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Grande festa a Tindari

Montalbano va in gita in un paesino del messinese. Ed è subito giallo. Ma anche il solito travolgente successo. Andrea Camilleri racconta: di sé, del suo commissario e delle loro passioni comuni
 
di Fabio Gambaro
 
 
Il successo del commissario Montalbano sembra essere inarrestabile. L'ultima avventura del personaggio inventato da Andrea Camilleri, La gita a Tindari, ha venduto 200mila copie in pochi giorni, schizzando in testa alle classifiche. Posto dove resterà per parecchio. Anche perché, a detta dei librai, il fatto che l'editore sia di nuovo Sellerio sembra conferire al nuovo romanzo dello scrittore siciliano una marcia in più rispetto a quelli pubblicati dai colossi Mondadori e Rizzoli. Come se i lettori apprezzassero in modo particolare questo gesto di fedeltà nei confronti dell'editore palermitano che lo ha scoperto all'inizio degli anni Novanta, senza dimenticare che la sobria eleganza della collana «La memoria» della Sellerio aggiunge al libro un inequivocabile tocco di classe. 
In ogni caso, al di là di editori e collane, Camilleri si conferma una vera e propria passione nazionale. Il fenomeno letterario dell'ultimo decennio. Un fenomeno che però ha tutta una sua preistoria, sconosciuta ai più, che Camilleri ci ha raccontato un pomeriggio d'inverno nella sua casa di campagna sul Monte Amiata: «Ho cominciato a scrivere quando avevo 12 anni. Poi, durante il liceo, due eccellenti professori mi hanno fatto conoscere il meglio della nostra letteratura di quegli anni, vale a dire Montale, Ungaretti, Alvaro e molti altri. Naturalmente, leggevo anche i romanzi stranieri che riuscivano a passare attraverso le maglie della censura fascista. Per esempio, nel 1942 La condizione umana di Malraux mi permise di guardare alla politica in modo diverso, facendomi scoprire che poteva essere altra cosa dal fascismo, che in casa mia era molto presente, giacché mio padre era un fascista convinto che aveva fatto la marcia su Roma. Nel dopoguerra altri due libri fondamentali furono Conversazione in Sicilia di Vittorini e Paesi tuoi di Pavese. Insomma, grazie alle letture, il mio modo di vedere la realtà era cambiato e la volontà di scrivere era uscita rafforzata. Da Porto Empedocle e da Palermo, dove frequentavo la facoltà di Lettere, mandavo articoli, racconti e poesie a riviste e giornali. Erano messaggi in bottiglia che talvolta venivano pubblicati, per esempio dall'Italia socialista di Aldo Garosci o dal Mercurio di Alba de Céspedes». Gli esordi poetici del futuro romanziere ottennero pure alcuni riconoscimenti importanti, se è vero che nel 1947 le sue poesie – insieme a quelle di Pasolini, Zanzotto, Dolci e David Maria Turoldo – vennero selezionate dal Premio Libera Stampa, nella cui giuria figuravano Contini, Bo e Ferrata. E sempre quello stesso anno Ungaretti inserì il giovane siciliano in un'antologia pubblicata dalla prestigiosa «Collana dello Specchio». La svolta della sua vita avvenne però quando vinse il Premio Firenze per una commedia teatrale inedita: «Il testo non era un granché e infatti, mentre tornavo a casa in treno, lo gettai dal finestrino. Nella giuria però c'era Silvio d'Amico, che mi fece ottenere una borsa di studio per il corso di regia dell'Accademia d'Arte Drammatica di Roma. Così mi trasferii nella capitale, dove in seguito iniziai a lavorare come regista per diversi teatri, cercando di rinnovare il vecchio repertorio con autori come Adamov o Beckett, di cui feci la prima italiana di Finale di partita». 
