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Laurea specialistica honoris causa in Sistemi e progetti di comunicazione ad Andrea Camilleri

Il 26 maggio 2005 l'Università di Pisa ha conferito la laurea specialistica honoris causa in Sistemi e progetti di comunicazione ad Andrea Camilleri.

Discorso del Magnifico Rettore
Profilo di Andrea Camilleri
Laudatio del Prof. Maurizio Alfonso Iacono


Lectio Doctoralis di Andrea Camilleri


Le fabbriche del credere

Sono perfettamente cosciente che le mie parole non saranno all'altezza della severità e della nobiltà di quest'Aula. E sono altrettanto convinto che quello che dirò è un argomento già ampiamente dibattuto tra gli studiosi della materia. Ma io sono solo un narratore, un romanziere, e credo che il migliore omaggio che io possa fare a questa Istituzione che mi sta indebitamente onorando è quello di non camuffarmi, di non nascondermi dietro una falsa apparenza, ma di mettervi al corrente, con semplicità, a modo mio, di una inquietante considerazione.

Se apro un'Enciclopedia e vado a consultare la voce Comunicazione, trovo scritto ad apertura:
Tutta la fenomenologia dell'ambiente relazionale e sociale può essere vista come comunicazione. In altri termini tutto ciò che arriva agli organi sensoriali di un organismo può essere considerato come un dato informativo che l'organismo riceve ed elabora.
Ma questa concezione così ampia ci può permettere di fare ben pochi progressi nello studio dei processi di comunicazione.
Questo sta a significare, in altri termini, che vivere è sostanzialmente comunicare. Non comunicare può quindi dirsi non vivere?

Parafrasando Shakespeare si potrebbe dire che tutto il mondo (che dico il mondo? L'Universo!) è comunicazione, volontaria o involontaria.

Colto da una leggera vertigine all'idea delle infinite implicazioni di ciò che ho appena letto, metto da parte l'Enciclopedia e prendo tra le mani un più modesto Dizionario. Qui, alla voce relativa, si trovano scritte alcune definizioni più rassicuranti nel senso che in qualche modo restringono il campo.
Comunicazione:“1) il comunicare, ciò che si comunica; 2) Contatto che permette di comunicare; 3) Insieme di strutture, impianti, mezzi che stabiliscono un collegamento; 4) Trasmissioni di informazioni mediante messaggi da un emittente a un ricevente; 5) Comunicazione giudiziaria; 6) Comunione eucaristica”.

Ma anche così ristretto, palettato, il campo rimane vastissimo e al tempo stesso alquanto vago e sfuggente (considerate che si va dalla più elementare comunicazione, “ieri è stata una bella giornata”, alla comunicazione giudiziaria che oggi come oggi è cosa complessa assai e infine alla comunicazione con Dio, che è cosa di una complessità totale, assoluta).

Prenderò allora in considerazione esclusivamente il punto primo: davvero la comunicazione è solamente ciò che si comunica? Non manca qualcosa di fondamentale in questa prima definizione?

Consentitemi un esempio storico, un po' brutale, per niente accademico, ma significativo. Il XX congresso del PCUS, il primo dopo la morte di Stalin, si aprì a Mosca il 16 febbraio 1956. Erano presenti migliaia di delegati di tutto il mondo. La delegazione italiana, capeggiata da Togliatti, era composta da Scoccimarro, Bufalini e dal napoletano Cacciapuoti. Sottolineo la napolitanità di Cacciapuoti a ragion veduta. All'apertura, dopo gli inni e i saluti di rito, un sovietico che sedeva al tavolo della presidenza si alzò per fare una comunicazione, consistente nell'interminabile elenco dei compagni deceduti dall'ultimo congresso con relativo elogio individuale. Il penultimo fu un giapponese. “E infine”- concluse - “è morto il compagno Josif Vissarionovic Stalin”. E si risedette, senza aggiungere parola. Il silenzio che calò improvviso tra le migliaia di delegati sorpresi, interdetti, perplessi venne rotto dall'immediato commento del napoletano Cacciapuoti, un commento che non posso riferire in quest'aula, ma mi limito a dire che è fatto di una sola parola di cinque lettere che comincia con “c” e finisce con “o”. Cacciapuoti era stato il primo a capire il senso e il significato di quella comunicazione. Se andiamo a guardar bene, ad allarmarlo non era stata la mancanza di una pur minima parola d'elogio funebre, poteva darsi che la vera e propria commemorazione fosse stata demandata ad altri di più elevato livello (e infatti poco dopo di Stalin parlò Krusciov, nuovo segretario del partito, e si trattò di una damnatio memoriae ), ma era stata l'inversione dell'usuale e rigida gerarchia per cui il nome di Stalin dal primo posto era passato all'ultimo.

Allora la definizione del dizionario che la comunicazione è ciò che si comunica andrebbe integrata così: “cio che si comunica e come lo si comunica”.

Ma, attenzione, da tutto questo ne consegue che se il codice nella comunicazione è il fattore indispensabile alla produzione e alla interpretazione del messaggio, nel caso preso in esame mi pare, e forse posso sbagliarmi, che vennero usati tanto un codice quanto un subcodice: il codice era l'elenco puro e semplice dei compagni deceduti, il subcodice consisteva nell'ordine dei nomi che componevano l'elenco. Solo che il subcodice, ai fini della comunicazione, risultava di gran lunga più importante del codice stesso.

