La religiosità di Provenzano
Ho davanti a me 72 tra lettere e biglietti che sempre una stessa persona invia o in risposta a lettere di altri (che però qui non prendo in considerazione) o per dare suggerimenti, consigli, pareri sulla conduzione di grandi e molteplici affari.
Coprono un arco di tempo che va dal 2001 al 2004.
La particolarità che appare subito evidente, a leggere in fila lettere e biglietti, consiste nel fatto che lo scrivente è una persona profondamente religiosa e animata da alti e severi principi morali.
Ogni lettera, ogni biglietto per quanto breve possa essere, termina sempre con la stessa formula:
“Vi benedica il Signore e vi protegga”.
Identico è sempre l’incipit:
“Con l’augurio che la presente vi trovi tutti in ottima salute. Come, grazie a Dio, al momento posso dire di me”.
Insomma, tutte le missive si aprono e si chiudono col nome di Dio.
All’interno di esse torna per 43 volte l’espressione: “Con il volere di Dio”.
Anche “la Divina Provvidenza” viene a essere citata in più occasioni:
“Ci dobbiamo accontentare della Divina Provvidenza del mezzo che ci permette”.
Le festività religiose sono ricordate puntualmente e con insistenza: “Ditemi se andiamo incontro a un Santo Natale”.
Oppure:
”A tutti vi auguro di passare Una Buona Felicissima Serena Santa Pasqua”, Oppure:
“In ricorrenza della Santa Pasqua per quello che il nostro Buon Dio ci permette di passare, di cuore vi auguro che potete passare UNA BUONA FELICISSIMA SERENA SANTA PASQUA uniti ai propri cari”.
E ancora:
“Vi auguro un Felicissimo Santo Natale, che sia portatore di bene, di salute, di pace, di serenità e di soddisfazione. Questa bottiglia la dovete aprire quando siete tutti presenti, tutta la famiglia. Due gocce l’uno alla mia salute”.
Dio insomma è sempre presente nei pensieri dello scrivente, egli certe volte se lo sente a fianco che lo protegge e in una lettera lo ringrazia
addirittura per averlo aiutato a trovare un nuovo luogo dove stare, migliore di quello di prima.
E’ più che naturale quindi che lettere e biglietti siano ricchi di buoni insegnamenti, di preziose regole di vita, sia pure un po’ all’antica:
“Ti prego di essere calmo, e retto, corretto e coerente, sappi sfruttare l’esperienza delle sofferenze sofferte, non screditare tutto quello che ti dicono, e nemmeno credere a tutto quello che ti dicono, cerca sempre la verità prima di parlare, e ricordati che non basta mai avere una sola prova per affrontare un ragionamento, per essere certi in un ragionamento occorrono tre prove, e correttezza, e coerenza”.
E ancora:
“Ricordati che sbagliare è umano, basta dirlo e si chiarisce”.
E ancora:
“Bisogna impegnarsi per portare a termine gli studi magari con qualche sacrificio: la laurea sarà meglio dell’eredità di un feudo”.
E ancora:
“Bisogna sempre sentire l’altra campana”.
E’ un uomo che pur avendo un immenso potere anche sul destino individuale delle persone che per motivi d’affari o altro vengono in contatto con lui, non impartisce ordini, non impone mai la sua volontà di numero uno dell’impresa della quale è il capo indiscusso.
“Il mio fine è pregarvi” - scrive.
E ancora:
“Io con il volere di Dio voglio essere un servitore, comandatemi e se possibile con calma e riservatezza andiamo avanti”.
Oppure:
“Sono nato per servire”.
E infine:
“Tu mi chiedi se io ho qualche consiglio in merito, cerco lo stesso da te, che tu potessi consigliare a me”.
A questo punto credo che tutti avrete capito che l’autore delle missive è Bernardo Provenzano e che le frasi da me citate sono estrapolate dai famosi “pizzini”.
Ma se le televisioni e la stampa non avessero dato largo e ripetuto spazio a
questi pizzini, avreste potuto intuire, dalle frasi da me appena lette, che erano state scritte da colui che era considerato il capo dei capi della mafia?
Appreso che sono di pugno di Provenzano, allora alcune frasi assumono immediatamente un significato diverso da quello della prima lettura. “Andare incontro a un Santo Natale” significa risolvere tutte le questioni aperte prima del 25 dicembre; il ringraziamento a Dio per averlo aiutato a trovare un nuovo luogo dove stare viene a dire che ha trovato un nascondiglio più sicuro; contentarsi del mezzo che la Provvidenza ha mandato equivale a dobbiamo contentarci di usare i pizzini per comunicare; e il “ragionamento” che bisogna affrontare con tre prove è la discussione, la “parlata” che tra mafiosi precede la resa dei conti.