 
PASSIONI CHE COVAVANO. Tra teatro e televisione, Camilleri stette a lungo lontano dalla scrittura, tornandovi solo alla fine degli anni Sessanta: «Dopo aver lavorato tanto sui testi degli altri, avevo voglia di scrivere qualcosa di mio. Nacque così Il corso delle cose, che però non trovò subito un editore. Solo nel 1978, dopo che ne avevo tratto uno sceneggiato televisivo, un piccolo editore accettò di pubblicarlo. Quando finalmente ebbi il libro in mano, mi venne voglia di scriverne un altro. Nelle carte di mio nonno avevo trovato un volantino che metteva in guardia i commercianti di zolfo di Porto Empedocle contro un altro commerciante di Licata: da quel frammento del passato presi lo spunto per Un filo di fumo, pubblicato nel 1980». 
Fu quello il primo di una serie di romanzi ambientati nella Sicilia del secolo scorso, l'ultimo dei quali è La mossa del cavallo, nei quali lo scrittore  ha dato libero sfogo alla passione per la storia e per le inchieste che cercano di ricostruire avvenimenti complessi e sfuggenti: «Sciascia, che per me è un modello intellettuale più che linguistico, mi ha insegnato la curiosità nei confronti della storia e del suo modo di proiettarsi nel nostro presente. Mi ha insegnato a utilizzare i documenti del passato, per costruire romanzi la cui traccia iniziale si trova negli archivi. La stagione della caccia per esempio nasce da un dialogo che ho trovato nella famosa Inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia del 1875-6: al presidente che gli chiedeva se avesse da segnalare fatti di sangue, il sindaco di un piccolo paese rispose "Assolutamente no, Eccellenza, fatta eccezione di un farmacista che per amore ha ucciso sette persone". Anche la storia del Birraio di Preston l'ho scovata in quell'inchiesta parlamentare, che per me è stata – ed è – una vera e propria miniera d'oro. Naturalmente, poi, i dati storici hanno bisogno di essere manipolati e reinventati, anche perché un romanzo non deve essere obiettivo come un saggio. Utilizzo i documenti, ma invito il lettore a non considerarli mai come verità assoluta, senza dimenticare che mi piace confondere le piste e trovare soluzioni strutturali originali. La concessione del telefono si presenta come un faldone contenente esclusivamente documenti e dialoghi, mentre nel Birraio di Preston non seguo la sequenza cronologica della vicenda: nei due casi invito il lettore a ricostruire il romanzo. Il teatro, infatti, mi ha insegnato che la partecipazione del fruitore è fondamentale: il teatro senza spettatore non è niente, così il libro senza lettore non è nulla». Ma la passione per la storia è anche all'origine di due saggi storici veri e propri: La bolla di componenda e La strage dimenticata. Quest'ultimo ricostruisce il massacro di 114 prigionieri avvenuto nella prigione di Porto Empedocle nel 1848: «Avevo trovato diverso materiale su questo fatto storico dimenticato e l'avevo passato a Sciascia, pensando che sarebbe stato un ottimo argomento per un suo libro. Invece mi restituì il tutto, dicendomi che avrei dovuto scriverlo io a modo mio. Cosa che poi ho fatto». 
La passione per la storia, certo. Ma le basi del successo di massa, Camilleri le costruisce a metà degli anni Novanta, con le prime avventure del commissario Montalbano: La forma dell'acqua e Un cane di terracotta, la cui genesi oggi racconta così: «Di solito non scrivo mai seguendo l'ordine cronologico della vicenda, ma, mentre stavo scrivendo Il birraio di Preston, mi chiesi se sarei stato capace di scrivere tutto un romanzo dall'inizio alla fine, seguendo la cronologia degli avvenimenti. Decisi di fare una prova, scegliendo il genere poliziesco, perché – come ha scritto Sciascia nella sua Breve storia del romanzo poliziesco – impone allo scrittore una specie di gabbia fissa che costringe a seguire un certo tipo di logica e  temporalità. Il genere ideale per il mio tentativo. Così è nato Montalbano, che nel primo romanzo era ancora una semplice funzione narrativa: un personaggio incompleto e mancante di spessore. Motivo per cui decisi di scrivere un secondo romanzo, cercando di migliorarne i tratti e i contorni. A quel punto pensavo veramente di aver chiuso con Montalbano, solo che invece il personaggio è tornato a trovarmi in modo regolare. E così i suoi romanzi sono diventati cinque. Va detto però che fin dall'inizio ho sempre cercato di allargare il campo e andare al di là del semplice romanzo poliziesco, aggiungendo altri punti di vista, mischiando più storie nello stesso libro, incrociando l'amore e la politica, la mafia e la letteratura». 