In altri termini, quella comunicazione fingendo di obbedire alla regola che “il codice deve essere un sistema convenzionale esplicito per poter permettere il processo di codificazione e di decodificazione”, metteva in pratica un codice implicito destinato ad allertare i più ricettivi tra i presenti.

Da quel congresso non sono ancora trascorsi cinquanta anni. Se Hobsbawn ha potuto definire il secolo scorso come il secolo breve è certamente perché la somma degli avvenimenti sociopolitici ed economici, le due grandi guerre, lo sviluppo dell'aviazione, la bomba atomica e l'energia nucleare, il progresso tecnologico hanno fatto assumere soprattutto negli ultimi cinquanta anni al nostro mondo una massa così spaventosamente pesante da farlo apparire persino di breve circonferenza, come avviene con le stelle implose.

E naturalmente, per quanto riguarda lo specifico della mia considerazione, mi basterà richiamare la vostra attenzione sul dominio assoluto rapidamente acquistato dalla televisione prima (e con la quale è nato il fenomeno detto “comunicazione di massa”) e da internet negli anni più recenti. Ma proprio questo dominio assoluto rappresenta, almeno ai miei occhi e lietissimo se qualcuno dimostrerà il mio errore, un forte rischio per l'intelligenza dell'uomo stesso. Intelligenza dal latino intelligere, capire.

Nei primi tempi della televisione, tutto ciò che essa ci mostrava era, e voleva essere, un presente continuo fatto vedere nella sua immediata verità . Non sapevamo allora, primitivi spettatori, che anche all'immagine doveva essere applicato il principio d'indeterminazione, quello che, secondo i padri fondatori della quantistica, suona pressappoco così: ogni fenomeno fisico si modifica per il fatto stesso di essere osservato.

E non sto minimamente parlando della manipolazione dell'immagine: sono ancora fermo al fatto che lo sguardo dello spettatore è totalmente guidato e condizionato dallo sguardo di colui che sta riprendendo l'immagine e cioè dal posizionamento della telecamera, dalla disposizione delle luci, dall'ordinamento dell'inquadratura, dal movimento all'interno di essa. Tutte cose che concorrono quindi alla creazione di un'immagine non immediata ma accortamente mediata e certamente finalizzata a suscitare una precisa reazione nello spettatore.

Ricordo che ai primissimi tempi della televisione in Italia mi capitò un fatto che mi turbò e che ancora continua a mettermi in un certo disagio. Allora c'era un solo canale televisivo ed erano da poco entrate in uso apparecchiature che permettevano la registrazione dei programmi.

Ogni domenica mattina veniva celebrata in diretta, dalla cappella degli studi di via Teulada, la santa messa per tutti coloro che non potevano uscire da casa per recarsi in chiesa. Un giovedì pomeriggio, passando davanti alla porta a vetri della cappella, vidi un prete che officiava la messa e due telecamere che lo riprendevano. M'informai con un tecnico.

“Stiamo registrando la messa che manderemo in onda domenica mattina”- mi rispose. La domenica seguente mi misi davanti al televisore: ebbene, quando cominciò il rito, nessun cartello avvertì i fedeli che il miracolo della transustanziazione veniva trasmesso in differita. Sono scarso assai in problemi teologici, ma sento oscuramente che l'episodio appena raccontato entra in qualche modo nel discorso che vado facendo.

Sono bastati pochi decenni perché in tutto il mondo le emittenti televisive si moltiplicassero e alle televisioni di stato si affiancassero un'infinità di televisioni private. Internet inoltre, interagendo con le tv, ha reso il campo della comunicazione e dell'informazione praticamente senza limiti. Questo vertiginoso allargamento della comunicazione è stato salutato da tutti come il segno di una finalmente raggiunta libertà d'informazione. Ma questo tipo di libertà coincide con la possibilità d'approssimarsi a una verità potabilmente limpida e priva di germi? Ho detto e sottolineo: questo tipo di libertà. Mi spiego meglio. Si tratta di una libertà relativa o, nei casi peggiori, solamente apparente. I costi di un'emittente televisiva a medio raggio, una volta che sia uscita vittoriosa dalla guerra delle concessioni delle frequenze, sono di gran lunga superiori a quelle di un quotidiano che ricopra la stessa porzione di territorio. Da qui l'inevitabilità di forti gruppi economici, dotati di precisi interessi, che vengono a proporsi come editori televisivi. Con una differenza sostanziale: che a un quotidiano basta il mantenersi dentro i confini di un certo profilo politico-economico definito, direi quasi pattuito, già fin dal primo numero e che gli ha fatto subito acquistare i “suoi” fedeli lettori per avere anche una buona autonomia di manovra al suo interno; mentre a una rete televisiva, che si rivolge a un pubblico non di lettori ma di spettatori, a un pubblico che deve solo vedere e sentire, che non ha la possibilità di rivedere e risentire, un pubblico munito della tentazione del telecomando e pronto perciò allo zapping, è necessario che tutti, ma proprio tutti, i programmi del palinsesto, anche e soprattutto quelli d'informazione e di commento all'informazione, siano costantemente portatori impliciti delle finalità che i proprietari della rete si propongono.