Ma procediamo con ordine. Esistono, nella vita di Provenzano, due momenti ben distinti e diversi da loro.
Il primo momento è quello che gli fa guadagnare il soprannome di ‘u tratturi, perché dove passa lui non rimane in piedi nemmeno un filo d’erba.
Come mafioso, nasce col gruppo dei corleonesi capeggiato da Luciano Liggio e di Liggio diventa ben presto luogotenente assieme a Totò Riina.
E’, all’epoca, un bel giovane molto elegante che ci tiene ad esserlo. Liggio dice di lui che “spara come un dio, ma ha un cervello di gallina”. Liggio ritiene Riina assai più intelligente di Provenzano. E perciò considera Provenzano una specie di suo luogotenente in seconda. Lo adopera, in genere, come esattore e come killer. E Provenzano di buon grado si adegua ad essere il numero tre della gerarchia. Alla lunga, il giudizio di Liggio si rivelerà errato. Ad ogni modo, è certo che spara come un dio. E’ lui l’autore della famosa strage di viale Lazio a Palermo, quando, a capo di pochi uomini travestiti da poliziotti, sterminò l’intera banda del feroce e un po’ pazzoide Michele Cavataio, segnando così la definitiva supremazia dei corleonesi. Il boss mafioso di Riesi, Michele Di Cristina (che tra l’altro aveva preso parte alla strage di viale Lazio), prima di venire ammazzato agli inizi degli anni ottanta dallo stesso Provenzano, gli attribuiva non meno di quaranta omicidi. Va detto, per par condicio, che Di Cristina attribuiva lo stesso numero di omicidi a Riina. Obbediente al ruolo assegnatogli, quando Liggio perde gran parte del suo potere finendo in carcere, Provenzano non si oppone a che Riina diventi il capo della
mafia, e si mette in disparte. E’ latitante dal 10 settembre 1963, di lui si conosce solo una foto scattata nel 1959, quando aveva ventisei anni. Scompare, letteralmente. Tanto che a un certo punto si sparge la voce che sia morto di morte naturale.
E’ vivo, invece, e mentre Riina ingaggia una vera e propria guerra a suon di kalashnikov e di bombe e di stragi contro lo Stato, egli si dedica agli affari: mettendo sulla bilancia il suo peso di boss mafioso ottiene, attraverso famigliari e prestanome, appalti per la fornitura di apparecchiature sanitarie agli ospedali siciliani e per lo smaltimento dei rifiuti. Gioacchino Pennino, medico e uomo politico democristiano, ha rivelato che fu proprio Provenzano ad aiutare l’ascesa di Vito Ciancimino, il corleonese sindaco al tempo del sacco di Palermo. E quindi ne ebbe, in ricambio, la concessione di ricchissimi appalti edilizi.
Insomma, al riparo degli spari e degli scoppi assordanti provocati dalla guerra di Riina, potè continuare ad arricchirsi in silenzio. Venne perciò, per questo suo silenzio, sottovalutato da coloro che si occupavano della lotta alla mafia. Come lo era stato da Luciano Liggio.
In realtà Provenzano era un uomo furbo, abile ed accorto, poco propenso a esporsi in prima persona, ostile ai colpi di testa, ai gesti eclatanti, alle clamorose dimostrazioni di forza, e quando Riina perse la guerra, gli uomini di Cosa Nostra, che sapevano bene quale fosse lo spessore e, in modo direttamente proporzionale alla sconfitta dei metodi riineschi, l’aumentata autorità di Provenzano, lo elessero automaticamente a loro capo, senza che la nomina venisse turbata da faide e lotte intestine. Diremmo che fu eletto capo per acclamazione.
E qui comincia la seconda fase della sua vita.
Dalla sconfitta di Riina Provenzano ha saputo trarre un prezioso insegnamento e cioè che l’uso delle armi e della violenza paga assai meno di un’accorta gestione del potere basato sulle alleanze politiche e imprenditoriali.