A questo proposito Camilleri ricorda volentieri che il commissario Maigret di Simenon è uno dei padri naturali del suo personaggio: «Entrambi si interessano più all'esplorazione di un contesto che alla semplice soluzione dell'enigma; solo che, mentre Maigret è rimasto sempre lo stesso, Montalbano invecchia di libro in libro, è segnato dagli anni e dalle inchieste. Nell'ultimo romanzo, dove ha ormai raggiunto la cinquantina, inizia a fare il bilancio della sua vita dove non mancano delusioni e rimpianti. Per questo oggi Montalbano è più amaro e scettico che nei primi romanzi». E a chi gli fa notare che in fondo il suo commissario conserva pur sempre un certo atteggiamento epicureo nei confronti della vita, egli risponde così: «Considero i piaceri della vita materiale un aspetto fondamentale dell'esistenza, ma sono anziano e faccio mangiare a Montalbano tutte le cose buone che non posso più gustare». A conferma degli scambi esistenti tra autore e personaggio, aggiunge: «Alcuni mi hanno accusato di essere buonista, un'espressione che detesto. Forse è vero, ma quando ho iniziato a scrivere le storie di Montalbano ero già anziano; trent'anni fa avrei fatto un personaggio più cattivo. Nella finzione Montalbano ha cinquant'anni, in realtà però ha la mia età, e a 74  anni non si può essere cattivi».
Tutta l'opera di Camilleri ha come sfondo Vigata, una cittadina immaginaria che è la trasfigurazione letteraria di Porto Empedocle, la sua città natale. Questa scelta non è solo il frutto di un'esigenza narrativa, ma anche il segno di un'indiscussa fedeltà a una tradizione culturale, quella siciliana, alla quale lo scrittore si sente più che mai legato: «Appartengo totalmente alla cultura della Sicilia e alla letteratura di Verga, Pirandello, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Brancati, Sciascia, Bufalino e Consolo. Benché abiti a Roma da cinquant'anni, continuo a sentirmi vicino a questa tradizione, a cui mi sono sempre interessato. Per esempio a teatro, dove, oltre a tanto Pirandello, ho anche adattato la Cavalleria rusticana di Verga o I Viceré di De Roberto. Come scrittore poi le devo tantissimo, ed essa è presente nel mio lavoro perfino in certi dettagli, nelle citazioni più o meno nascoste. La passione per i dialetti per esempio mi è nata leggendo La paura di De Roberto. Naturalmente, l'amore per la letteratura siciliana non m'impedisce di apprezzare altri scrittori, che talvolta diventano perfino dei punti riferimento importanti, come ad esempio Gogol, o Sterne, il cui Tristam Shandy è per me un vero capolavoro. Apprezzo molto anche Manzoni, soprattutto quello della Colonna Infame, testo fondamentale che mostra come dovrebbero comportarsi gli scrittori nei confronti della storia e dell'ingiustizia». Il testo manzoniano non a caso era molto caro anche a Sciascia, uno scrittore a cui l'autore della Gita a Tíndari era molto legato e di cui oggi ricorda con emozione l'amicizia: «Lo avevo contattato all'inizio degli anni Sessanta per domandargli di scrivere un soggetto per la televisione sul caso Notarbartolo, un progetto che poi abortì. Restammo in contatto fino a quando, qualche anno dopo, diressi una riduzione teatrale del Giorno della Civetta. Da allora abbiamo continuato a frequentarci regolarmente, anche se non facevo parte della cerchia ristretta degli amici intimi. Avevamo però le stesse preoccupazioni intellettuali e amavamo gli stessi libri. Sciascia mi manca molto, soprattutto per il suo rigore intellettuale e la passione per la politica. In Italia abbiamo avuto un'epoca felice in cui nella nostra cultura agivano tre grandi personalità come Pasolini, Moravia e Sciascia. Si poteva essere in disaccordo, ma la loro presenza era senz'altro utile e benefica al dibattito culturale e politico. Oggi non c'è più nessuno capace di affrontare la realtà e di dibatterla come facevano loro. Anche un intellettuale come Eco, che pure ha molti meriti, non mostra lo stesso interesse per la politica». 