Questo, in altri termini, viene a significare che ogni rete deve per forza configurarsi come una fabbrica del consenso, consenso sia ai prodotti commerciali pubblicizzati sia alle idee politiche altrettanto pubblicizzate e commercializzate, cercando in tutti i modi d'evitare che gli ascoltatori-compratori-potenziali elettori cambino canale, rischio felicemente inesistente nel nostro paese dato che l'85% delle emittenti pubbliche e private sono sotto il controllo più o meno dichiarato della stessa persona e quindi cambiare canale significa sostanzialmente riascoltare la medesima notizia detta con parole diverse ma con identico intento glorificatorio.

Ma questa che ho chiamato finalità implicita verrebbe ad esercitare la sua capacità d'incidenza, ove si limitasse a un unico codice di comunicazione, solo e sempre su un medesimo gruppo di spettatori, quello che si può definire lo zoccolo duro. Un nucleo comunque limitato e sensibile a una comunicazione più emotiva che logica. Una emittente televisiva privata o pubblica ha però la necessità assoluta d'ampliare il proprio bacino d'ascolto, ne va della sua stessa sopravvivenza per la maggior parte alimentata dall'affluenza degli spot pubblicitari. Da ciò il ricorso non solo a codici diversi, ma a sottocodici molteplici anche nella comunicazione di una stessa notizia. I più evidenti di questi sottocodici sono presenti fin dalla copertina del telegiornale, che è una specie di riassunto delle notizie più importanti che saranno date. La nostra notizia, che chiameremo A, è presente in copertina? Se sì, che posto occupa nell'indice? Se non compare in copertina, a che punto del telegiornale verrà detta? Quanto tempo le verrà dedicato? Qual è la notizia che la precede? Qual è la notizia che la segue? La notizia A viene commentata? Come? Da chi? Si userà per essa il cosiddetto “panino”, che significa collocare la notizia A tra due commenti orientati in senso opposto rispetto al contenuto della notizia? E poi: una notizia televisiva può essere semplicemente detta dal giornalista senza l'aiuto dell'immagine, facendone automaticamente una notizia di serie B.

Per ciò che riguarda il parlato, se è vero che, come ha scritto Umberto Eco, « il linguaggio si avvale di rimandi infra e intertestuali e che molto del contenuto trasmesso da un testo è “non detto”, presupposto o alluso», questo non fa che portare acqua al mulino di quello che sto dicendo.

Quale tono, timbro di voce usa il giornalista nel dare la notizia A? Che ritmo adopera? Le pause che fa sono per rispetto alla punteggiatura o rimandano, alludendo, a un sottodiscorso B?

Abbiamo avuto esempi memorabili di notizie date interamente per non detto o alluso: ricordo che il giornalista Ugo Zatterin, dovendo dare al pubblico televisivo la notizia dell'approvazione in Parlamento della legge Merlin, quella che aboliva le case di tolleranza, parlò per tre minuti senza mai usare parole che si riferivano a prostitute, prostituzione, case chiuse, parole tutte rigorosamente bandite dalla tv di allora. Adoperò un codice che venne decifrato solo da un quarto degli ascoltatori, il rimanente intuì che qualcosa da quel giorno in poi era vietato in Italia, ma sul momento non seppe cosa, lo seppe quando andò a bussare a una porta sbarrata.

Fin qui non credo di aver detto nulla di nuovo. Ognuno di quelli che mi stanno ascoltando sa benissimo che negli ultimi anni il corso delle cose che prima, per dirla con Merleau-Ponty, era “passabilmente sinuoso”, si è fatto totalmente, indecifrabilmente labirintico e questo non solo per la complessa decrittazione di ogni evento in sé, quanto piuttosto per le molteplici e contrastanti e depistanti decrittazioni che la comunicazione dell'informazione si affretta a offrire.

Difficile oggi incontrare un'Arianna su uno schermo televisivo.
E quando la s'incontra, sappiamo ormai che non è prudente fidarsi del filo che ci porge.
Ma non è questo il vero problema. Il problema è, a mio parere, l'ulteriore e pericoloso cambiamento avvenuto negli ultimi due anni circa nella comunicazione di massa. Cambiamento evidente attraverso l'osservazione di come le televisioni mondiali si sono comportate, e continuano a comportarsi, di fronte a un evento che ha coinvolto decine e decine di nazioni.

Di un dittatore, non più feroce di tanti altri che vengono oltretutto foraggiati dai paesi democratici ( e il nostro lo era già stato), si comincia a farne, prima con le parole del Presidente degli Stati Uniti e dei suoi più importanti ministri e quindi attraverso un subitaneo tam tam mediatico, insistente, assordante, coinvolgente, travolgente, ubriacante, con sventagliate continue di notizie e soprattutto immagini volte non alla ragione ma all'emozione, con flash che attengono più alla pubblicità che alla politica, con un martellare d'incontri e dibattiti dove si adopera un linguaggio costantemente sovratono, di questo dittatore se ne fa, dicevo, il nemico pubblico mondiale numero 1, in possesso di spaventose armi di distruzione di massa, capaci di distruggere una città europea in quarantotto ore, come asserisce turbato il primo ministro britannico. Il ministro degli esteri statunitense si reca all'Onu e con grafici, fotografie, fialette, dimostra inequivocabilmente l'esistenza di quelle armi da anni, ricordiamocelo, invano cercate dagli stessi ispettori dell'Onu. Le voci soliste che incitano alla guerra si trasformano ben presto in coro: la guerra preventiva è ineludibile, bisogna attaccare prima di essere attaccati. Anche i paesi che sono per una soluzione politica e non bellica concordano pienamente sulla pericolosità e la cieca ferocia del dittatore. La guerra è stata scatenata, è costata decine di migliaia di morti innocenti, il dittatore è stato preso prigioniero, la guerra è finita ma si è tramutata in un quotidiano massacro, è stato insomma scoperchiato incautamente un vaso di Pandora che sarà arduo richiudere.