Ma questa non era stata sempre la regola di condotta di quella che era definita la vecchia mafia? Ha scritto Henner Hess nel suo “Mafia” (Bari, 1973):
“Il mafioso /…/ ama velare la propria potenza. Basta guardare le fotografie
/…/ di un Vizzini o di un Russo, bravi borghesi in bretelle, la giacca piegata sul braccio, essi dominano il potere e non si fanno dominare dal potere. /…/ Ben sanno che dietro il velo della modestia la potenza viene percepita in modo più inquietante”.
E Provenzano, nelle frasi che ho prima citato, non appare un uomo tanto modesto che si dice addirittura destinato a servire gli altri?
Il vero mafioso d’una volta, cosciente della sua autorità, non ha bisogno di far ricorso alle armi per imporre il suo potere: basta la sua parola detta, basta la sua parola non detta. Basta la sua “immanenza”, come la definì un capitano dei carabinieri, Angiolo Pellegrini.
Per chiarire meglio questo modo di procedere della vecchia mafia, vorrei citare un mio personale incontro con il boss agrigentino degli anni ‘40 Nicola Gentile, Nick Gentile quando stava negli Stati Uniti, e semplicemente ‘U zù Cola quando stava in Sicilia. Capitò in un pomeriggio del dicembre 1949, un mio lontano parente mi aveva pregato di sostituirlo nella sua gioielleria romana per qualche ora e io a un tratto vidi entrare ‘U zù Cola che avevo intravisto una volta al mio paese in Sicilia. Indovinò di chi ero figlio, ebbe parole di stima per mio padre e cominciammo a parlare. Gli piaceva parlare. Infatti qualche anno dopo dettò a un giornalista, Felice Chilanti, le sue memorie americane e il libro ebbe come titolo “Vita di gangster”. Parlammo per tre ore, interrotti solo una volta dall’entrata di un cliente. Tra le altre cose, chiamandomi “duttureddru”, mi spiegò la sua idea di mafia. Che qui riporto.
“Duttureddru, se io entro qua dentro, Vossia ha in sacchetta una pistola, me la punta, io sono disarmato, e mi dice: ’Cola Gentile, inginocchiati!’ Io che faccio? M’inginocchio. Questo non significa che Vossia è un mafioso perché ha fatto inginocchiare Cola Gentile. Vossia è un cretino con una pistola in mano. Ora vengo io, Nicola Gentile, disarmato, qua dentro. E Vossia è disarmato. Io le dico: ‘duttureddru, guardi che mi trovo in una certa situazione…Devo chiederle d’inginocchiarsi’. Lei dice: ’ma perché?’ Duttureddru, io glielo spiego. Glielo spiego e riesco a persuaderlo che Vossia si deve inginocchiare per la pace di tutti. Vossia s’inginocchia e io sono un mafioso. Se Vossia si rifiuta d’inginocchiarsi, io le devo sparare, ma non è che ho vinto. Ho perso, duttureddru”.
Commentando questo incontro e queste parole nel suo “Cosa nostra”(Bari 2005), John Dickie scrive che Gentile “si sforza di presentarsi /…/ come qualcuno che /…/ ha sempre cercato la via della pace e della giustizia”.
Ma qui è il grave errore di giudizio di molti. Gentile non si sforza di presentarsi, Gentile è profondamente convinto d’essere un uomo che ha sempre cercato la via della pace e della giustizia. Il vero capo mafioso d’un tempo si sentiva investito dell’autorità di un giudice unico, di un equanime amministratore di giustizia. Un giudice che poteva decretare una condanna a morte senza che l'accusato potesse giovarsi di avvocati difensori o testi a discarico. A decidere la sua sorte era solo il senso di giustizia del giudice, il suo rispetto per la legge non scritta, e la motivazione della sentenza di morte era chiaramente indicata nel cadavere stesso del condannato: il sasso
in bocca, le scarpe sul petto, il taglio dei genitali. In un simile contesto, uccidere non era dunque una colpa, ma l’esecuzione di un atto di giustizia e quindi talvolta il giudice stesso poteva provvisoriamente assumere anche il ruolo di boia senza con questo sentirsi minimamente degradare dal suo altissimo ruolo.
Provenzano, nel momento nel quale assurge al trono di capo indiscusso, tenta, riuscendoci, di far fare a tutti i mafiosi una sorta di conversione a U, un ritorno a questi sistemi del passato, una specie di restaurazione.