 
LETTORI POCO POLITICI. La politica invece è una delle grandi passioni di Camilleri, che ha sempre sostenuto la necessità, per l'intellettuale, di interessarsi alla realtà in cui vive, senza rinunciare a sporcarsi le mani, se necessario: «Forse la letteratura non può cambiare la realtà, ma almeno può contribuire a cambiare la coscienza della gente. È ciò che è accaduto a me con La condizione umana, di conseguenza i miei romanzi nascono sempre da questa preoccupazione. La mossa del cavallo era un tentativo di spiegare le relazioni tra la politica, la mafia e un uomo onesto. Purtroppo, i critici non hanno colto l'intenzione politica del romanzo e si sono limitati a elogiarlo dal punto di vista letterario. Il pubblico non si interessa al mio discorso politico, non vuole ascoltarlo. Quando tempo fa ho denunciato pubblicamente il pericolo rappresentato da Berlusconi e dalle sue televisioni che stanno annegando il Paese in una cultura della volgarità: molti lettori hanno fatto finta di non aver sentito. Si divertono troppo quando leggono i miei libri: preferirei che ridessero di meno e riflettessero di più». 
Per questo nei suoi romanzi il padre del Commissario Montalbano affronta senza mezzi termini i mali che affliggono la società siciliana, a cominciare dalla mafia, anche se ammette di non riuscire a comprenderne l'evoluzione: «Nei romanzi storici, attraverso alcuni personaggi, ho mostrato i comportamenti della mafia del secolo scorso, i cui codici erano abbastanza definiti e riconoscibili. Le regole della mafia dei nostri giorni mi sono invece sconosciute, e anzi mi sembra quasi che questa mafia non abbia più regole. Di conseguenza, diventa difficile scriverne, giacché quando si scrive di un fenomeno senza conoscerne le regole, si rischia di sublimarlo letterariamente. E questo evidentemente la mafia non se lo merita di certo. Così nei romanzi che si svolgono nel presente, la mafia appare solo indirettamente, è piuttosto una presenza sfuggente e indefinibile. Sulla mafia contemporanea preferisco scrivere articoli o saggi, per cercare di capirne la trasformazione, che secondo me è strettamente connessa alla crisi dei legami familiari. In passato la mafia si basava sulla famiglia, oggi invece i mafiosi non si conoscono più nemmeno tra di loro. Ma sul tema della mafia, vorrei aggiungere che le mentalità e i comportamenti dei siciliani sono molto cambiati negli ultimi anni: la diffidenza nei confronti dello Stato e dei non siciliani si è notevolmente ridotta, quindi anche l'omertà è meno compatta. Oggi i siciliani sanno che il problema della mafia è un problema collettivo che riguarda tutti, non fanno più finta di non vedere e di non sentire. Insomma, sebbene talvolta si possa avere l'impressione che nulla sia cambiato, in realtà i cambiamenti ci sono stati. E sono stati cambiamenti importanti, dovuti tra l'altro anche all'avvento della televisione, che in questo caso ha permesso un'apertura sul mondo e un aumento della circolazione dell'informazione. Questo è uno dei rari casi in cui si può dire bene della televisione e dei suoi effetti». 