Ma le famose armi di distruzione di massa non vengono mai ritrovate, comincia a serpeggiare il sospetto che probabilmente non ci sono mai state. Poi il sospetto diventa certezza. I governi che hanno promosso la guerra sono costretti ad ammetterlo. Il ministro degli esteri statunitense, dimessosi, ora dichiara di avere ingannato il mondo in buona fede, perché ingannato a sua volta dai servizi segreti. Insomma, non era mai esistito il presupposto principale per fare la guerra. Era un falso spudorato, una tragica guerra di Pinocchio.

Ma la conoscenza dell'inganno perpetrato dai capi di stato non scalfisce se non in minima parte, nell'opinione pubblica, il potere di coloro che hanno anche coscientemente ingannato. Anzi, si dà il caso che il primo responsabile, l'americano, venga rieletto a travolgente maggioranza. E anche l'inglese, quando la guerra ormai si consolida come un inutile carnaio, ottiene una storica terza investitura. Tutti e due hanno mentito ai loro popoli, ma i loro popoli gli hanno rinnovato la fiducia.

Perché? Questo è il punto. Si può azzardare un'ipotesi. E cioè che questo è possibile perché i mezzi di comunicazione di massa, da fabbriche di consenso, si sono tramutati, riuscendoci, in convertitori di fede, in fabbriche del credere. Hanno saputo trasformare una guerra evitabile in una lotta suprema tra il Bene e il Male, tutti e due con le iniziali maiuscole.

Forse riuscirò a spiegarmi meglio citando un passo del grande fisico Werner Heisenberg, con l'avvertenza che è estrapolato da un saggio, “Fisica e filosofia”, dato alle stampe nel 1958:
«Non possiamo chiudere gli occhi al fatto che è difficile per la gran maggioranza della gente farsi un giudizio ben fondato sulla giustezza di certe dottrine o idee generali. Quindi può essere che la parola “credere” non significhi per la maggioranza di quella gente “percepire la verità di qualche cosa”, ma viene piuttosto presa nel senso di “assumere questo a base della vita”. Si può facilmente intendere come questo secondo tipo di fede sia molto più fermo e stabile che non il primo e come possa persistere perfino contro un'esperienza diretta che la contraddica, senza restare scossa, perciò, da alcuna sovraggiunta conoscenza.»

Permettetemi un'ultima citazione. Scrisse Stanislaw Jerzy Lec: «Quando la menzogna ottiene il diritto di cittadinanza non per questo diventa verità.»

Perfettamente d'accordo. Ma se la menzogna ottiene il diritto di cittadinanza sotto forma di fede?
E questo, in parole povere e conclusive, dimostra, a parer mio, che se non l'eclissi, ma almeno l'offuscamento della ragione non è né un'ipotesi astratta né una remota probabilità.

Discorso del Rettore

Autorità e gentili ospiti, cari colleghi e studenti,

nel porgere il mio più cordiale saluto a tutti voi, che siete intervenuti così numerosi oggi per rendere omaggio ad Andrea Camilleri, desidero subito esprimere al nostro illustre ospite, insieme a un caloroso benvenuto, le più vive felicitazioni per la Laurea Honoris Causa in Sistemi e Progetti di Comunicazione, onorificenza di cui il nostro Ateneo non è solito abusare e che tra poco gli verrà conferita e, insieme, il ringraziamento per averla accettata.

Nella storia di ogni Università, il conferimento di una Laurea Honoris Causa costituisce sempre un atto di grande rilevanza accademica con il quale si riconosce e si premia il prestigio di una personalità davvero eminente.

Questo vale ancora di più oggi che questo riconoscimento viene proposto e conferito da più Facoltà insieme e precisamente da quelle di Lettere e Filosofia, di Economia, di Lingue e Letterature Straniere e di Scienze Politiche, alle quali fa riferimento il nuovo corso di Laurea Specialistica in Sistemi e Progetti di Comunicazione.

Si tratta di un nuovo percorso formativo con il quale l'Università di Pisa va ad arricchire l'offerta didattica del prossimo anno accademico e che rappresenta il naturale completamento del corso di Laurea Triennale in Comunicazione pubblica, sociale e d'impresa, anch'esso interfacoltà, che è stato avviato due anni fa e tanto successo ha riscosso tra gli studenti e gli addetti ai lavori.

Sono convinto che la Laurea Honoris Causa ad Andrea Camilleri costituisca in questo senso il più degno battesimo della nuova Laurea Specialistica, di cui lo scrittore siciliano diventa da oggi moralmente il primo e il più autorevole laureato.

Le ragioni che hanno suggerito questo conferimento, le illustrerà ampiamente, tra poco, il preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, professor Alfonso Maurizio Iacono, leggendo la Motivazione.

Consentitemi tuttavia di sottolineare brevemente alcuni elementi che in qualche modo accomunano il nostro ospite alla tradizione e alla vita del nostro Ateneo.

Voglio ricordare, in primo luogo, il carattere di forte interdisciplinarietà che caratterizza i nostri nuovi corsi di studio – tra cui quello in Sistemi e Progetti di comunicazione - nei quali differenti ambiti culturali e scientifici si incontrano per fornire agli studenti la formazione più adatta a un mondo che sempre più richiede loro competenze diverse e integrate.

