Il Centro

Cultura & Società Martedì 19 gennaio 1999

Intervista all’autore presente con nove libri nella classifica dei cento più venduti in Italia nel ‘98

Camilleri e il suo Montalbano

L’inventore del commissario tra gialli e passione teatrale

 

di Paolo Di Vincenzo

Andrea Camilleri è senza dubbio l’autore italiano del momento. Intanto perché nella classifica dei primi cento libri più venduti nel 1998 (pubblicata nel Tuttolibri del quotidiano La Stampa) è presente con nove titoli (sui circa 40 italiani); poi perché le indagini del suo commissario Montalbano stanno replicando i successi di Simenon (autore che Camilleri conosce bene); infine, perché Montalbano presto sarà un film per la Rai. Nell’intervista che segue Camilleri racconta la sua passione per la scrittura e per il giallo, i rapporti con l’Abruzzo, il successo a 70 anni.

Che effetto le fa sapere di essere con nove titoli nei cento libri più venduti del 1998?

"Sinceramente non può farmi che piacere", risponde Camilleri, al telefono dalla sua casa romana, con la sua voce roca e una gentilezza di signore d’altri tempi, ha 73 anni, "apparte questo, però, il successo non mi ha scombussolato la vita. Per un po’ mi ha impedito di scrivere per le continue telefonate. Se il successo fosse arrivato quando ero più giovane forse sarebbe stato diverso".

Il suo commissario Montalbano è ispirato a qualcuno in particolare?

"No, sinceramente non c’è una figura alla quale io mi sia ispirato. E’ nato perché volevo scrivere un giallo. Come diceva Sciascia e anche Borges, il giallo è la forma più ingabbiante per uno scrittore, e allora è una sorta di autodisciplina. Questo personaggio nel primo libro, "La forma dell’acqua" (Sellerio), è ancora una funzione, cioè colui che risolve. Nel secondo, "Il cane di terracotta" (Sellerio), ho cercato di definirlo meglio. Il nome è siciliano, e poi è anche un omaggio a Manuel Vazquez Montalban, non tanto per i gialli (quelli con protagonista Pepe Carvalho) quanto per gli altri libri".

Vuol dire qualcosa della sua Sicilia, o della Sicilia di Montalbano se preferisce?

"La Sicilia di Montalbano è una Sicilia vera e allo stesso tempo completamente inventata. Spesso mi chiedono perché non parlo di mafia. Io la metto sempre, ma come un rumore di fondo. Non la conosco più bene, e non so se era possibile conoscerla 40 anni fa. Certi modi di agire della mafia di oggi non li capisco. Siccome questo è un problema enorme preferisco tenerla in secondo piano. Se devo parlare di mafia preferisco non parlarne romanzescamente. Ho una collaborazione con le pagine siciliane della Repubblica e lì me ne occupo da un punto di vista giornalistico".

Si offende se le dicono che l’ultimo lavoro "Trenta giorni con Montalbano" (Mondadori) delude un po’ i lettori dei precedenti quattro gialli?

"No, non mi offendo, capisco che possa un po’ deludere e capisco che la mia scrittura possa essere un po’ inadatta al racconto. Ma volevo cimentarmi con una forma più breve".

Quando uscirà il prossimo episodio?

"Credo di far passare almeno un anno. Il rischio è che si rimanga prigionieri del personaggio. Comunque, non lo faccio morire, non ci penso nemmeno".

L’amore per il giallo deriva dal suo lavoro sui gialli di Simenon per la televisione con Gino Cervi?

"Da quell’esperienza nasce la possibilità di capire il meccanismo del giallo. L’amore è quasi coincidente con la mia capacità di lettura. Sono stato un lettore precocissimo, mio padre leggeva i gialli Mondadori, che costavano 2,5 lire".

Maigret oggi è fuori moda?

"Il personaggio è ancora validissimo, non è mai vecchio. Il mio povero Montalbano, invece, invecchia man mano che vado avanti. Io ho curato la produzione dei telefilm per la Rai con Gino Cervi. Voglio raccontarle un piccolo episodio. Cervi era un attore straordinario, ma non imparava mai le parti a memoria. Allora quelle pause che si vedono, quando carica la pipa, quando si ferma a pensare, lui in realtà le faceva perché leggeva le battute. Gli piaceva molto questa sorta di improvvisazione".

Ha un metodo di lavoro?

"Sono un anarchico, scrivo in qualsiasi momento. Non ho orari, non ho la sacralità della scrittura. Ho dei nipoti che mi vengono a interrompere perché si è rotto il giocattolo. Allora io mi fermo, cerco di aiutarli, e poi riprendo a scrivere. Mia moglie mi dice che sono un corrispondente di guerra, che scrive in mezzo al rumore. Questo non vuol dire che non ritorni su una pagina, anche quattro o cinque volte. Mi capita di stare giornate intere alla macchina da scrivere (non scrivo al computer, qualche volta scrivo anche a penna) e, viceversa, certi giorni non faccio niente. Ma c’è una certa oralità, pongo le mie pagine al vaglio dell’ascolto. Per questo dico che sono un contastorie (una variante tutta siciliana del cantastorie, un personaggio che girava i paesi per raccontare i fatti più importanti, una sorta di cronista ambulante, ndr). Ma in Sicilia non ne ho più visti".

Lei quest’estate ha vinto il premio Flaiano per il quarto Montalbano "La voce del violino" (Sellerio). Ha conosciuto lo scrittore abruzzese?

"Sì, molti anni fa feci uno spettacolo teatrale e Flaiano, di cui conoscevo gli scritti, in particolare le critiche teatrali, pubblicò un articolo bellissimo. Poi accadde un’altra volta. Gli telefonai e ci conoscemmo. Ma non lo frequentai molto. Di certo lo apprezzo. E’ una sorta di carburante questa sua carica di ironia continua. Purtroppo Flaiano è ancora oggi attuale perché noi italiani non siamo cambiati. Anche di D’Annunzio ho una buona considerazione, sono sempre stato meno critico di quelli che erano i miei compagni più giovani".

E conosce l’Abruzzo?

"Sì, conosco le città, Chieti, L’Aquila, Pescara, ma anche gli aspetti più duri della regione. Per esempio tantissimi anni fa, quando ero aiuto di Orazio Costa, venimmo per un sopralluogo. Lui voleva mettere in scena, con Anna Magnani, "La figlia di Iorio". Orazio voleva impregnarsi dell’atmosfera abruzzese. Era il periodo di Pasqua, partimmo da Roma ma non arrivammo mai, rimanemmo bloccati sulla strada per una bufera di neve. Poi, non facemmo nemmeno "La figlia di Iorio" perché la Magnani venne chiamata per "La rosa tatuata" da Elia Kazan".