La sconfitta di Riina ha dimostrato che la svolta impressa al modo di procedere mafioso, prima si spara e poi si ragiona, portava a una strada senza via d’uscita. Ora bisogna tornare al vecchio collaudato metodo, prima si ragiona e poi, come ultimissima ratio, si spara, ma evitando che degli innocenti ci vadano di mezzo. Questo è il senso che emerge da tutti i pizzini di Provenzano. Ragionare, discutere, riflettere a lungo prima di uccidere qualcuno. Cercare, fino all’ultimo, di evitarlo. Un morto, sostiene Provenzano, fa sempre danno. E in un memorabile pizzino, in risposta a chi gli chiede l’autorizzazione per uccidere un boss emergente, Provenzano lo invita a considerare se l’uomo che vogliono uccidere può fare più danno da vivo o da morto. Se da morto farà più danno che da vivo, nel senso della vendetta, della guerra intestina, allora è meglio lasciar perdere. Se invece fa più danno da vivo, allora non c’è problema a renderlo defunto.
Dunque non è minimamente in discussione l’omicidio, ma la convenienza
o meno di quell’omicidio. Ma dai pizzini seguenti riusciremo a sapere che Provenzano è riuscito a evitare la condanna a morte che gli era stata sottoposta per approvazione.
Però per un uomo che cita a ogni passo Dio e se lo sente spesso accanto che lo consiglia, ammazzare non è un peccato, non è il disconoscimento di un comandamento essenziale quale “non uccidere”?
Qui si tocca un problema assai complesso della personalità di Provenzano.
Il commissario Cortese che per otto anni ha guidato il gruppo che arresterà Provenzano nella cascina di Pian dei Cavalli (è lui quello che si vede entrare per primo nel covo), mi ha detto che il ritorno ai sistemi della vecchia mafia voluto da Provenzano risale al 1993 in seguito alla sconfitta della strategia riiniana.
Credo che la sconfitta dei metodi di Riina sarà stata non la spinta primaria
per la restaurazione, ma una specie di prova del nove di una convinzione che andava maturando.
Tanti mafiosi sono religiosi. Un feroce capomafia di Misilmeri, Momo Grasso, ogni anno, interpretava la parte di Gesù nella rappresentazione popolare della Passione. Ci teneva tanto che soffiargli la parte poteva risultare letale. Quando la polizia arresta il capomafia Pietro Aglieri si sorprende di trovare nell’appartamento dov’è nascosto una piccola stanza destinata a cappella con tanto di altare e statua della Madonna. Ancor di più si sorprende quando apprende che Aglieri aveva un padre spirituale, un prete col quale si confessava regolarmente. Ma non c’era da stupirsi. Aglieri, dopo l’uccisione di don Pino Puglisi da parte delle mafia, già si era voluto incontrare, da latitante, col parroco della chiesa della Magione per dirgli quanto fosse rimasto turbato da quell’omicidio. Aglieri era il figlioccio molto amato di Bernardo Provenzano e i due si tenevano in stretto contatto. La riforma di Provenzano prevedeva, tra le altre cose, l’instaurazione di nuovi rapporti con la Chiesa.
Ancora un esempio. Nel salotto di casa sua a Palermo il mafioso Giuseppe Guttadauro, aiuto primario dell’Ospedale civico, una sera del gennaio 2001, raduna due amici coi quali discute di appalti truccati, di lotti edificabili da comprare, di altri affari poco puliti. Non sanno d’essere oggetto di una intercettazione ambientale. In una pausa, uno dei tre,
cambiando discorso, dice che avrebbe voglia di fare un viaggio a Lourdes e di confessarsi. Attento, gli ribatte Guttadauro, al confessore che scegli. Bisogna che sia uno intelligente. A me è capitato di sentirmi dire dal confessore che la mafia era peccato, spiega. Al che io gli ho risposto -continua Guttadauro- ma dove sta scritto questo peccato?
Apro una piccola parentesi. Dunque esistono preti intelligenti, disposti cioè a capire e a perdonare la mafia e i suoi delitti, e preti non intelligenti che finiscono col fare la fine di don Pino Puglisi e di altri.
Il problema è che, almeno in Sicilia, troppi preti hanno avuto voglia di mostrarsi intelligenti con il malaffare. Ne ho parlato ampiamente nel mio saggio “La bolla di componenda”, bolla che risale addirittura al 1477 e allora si chiamava “Taxae cancelleriae et poenitentiariae romanae”, dove, tanto per fare due esempi, all’articolo 6 si perdonava la falsa testimonianza in tribunale e all’articolo 10 la subornazione dei giudici. Anche il furto veniva condonato dietro versamento di tarì due, grana 12 e piccioli 5, dopodichè, recitava l’atto, rimanendo libero e perdonato in foro coscientiae potevasi tenere il danaro come sua cosa propria giustamente guadagnata e acquistata”. Chiusa la parentesi.