Questo modo di guardare alla realtà che ci circonda e di rapportarsi con essa con approcci e prospettive sempre diversi, non è dissimile da quello adottato da questo grande scrittore dal carattere eclettico. Egli rifugge una lettura unica del mondo, del quale riesce piuttosto a cogliere la vera essenza proprio attraverso i suoi più disparati e molteplici aspetti.

In secondo luogo, desidero richiamare la grande forza comunicativa di Andrea Camilleri, tale da sedurre un pubblico molto ampio ed eterogeneo di lettori anche per lo straordinario equilibrio tra tradizione e modernità di cui si nutre. Un equilibrio che anche l'Università di Pisa ha perseguito in questi anni di profondi mutamenti e che si è rivelato motivo di successo.

Andrea Camilleri è sicuramente uno degli autori italiani più noti e tradotti al mondo, molto amato dal pubblico e apprezzato dalla critica per la sorprendente finezza con cui riesce a mescolare insieme un linguaggio unico e affascinante come il siciliano, una grande sapienza narrativa e un'ironia pungente.

Ma di Andrea Camilleri non apprezziamo solo questo. Attraverso la narrazione dei suoi romanzi, infatti, egli ci offre da anni spunti avveduti per una acuta e sincera riflessione civile. La sua presenza ci onora quindi doppiamente perché lo stimiamo sia come scrittore di fama internazionale che come osservatore attento dell'esperienza politica e democratica del nostro Paese.

È anche questo intreccio di sensibilità culturale e civile che ha spinto l'Università di Pisa a conferirgli l'onorificenza accademica che tra poco riceverà.

Voglio concludere questo mio saluto con un'immagine delicata ma efficace, che appartiene allo stesso Camilleri - straordinario narratore di immagini - e riassume forse il senso di tutta quanta la sua opera. Parlando del suo modo di scrivere, sulla sottile linea di confine tra profondità e leggerezza, egli rivela che fare letteratura non equivale a costruire la cattedrale di Notre Dame, bensì, semplicemente, una piccola, meravigliosa, godibilissima chiesa di campagna.

È per questa piccola e semplice chiesa, che invero ha tutta la grandezza e la magnificenza di una solenne cattedrale, che l'Università di Pisa si onora oggi di conferire ad Andrea Camilleri la Laurea Specialistica Honoris Causa in Sistemi e Progetti di comunicazione.

Profilo di Andrea Camilleri

Nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925, Andrea Camilleri vive a Roma da molti anni.

Ha frequentato il corso di regia dell'Accademia d'Arte drammatica di Roma, avendo come maestro Orazio Costa; ha poi insegnato Istituzioni di regia nella medesima Accademia.

Regista e autore teatrale e televisivo fin dal ‘49, ha legato il suo nome a produzioni poliziesche di successo della televisione italiana, quali il tenente Sheridan e il commissario Maigret, con l'intramontabile Gino Cervi. Ha scritto saggi sullo spettacolo. Ha allestito diverse messe in scena di opere teatrali, con una particolare attenzione verso Pirandello.

Negli anni ‘45-'50 ha pubblicato racconti e poesie su varie riviste letterarie italiane tra cui “Sud”, “Mercurio”, “Pesci rossi” di Valentino Bompiani e “Pattuglia “ di Gillo Pontecorvo, vincendo anche il premio St Vincent. Viene inserito in seguito insieme a Bonaviri, Bevilacqua, Crovi, Pomilio e la Merini nell'antologia Il secondo ‘900. Panorama dei poeti italiani dell'ultima generazione, Padova, Amicucci, 1957.

Ha esordito nella narrativa nel 1978 con Il corso delle cose (Lalli, 1978); la scrittura ha preso il sopravvento al momento dell'abbandono del lavoro alla RAI per sopraggiunti limiti di età. Facendo un consuntivo della sua attività come uomo di spettacolo vengono fuori delle cifre sensazionali: 1300 regie radiofoniche, 120 teatrali, 80 televisive.

Nel 1980 esce da Garzanti Un filo di fumo, riedito poi da Sellerio. È il primo di una serie di romanzi ambientati nella immaginaria cittadina siciliana di Vigàta tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del nuovo secolo. Ma il suo primo grande successo è La stagione della caccia, pubblicato da Sellerio nel ‘92, che in poco tempo viene ristampato più volte. Inizia così la stagione propizia di Camilleri, i cui libri vendono mediamente sulle sessantamila copie e sono dei grandi best-sellers.

Oltre alle opere che vedono protagonista la Vigàta di un tempo (dal Birraio di Preston, Sellerio, 1995 a La concessione del telefono, Sellerio, 1999) ci sono i gialli della Vigàta odierna del Commissario Montalbano, creatura di Camilleri entrata a buon diritto nell'immaginario collettivo del suo affezionato pubblico di lettori. Così egli diventa il protagonista di molti romanzi gialli, La forma dell'acqua (Sellerio, ‘94), Il ladro di merendine (Sellerio, ‘96), Il cane di terracotta (Sellerio, ‘96), La voce del violino (Sellerio, ‘97), La gita a Tindari (Sellerio, 2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003). L'autore si accorge che il suo commissario ha tutte le caratteristiche del personaggio seriale con il quale può tentare la misura breve del racconto; così pubblica nel ‘98 da Mondadori Un mese con Montalbano, una raccolta di storie poliziesche con cui entra nella classifica dei libri più venduti. Ma, fenomeno nuovo per l'editoria italiana, il successo del singolo volume si allarga a macchia d'olio e trascina in cima alle vendite anche tutti gli altri titoli. Una raccolta di racconti è anche La paura di Montalbano (Mondadori, 2002) nella quale si assiste ad un processo di interiorizzazione del commissario, protagonista di un'epopea tutta fondata sull'evoluzione, sulle trasformazioni, sui ritorni indietro del personaggio nel tempo.

