CAMILLERI, CHE NOIA
di FRANCESCO MERLO
Dovrebbe avere la pazienza di leggere l'ultima fatica politica della
Commissione parlamentare antimafia, così piena di errori storici
e di strafalcioni ambientali (tutti naturalmente a fin di bene), chi volesse
capire dove porta "la sicilianità" come genere letterario, e cosa
produce quella Sicilia immaginaria delle macchiette e degli stereotipi
di cui lo scrittore Andrea Camilleri è il massimo e forse l'ultimo
geniale divulgatore di successo.
Camilleri è il gran ciambellano di un espediente retorico, la
sicilitudine appunto, che ormai dilaga con lui nei libri, nei giornali,
sui palcoscenici di paese e di città, nelle televisioni, nella dialettica
politica e persino nella campagna elettorale. Al punto da alimentare robuste
voci su una sua candidatura al Senato per i DS, goliardico epigono di Leonardo
Sciascia come Domenico Guerrazzi lo fu di Manzoni e Guido Da Verona lo
fu di D'Annunzio.
Davvero dunque per capire la "buona" retorica dell'ultimo documento
dell'Antimafia bisognerebbe studiare la "bella" retorica di Camilleri,
il suo italiano dialettizzato e i suoi irreali poliziotti siciliani, quelli
che "il vino ci piace assa' assa'", "e puri con le fimmini non si
sgherza", e Santuzza, e Dimonia... Dovrebbe insomma smarrirsi nella prosa
in "sicilianese" chi volesse capire la prosa in "antimafiese".
Preso nobilmente l'abbrivio contro la mafia a Catania, la Commissione
ha denunciato, spingendo il rigore sino alle tabelle e riempiendo di sdegno
le interviste, "la tragedia orribile dei suoi almeno cento morti ammazzati
all'anno", anche se quest'anno i morti ammazzati a Catania sono stati cinque
e l'anno scorso trenta, e prima ancora trentacinque (saranno una raffica
di errori di stampa "all'unanimità"?).
Insomma, c'è un rapporto davvero forte tra le Sicilie immaginare,
quelle che deformano la realtà per compiacere il senso comune, pittoresche
raffigurazioni che sempre confortano la gente, ormai convinta che in Sicilia
avvengano solo le cose più strane e più feroci, perché
della Sicilia si scrivono e amabilmente si raccontano solo le cose più
strane e più feroci. Così, in 99 pagine di relazione, la
Commissione non solo sbaglia date e nomi (compreso quello dello stesso
relatore, il senatore Eupreprio Curto) ma confonde e sovrappone anche quartieri
e periferie, e si perde in un racconto di maniera, tra bimbi allo sbando
e presunte zone inaccessibili alle forze dell'ordine...
Allo stesso modo Camilleri inventa una Sicilia arcaica, un'insularità
quasi biologica, come se la sicilianità fosse una qualità
del liquido seminale, un Dna, una separatezza che ovviamente non esiste
se non come stereotipo, come pregiudizio che raccoglie, in disordine, malanni
personali e banalità di ogni genere, nonne con le mutande a baldacchino
e zii preti, la voracità sessuale come espressione del lirismo di
un popolo, l'amicizia come retorica, l'omicidio come voce del Diritto amministrativo,
la pennichella come ritorno alla natura, le melanzane e la pasta con le
sarde come archetipo di una modesta ma sicura felicità. Il tutto
descritto con la lascivia sentimentale di certe orrende cose di noi stessi
che ci piacciono tanto, quasi fossero anacronistiche virtù, elisir
da paradiso perduto.
E' vero infine che la prolificità di Camilleri ricorda quella
di Simenon, che era nato in Belgio e dal Belgio era fuggito. Ma Simenon
non si rifugiò mai nella "belgitudine". Il grande scrittore la metteva
così: " ... me ne sono andato e ho avuto fortuna. Ho raccontato
i crimini che avrei commesso se non me ne fossi andato. Cos'altro si può
dire di chi ha avuto fortuna se non che se n'è andato?". Camilleri
invece la mette così: "Essere siciliano è la mia sola ragione
di scrittura. E sui muri della pur bella e complessa capitale isolana campeggia
un terrificante slogan: "Il mondo ha bisogno di un sogno imitare Palermo".
Anche questa è caricatura di Sicilia, anche questo è camillerismo.