Ho già detto che, secondo gli investigatori, la svolta di Provenzano risale alla metà del 1993. Prima che avvenga la svolta, il 9 maggio dello stesso anno, Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento pronunzia la sua forte condanna della mafia:
“Dio ha detto una volta: Non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio”.
Queste parole sembrarono passare inosservate; in realtà, come annotano Salvo Palazzolo e Michele Prestipino nel loro “Il Codice Provenzano” (Bari 2007), scavarono un solco profondo negli ambienti mafiosi. Antonino Cinà le giudicò una “sbrasata” da non prendere sul serio, ma al contrario quelle parole suscitarono una vera e propria crisi nella coscienza di un sicario come Ino Corso al quale Aglieri aveva raccomandato di andare di tanto in tanto in chiesa seguendo così le istruzioni di Provenzano:
“Quando so che domani mattina mi arriva un ordine di fare una cosa male,
e devo andarla a fare, ma che ci vado a fare in chiesa, fatemi capire che cosa devo andare a fare con la chiesa, che cosa ci devo andare a dire al Signore, non lo faccio più? Non lo posso mantenere, meglio che non ci vado”.
Ma le parole di Giovanni Paolo II per Provenzano ebbero un significato diverso da tutti gli altri; furono, ma questo è un mio parere assolutamente personale, una conferma, suonarono come un avallo se non addirittura come un’investitura.
Non era la conferma della politica dell’addio alle armi che lui aveva praticato e predicato da un certo momento della latitanza in poi? Non bisognava tornare all’antica autodefinizione mafiosa che gli uomini d’onore erano portatori di pace e di giustizia?
Oltretutto avere come alleati dei preti “intelligenti” alla maniera di Guttadauro sarebbe stato molto comodo per limitare i danni prodotti dai pentiti. Per un lungo periodo infatti Provenzano fa accostare dai suoi alcuni preti perché si facciano latori del suo messaggio a tutti coloro che intendono cambiar vita: “pentitevi sì, ma solo davanti a Dio, non davanti alla Giustizia, non collaborate mai con essa”.
Il piano di Provenzano non riesce perché non si trova un numero consistente di preti disposti a seguirlo. Ma le manifestazioni della sua religiosità diventano di giorno in giorno sempre più evidenti. E’ certo che, dietro sua richiesta, almeno due preti si recarono a trovarlo negli ultimi anni di latitanza. A un certo punto egli arriva a manifestare apertamente la convinzione che tutti i suoi atti abbiano il sostegno divino.
Ma ci crede veramente o si tratta di una finzione? Certo, se la volontà di Dio coincide con la sua, è chiaro che i dubbi che poteva avere uno come Ino Corso vengono automaticamente a cadere. Si può benissimo essere mafiosi e contemporaneamente andare in chiesa.
E questo può costituire, per Provenzano, un buon motivo per fingere. Ma, sempre a mio personale avviso, c’è un’alta percentuale di sincerità nella convinzione di Provenzano. Torniamo per un momento ai pizzini:
“Che Dio ci protegga nonostante tutto quello dicono e fanno e ci conceda la grazia di poter vivere sotto la sua luce”.
“Mio adorato Signore Gesù Cristo, insegna a conoscere e a parlare come
parla lo spirito di Dio e lo spirito di Cristo. Ti prego, esponemi le cose spirituale”.
“In qualsiasi posto, o parte del mondo, mi trovo in qualsiasi ora io abbia a comunicare sia parole, opinioni, fatti, scritto, chiedere a Dio il suggerimento, la sua guida, la sua assistenza, affinchè con il suo volere possano giungere ordine per lui eseguirlo affin di Bene”.
Ho corretto, nei brani citati dai pizzini, le più evidenti sgrammaticature.
Quando il commissario Cortese e i suoi uomini fanno irruzione nella casupola di Pian dei Cavalli vi trovano un quadro rappresentante l’Ultima Cena, due quadretti raffiguranti la Madonna, innumerevoli rosari di cui uno persino in bagno, tre bibbie, un calendario del 2000 con l’effige di padre Pio, un piccolo presepe, un libricino intitolato “Pregate, pregate,
pregate”, 91 santini vari di cui 73 tutti eguali, raffiguranti Cristo in croce con la scritta “Gesù io confido in Te”. Palazzolo e Prestipino suppongono che li distribuisse o li inviasse ai suoi amici. Io invece ne sono più che certo. Del resto anche Totò Riina, quando venne arrestato, aveva in tasca un santino.