Il culmine di questa tattica compositiva è raggiunto nella Pazienza del ragno, appena uscito nella collana della Memoria sempre da Sellerio: vi appare un Montalbano ormai vecchio e solo che, giunto al consuntivo della sua vita, si interroga sul suo pirsonale criterio di giudizio che non sempre coincide con quello della giustizia. Allora affiora il dilemma se “era meglio essiri d'accordo con la giustizia, quella scritta supra i libri, o con la propria cuscenza”. Il personaggio neppure ora che ha raggiunto la piena maturità manifesta tratti eccezionali da eroe ma si rivela come un individuo normale che ha conquistato a fatica la sua integrità morale nel quotidiano impegno alla ricerca della verità. La sua parabola evolutiva si porta dietro tutte le strategie comunicative sperimentate dall'autore nel suo lungo e ricco percorso creativo di sceneggiatore, regista teatrale e televisivo, narratore. Se la sua vocazione al romanzo si mostra prevalente, essa trova nella prodigiosa combinazione di varie tecniche comunicative (cinematografica, teatrale, narrativa, spettacolare) e di diversi linguaggi il modo per catturare il lettore e tenerlo stretto in un crescendo di suspence e di attese, che non si esauriscono in una singola unità testuale ma rimangono aperte a soluzioni ancora da venire.

Camilleri si rivela maestro nel coinvolgere il suo pubblico, in modo veloce e immediato come è tipico della tecnica cinematografica, in una serie di storie, anche di genere diverso, sperimentando in particolare il meccanismo della sequenza d'immagini e del giallo alla Simenon. Si richiama al modello del racconto politico-poliziesco alla Sciascia, facendo tesoro della nota affermazione dello scrittore di Recalmuto che solo nella gabbia del giallo il romanziere si costringe ad usare regole certe, a non barare con il lettore.

All'interno di questo progetto si spiega la sua ricerca espressiva che parte dalla volontà di valorizzare la vita dei personaggi nella gestualità della lingua. Si tratta di un idioma basico locale e personale, arricchito da un continuo processo di reinvenzione e di ricambio nel quale si manifesta l'estrosità verbale di Camilleri. L'intenzione è quella di scoprire il linguaggio nella lingua, chiedendosi fino a che punto è possibile recuperare la lingua, che è di per sé un dato di appartenenza ad una società, come comunicazione artistica originale. Così affiora la dimensione di oralità sottesa ai suoi romanzi, che si immaginano prima di tutto raccontati in modo estemporaneo ad un pubblico ascoltante. Il problema fondamentale dello scrittore siciliano è stato infatti, a detta sua, l'individuazione di una voce, attraverso la quale poter impiegare parole italiane e parole in dialetto in modo improvvisato a seconda del grado di espressività necessario in ciascun contesto. Pirandello nella sua strepitosa traduzione del Ciclope di Euripide in dialetto siciliano funge da modello di questa operazione, perché sperimenta due livelli di dialetto, quello contadino del Ciclope presentato come un massaro e quello del Ciclope-Ulisse, del viaggiatore, di chi usa l'italiano, traducendo dal siciliano (Totò che ha fatto il militare a Cuneo è l'esempio riportato da Camilleri). Si tratta in definitiva di una sorta di dialettalità trascesa che copre quasi sempre le stesse aree verbali e che si realizza in determinati spazi narrativi. La reazione perplessa di Sciascia di fronte all'idioma ibrido del Camilleri esordiente, che gli faceva dire “Andrea, ma così chi ti legge”, non ha più ragione di essere, se si pensa al consenso planetario dei suoi romanzi e alla miriade di traduzioni, anche in lingue poco diffuse, quali il gaelico e il catalano.

Nel nostro tempo che tende alla globalizzazione, superando le diversità in una medietà anonima e livellante, il personalissimo idioma di Camilleri così colorito e particolare conquista i lettori con la sua ironica compiacenza, coinvolgendoli emotivamente cosicché anche i termini, apparentemente più oscuri, comunicano quel tanto di eccesso dalla norma che li rende familiari. Lo scrittore affonda la sua capacità di introspezione nel patrimonio archetipico dei suoi lettori, una serie di tratti distintivi che ciascuno si porta dentro dall'infanzia, fatto di gesti, di tic linguistici, di abitudini espressive nate talvolta da propensioni morali.

L'autore si rivela un comunicatore eticamente ricco e impegnato a costruire figure che agiscono super partes nella costante lotta al crimine. La guerra alla mafia e alla malavita sicula, che secondo la mentalità comune rappresenta l'elemento invincibile e sfuggente, si trasferisce in una realtà di vissuto quotidiano attraverso la caratteristica quasi nordeuropea del commissario Montalbano. Ne viene fuori una capacità logico-deduttiva di leggere i segni e di interpretare gli indizi collaudata da una tecnica riconosciuta da tutta la comunità di lettori europei. Questo spiega come la produzione letteraria di Camilleri sia stata oggetto d'attenzione da parte dell'editoria e della critica internazionale.

