ridisegnare, raffinare, i contorni di un'esistenza non gregaria, convinto del fatto che le mediazioni servano a poco. "Sì, questo atteggiamento me l'ha insegnato lui – confessa – Ma lui mi ha insegnato ben altro: mi ha insegnato a scrivere. Mi spiego meglio. Quando Orazio prendeva un personaggio da un testo e ti diceva in che modo lo si poteva far vivere, il suo esame era così esaustivo, così completo, il ricavo era così assoluto, che alla fine il testo era come un guscio vuoto. Lui diceva: questo personaggio lo devi pensare in modo tale che entri a casa tua, che lo incontri la mattina dopo che sei stato in bagno. Ecco, con i miei personaggi cerco di vivere così". Non avevano le stesse idee politiche, Orazio e Andrea. Orazio era cattolico ("ma più che altro era cristiano"), Andrea era di formazione laica. Orazio fu pesantemente contestato dagli allievi, nei cosiddetti anni di piombo; Andrea si metteva a dormire e ad occupare con loro. Eppure, nel ricordo di Camilleri, lo scontro non fu tra conservazione e rivoluzione. Tant'è vero che lo stesso Dario Fo, chiamato dai ragazzi dall'Accademia a tenere dei corsi, rimproverò i ragazzi: "Non pensate di aver fatto la cosa giusta". "In verità – ricostruisce Camilleri – Costa non fu cacciato, se ne andò". E cosa pensava il maestro dei libri dell'ex allievo? "Sì, gli davo da leggere i miei manoscritti. Gli piacevano moltissimo anche se un po' si terrorizzava rispetto a certe scene erotiche o blasfeme, che però, diceva, riusciva ad accettare perché le descrivevo con ironia e divertimento". Le tracce di quel lontano "dirottamento" non si sono però perse per strada. Sopravvivono nella scrittura: "L'unico maestro che ho avuto e che sono disposto a riconoscere come tale è Orazio Costa. Cosa conservo del teatro? La mia aspirazione di scrittura che è già ne La concessione del telefono o Il birraio di Preston è di arrivare ad una sorta di sguardo extra-diegetico. Quando si apre il sipario, vediamo apparire due personaggi che nessuno ha descritto. Li vediamo in quel momento e desumiamo tutto dal modo in cui parlano. Ora, a me succede di scrivere i dialoghi e da questi desumere l'aspetto fisico dei personaggi: è quasi una prassi teatrale e non letteraria. Faccio uso, per esempio, di quelli che Orazio chiamava i colpi di scena minuscoli che però preannunciano eventi importanti: tutti i miei romanzi sono costruiti secondo una tecnica teatrale anche se teatrali non sono. Più in generale è confluita nel romanzo l'idea dello spettacolo, nel senso che io non riesco a scrivere un capitolo in senso tradizionale, ma per sequenze". E sopravvive soprattutto il ricordo di uno scambio sincero che se non alterò molto le forme del parlarsi (Camilleri ha continuato a dare del lei al suo maestro per tutta la vita), portò ad una comunicazione sotterranea, al sincronismo dei sogni, a quel sentirsi anche a distanza, fin quasi ad uno scambio d'identità, come testimonia l'ultima telefonata: "Mi chiamò una settimana prima di morire. Con una voce bellissima, squillante: "Ti cercherà un ragazzo che in partenza voleva fare una tesi di laurea su di te, poi si è convinto a farla su di me. Spero di farlo tornare alla vecchia idea, quindi preparati". Avevamo poi stabilito che una mia giovane amica che abita vicino Firenze, a Natale sarebbe andata a prenderlo in macchina per portarlo da me. Gli anticipai infine che il romanzo che stavo scrivendo (La gita a Tindari, Sellerio) l'avrei dedicato a lui. Perché racconto, tra le altre cose, il rapporto mimico di un uomo con un albero".

Katia Ippaso