Nei romanzi di Camilleri, però, i critici continuano a leggere una visione del mondo dominata dal pessimismo e dal fatalismo, dove la scoperta delle verità non sempre coincide con l'esercizio della giustizia: «Non è vero, non sono pessimista né fatalista. Ho soltanto la coscienza dei problemi che restano da risolvere e della lunga strada che resta ancora da percorrere. La mossa del cavallo si conclude con un catalogo dei sogni che indica proprio la volontà di continuare a combattere. Ma occorre combattere senza credere ai miracoli, occorre un esercizio testardo della ragione per raggiungere la verità. La mia lunga militanza comunista – che per altro non ho mai rinnegato – ha lasciato in me alcune tracce importanti, tra cui anche la parola d'ordine gramsciana: il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà».
Un'intervista con Camilleri non può concludersi senza affrontare il tema del dialetto, evocando quell'impasto linguistico tutto particolare, fatto d'italiano e siciliano, che caratterizza i suoi romanzi: «La scelta di questa lingua è il risultato di una lunga riflessione. Cinquant'anni fa, quando ho iniziato a scrivere, utilizzavo un italiano molto classico e puro. Era però una lingua astratta, con la quale non riuscivo a trovare la tonalità e il ritmo giusti. Le cose sono cambiate quando, molto più tardi, ho scelto di utilizzare la lingua della piccola borghesia siciliana che appunto mescola l'italiano e il siciliano. Si tratta della lingua che ancora oggi utilizzo con le persone della mia età, quando torno in Sicilia. A proposito di questa mescolanza, Pirandello ha detto che il dialetto esprime il sentimento di una data realtà mentre l'italiano ne esprime il concetto. In questa lingua, dunque, coesistono la dimensione affettiva e quella razionale. Nei miei primi romanzi dominava ancora l'italiano, ma di libro in libro il dialetto ha conquistato sempre più spazio, anche perché alla lingua della piccola borghesia ho sovrapposto altri strati dialettali dei contadini o degli operai, ottenendo una lingua che letterariamente offre molte possibilità». 
A partire dal Birraio di Preston, al siciliano si sono poi aggiunti altri dialetti, come il lombardo, il piemontese o il ligure, una scelta che talvolta ha suscitato qualche perplessità, ma che lo scrittore difende con convinzione: «In Italia, la varietà linguistica regionale corrisponde a una varietà culturale, che contribuisce certamente alla ricchezza del Paese. Ruzante, Goldoni, Porta, Belli e molti altri rappresentano questa tradizione dei dialetti, che purtroppo nel Ventesimo secolo è stata un poco dimenticata. Secondo me, invece, dovrebbe essere rimessa al centro della nostra cultura, per combattere l'omologazione culturale prodotta dalla televisione e dalla cultura di massa, contro cui, già trent'anni fa, ci metteva in guardia Pasolini. Gli italiani oggi parlano una lingua piatta, uniforme e colonizzata dal lessico tecnologico anglosassone. Nei dialetti invece c'è una linfa vitale per la nostra lingua e per la nostra cultura». Una linfa da cui peraltro Camilleri sa anche estrarre effetti ironici assai riusciti: «È vero, ma più che l'ironia del linguaggio, vorrei che i lettori cogliessero l'ironia di certe situazioni o di certe riflessioni. In ogni caso ridere fa bene, perché la letteratura deve sempre procurare piacere. Io infatti non ho mai sopportato la letteratura punitiva nei confronti del lettore». Una cosa che i suoi innumerevoli ammiratori hanno certamente capito da tempo.

© Magazine Littéraire / Fabio Gambaro. Per l'Italia Diario della settimana