La vocazione etica di Camilleri affiora anche dalle ultime prese di posizione del suo personaggio, che non rimane mai impermeabile agli eventi contemporanei. In un racconto recente (“Micromega” 2002) si svolge un tu per tu estremo tra autore e sua creatura, di sapore pirandelliano, nel quale Montalbano esprime l'impossibilità ad entrare in un nuovo romanzo dopo i fatti del G8 di Genova e di Napoli. In tal modo si fissa la sua diversità rispetto al modello Maigret, sul quale “la storia scivola come acqua fresca”, mentre lo scrittore, fagocitato dalla volontà del personaggio, non può che assecondare gli obblighi imposti dalla tensione della cronaca.

La complessa e multiforme attività di Andrea Camilleri, che si rivela protagonista indiscusso non solo nell'ambito della comunicazione linguistica ed editoriale ma anche nei settori più innovativi della multimedialità (si pensi ai CD- ROM di cartoni animati interattivi realizzati da Antonio Sellerio su testi narrativi di Camilleri o ai gialli a finale aperto affidato al pubblico) rendono per lui ampiamente motivata la laurea honoris causa di secondo livello in Sistemi e progetti di comunicazione (corso interfacoltà: facoltà di Economia, Lettere e filosofia, Lingue e letterature straniere, Scienze politiche).
Il corso delle cose è sinuoso, di Alfonso Maurizio Iacono

Il primo romanzo di Andrea Camilleri è "Il corso delle cose", titolo tratto da una frase di "Senso e non senso" di Maurice Merleau-Ponty: “Il corso delle cose è sinuoso”. Si tratta di una frase che potrebbe essere apposta alle vicende della pubblicazione di questo scritto, di cui Camilleri dà conto nell'appendice al libro. Fu pubblicato da un piccolo editore dieci anni dopo essere stato scritto e rifiutato dalle maggiori case editrici e dopo che fu trasmessa una riduzione televisiva del racconto intitolata "La mano sugli occhi" . Il corso delle cose è dunque sinuoso anche per quel che riguarda la storia del rapporto tra la scrittura di Camilleri e i mezzi di comunicazione di massa. Chi poteva mai accettare una scrittura inframmezzata di parole dialettali? Ben diversamente andranno le cose dopo la grande affermazione nazionale e internazionale dei suoi romanzi, che nel frattempo andavano accentuando la presenza di parole del dialetto siciliano (o di un argot corrispondente nelle lingue straniere in cui veniva tradotto). Le riduzioni televisive sono state, questa volta, la conseguenza del largo consenso che i lettori di tutto il mondo gli hanno tributato. Anche nel mondo della comunicazione il corso delle cose è dunque sinuoso, non percorre mai una strada dritta in una sola direzione.

Ma in queste strane vicende del rapporto tra scrittura e mass media, Camilleri è narrazione .È sapienza costruttiva della narrazione, gusto della narrazione, amore per la narrazione. Come ha osservato Jerome Bruner “La finzione letteraria…non si riferisce ad alcunché nel mondo, ma fornisce soltanto il senso delle cose. Eppure, è proprio quel senso delle cose, spesso derivato dalla narrativa, che rende in seguito possibile la referenza alla vita reale……la narrativa, anche quella di fantasia, dà forma a cose del mondo reale e spesso conferisce loro addirittura un titolo alla realtà”. L'effetto di verità della finzione è dunque il senso. Il senso che si dà alle cose. Un senso che, per Camilleri seguace di Merleau-Ponty, è sinuoso.

Qual è il senso dell'uso di parole dialettali, che negli ultimi lavori si è addirittura accentuato? A differenza di ciò che si può pensare, esso non è il prodotto di un'esibizione, ma l'effetto di un'opacità; non è la ricerca di una radice o di una fonte pura, ma il risultato di qualcosa che è meticcio, misto, contaminato, perciò sinuoso. Non vi è distinzione tra l'apparenza e un fondamento che vi sta dietro, nascosto, depositario di una verità che aspetta di essere messa in luce. La verità è il senso che ci dà la trama attraverso le sue contorsioni, i suoi passaggi, i suoi colpi di scena; è il gusto di un distacco comunicato da un'ironia che assai spesso affiora nei suoi racconti e che dà un ulteriore senso di verità al gioco con la finzione. In Camilleri, inoltre, non è la narrazione che si dissolve nella ricerca della lingua, ma è la lingua che sembra vivere in funzione della forza narrativa. Da questo punto di vista, uno scrittore come Gadda è per Camilleri soltanto un esempio del fatto che si può usare il dialetto, ma non un modello del rapporto tra lingua e narrazione.

Narrazione vuol dire trama, récit , plot , e la trama implica organizzazione degli eventi veri o falsi che siano.

Voltaire comincia la voce Histoire dell' Encyclopédie con la contrapposizione tra “Histoire” e “Fable”. Scrive Voltaire: «L'histoire est le récit des faits donnés pour vrais, au contraire de la fable, qui est le récit des faits donnés pour faux» ( Voltaire, Dictionnaire Philosophique, http://www.voltaire-integral.com/19/histoire.htm: “La storia è il racconto dei fatti dati per veri, al contrario della favola che è il racconto dei fatti dati per falsi”) .