A questo punto è necessario chiedersi cosa fosse la religione per Provenzano. O meglio, cosa sia, ancor oggi, per gran parte dei siciliani.
Ha scritto Sebastiano Aglianò nel suo intelligente “Che cos’è questa Sicilia?” edito per la prima volta nel 1945 ma ristampato da Sellerio (Palermo 1996) che a vedere la quantità di chiese che ci sono nell’isola e le folle di fedeli che le frequentano, si potrebbe credere che nessun popolo sia, al confronto, più cattolico. Ma in realtà le cose stanno diversamente. “La coreografia del cattolicesimo -dice testualmente Aglianò- trova facile appiglio nell’immaginazione degli abitanti, tocca poco l’animo o non lo tocca assolutamente. Il culto dei santi è molto diffuso: segno anche questo di esteriorità. Forme di idolatria si mescolano bizzarramente con i dettami di madre Chiesa”.
Coreografia, esteriorità, idolatria, dunque. E già nel 1874 Giuseppe Stocchi così aveva scritto sul quotidiano “La Gazzetta d’Italia” a proposito dei siciliani e la religione: “La natura del siciliano è intrinsecamente non religiosa, ma superstiziosa. Tale disposizione naturale è poi fomentata
dall’interesse; prima perché in quella specie di fatalismo, che è inseparabile da qualunque religione positiva, egli trova una scusa e quasi una sua giustificazione alla sua ritrosia al lavoro e al darsi attorno; poi perché le turpi condiscendenze di un sacerdozio ignorante gli addormenta la voce e i rimorsi della coscienza”.
E dunque, coreografia, esteriorità, idolatria, superstizione: questi gli elementi costituenti la religiosità di Provenzano. E di conseguenza le sue invocazioni a Dio e alla Divina Provvidenza sono più scongiuri, parole magiche, frasi antijettatorie che preghiere autentiche. Solo che, badate bene, non sanno di esserlo. Per concludere, vorrei citare un mimo siciliano di Francesco Lanza.
“Un contadino di Nicosia aveva nella vigna un pero che non faceva né fiori né frutti, per quanto quello stesse a curarlo, potandolo e innestandolo. Dopo qualche anno di inutile attesa il contadino si stuffò, pigliò l’accetta e
dei rami ne fece legna da ardere. Il tronco invece lo lasciò dov’era, all’acqua e al sole. Ora fagliando nella chiesa una statua di Cristo, quel tronco parve giusto giusto allo scultore appositamente ingaggiato. Il nicosiano gli dette il permesso di segarlo alla base e portarselo via. Lo scultore era bravo assai e la statua di Cristo, artisticamente intagliata, dentro la chiesa fece un bellissimo vedere, tanto che tutti i fedeli si fecero persuasi che un Cristo così bello e somigliante non poteva non essere miracoloso. Un brutto giorno al nicosiano si ammalò gravemente il figlio e il contadino si precipitò in chiesa e principiò a pregare rivolto alla statua:
‘ricordati che io, quando eri pero, ti ho coltivato e fatto crescere, sono sempre stato io a portarti via i rami, io ad avere la bella pensata di lasciarti in mezzo al campo, io a cederti allo scultore. Insomma, se non era per me tu Cristo non lo saresti mai diventato, saresti rimasto un pero sterile come tanti ce ne sono da queste parti’. Il Cristo non faceva zinga di stare ascoltando quelle preghiere, anzi pareva farsi sempre più distaccato via via che il poveretto lo supplicava. Finchè al nicosiano vennero a dirgli che smettesse di pregare: suo figlio era morto. ‘Ahi! -gridò allora battendosi la coscia- ‘pero, non facesti mai pere e Cristo, manco fai miracoli!”
Ecco. Resta da domandarsi da quale pero che non faceva pere era stata intagliata la croce di legno che Provenzano portava al collo al momento del suo arresto dopo 43 anni di latitanza.
Andrea Camilleri
Lectio Doctoralis in occasione del
conferimento della Laurea Specialistica Honoris Causa in Psicologia Applicata, Clinica
e della Salute (indirizzo Psicologia Applicata all’Analisi Criminale),
L'Aquila, 3 maggio 2007
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