Qui la contrapposizione non è tra vero e falso, tra racconti veri e racconti falsi, ma tra racconti dati per veri e racconti dati per falsi .

Voltaire non attribuisce alla storia la patente di verità e alla favola la patente di falsità. Egli, parlando di “racconti dati per veri" e di "racconti dati per falsi", fa riferimento non alla qualità intrinseca della storia o della favola (essere vera o essere falsa), ma al contesto di significato al cui interno vanno a collocarsi la storia e la favola. "Racconti dati per veri" e "racconti dati per falsi": dati da chi? Sia chi racconta, sia chi ascolta o legge presuppone che i fatti siano, almeno nelle intenzioni e nell'implicito accordo, veri nella storia e falsi nella favola.

Andrea Camilleri organizza le sue trame prendendo spesso spunto da fatti di storia e di cronaca e producendo quelli che potrebbero essere definiti gli effetti di verità della finzione. Il vero e il falso stanno insieme e insieme contribuiscono a dare senso alle storie. Ogni parola di una storia acquista significato dal contesto. Ma qui non si tratta soltanto dell'ovvietà del rapporto tra parola, significato e contesto, perché Camilleri ci permette di cogliere anche e soprattutto il significato delle parole siciliane dal contesto del discorso (tutti possono comprendere dalla frase il significato di parole come taliari , tambasiari, catoiu ). Da qui forse l'incomprensione iniziale degli editori che non avevano tenuto conto di questo aspetto, da qui l'enorme successo dei suoi libri, così amati dai lettori di tutto il mondo.

Nella sua capacità di organizzare e presentare le trame, Camilleri mette nella scrittura la sua esperienza di regista. Ne è conferma l'ultimo suo romanzo, Privo di titolo , dove l'aspetto della rappresentazione visiva della scrittura diventa addirittura esplicito: egli, all'inizio di alcuni capitoli, parla di fermo immagine, di posizione della macchina da presa, di fotogramma. La scrittura, in quanto trama, sostituisce idealmente il narratore con il cameraman. I colpi di scena sembrano costruiti su montaggi. Del resto, la narrazione non è soltanto scrittura e, in quanto scrittura, nello stile di Camilleri si contamina con altre forme (teatrali, televisive, cinematografiche), assumendo una forma particolare di comunicazione.

La particolarità dell'ambiente siciliano, anzi agrigentino e empedoclino, al cui interno si svolgono le sue storie non si traduce mai né in chiusura né in compiacimento. Per questo esse sono leggibili, così come in Pirandello e in Sciascia, non come storie estranee e lontane, ma, al contrario, come vicende che appartengono a tutti nello stesso momento in cui sono identificabili in un tempo e in un luogo. Il senso di appartenenza non è né un momento di autoaffermazione compiaciuta, né una maniera per suscitare curiosità antropologicamente banali e scontate sulla Sicilia e sull'essere siciliani, ma un modo, condito d'ironia, di comunicare nel mondo globalizzato mantenendo le proprie fattezze.

Nei romanzi e nei racconti di Andrea Camilleri emerge una grande passione civile. Essa traspare nel Re di Girgenti così come nelle storie di Salvo Montalbano. Non è mai gridata; non è mai ovvia. Traspare anche nella sua capacità di sapere scrivere un giallo senza delitti e senza morti, così come fa ne La pazienza del ragno . È una passione laica, implicitamente legata alla tradizione illuminista, nel solco di Leonardo Sciascia e che si è mostrata anche nel riscatto della memoria, come nel caso de La strage dimenticata , dove si narra della morte di centoquattordici ergastolani nella Torre Carlo V di Porto Empedocle durante i moti del 1848, una morte dimenticata appunto, perché di ergastolani si trattava e dunque di uomini che avevano perso la dignità di uomini e non potevano stare, nella memoria, né tra i rivoltosi né con l'esercito. «Quei centoquattordici - scrive Andrea Camilleri - non erano certamente “uguali”: così non entrarono nella cronaca perché non ne avevano diritto, tutti i diritti se li erano persi il giorno in cui, mettendo piede nel Bagno penale, erano diventati “servi di pena”. E non entrando nella cronaca, furono di conseguenza scordati dalla Storia. Solo la loro pena furono costretti a servire fino alla morte, fino alla privazione della loro stessa morte e ancora oltre, fino a patire una seconda strage, questa volta non più dei corpi ma della memoria».

Il corso delle cose è sinuoso, dice Merleau-Ponty, e ancor più sinuosi sono i modi di raccontarlo. Eppure, per riscattare la memoria dal massacro che la storia aveva fatto, a volte è sufficiente pubblicare l'elenco dei nomi dei morti, la loro data e il loro luogo di nascita, ciò che Camilleri ha fatto. Ma anche questo, forse, ovvero l'ingiustizia dell'oblìo che risulta dall'impossibilità di ricordare tutto e si traduce in una inevitabile memoria selettiva atta a far dimenticare quel che si vuol dimenticare, ha a che fare con la sinuosità del corso delle cose, con il complesso gioco di senso e non senso.

Ma Andrea Camilleri è narrazione e la narrazione è desiderio, qualcosa cioè che non può essere appagato e che spinge per ciò a una nuova invenzione narrativa. Narrare è una delle forme più alte e complesse del comunicare. È proprio per questo che siamo qui a parlare di Camilleri in tema di comunicazione e a conferirgli la laurea honoris causa .




Last modified Saturday, July, 16, 2011