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La Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano ha conferito ad Andrea Camilleri la Laurea Honoris Causa in Lingue e Letterature Straniere il 15 ottobre 2002.

Ha presieduto una delegazione del Camilleri Fans Club.

Programma

Mario Negri: Preside della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Motivazione della Laurea Honoris Causa

Sergio Pautasso: Ordinario di Letteratura italiana contemporanea Laudatio

Andrea Camilleri: Lectio Doctoralis Girando attorno alla Torre di Babele


Maledizione che continua

Le cornacchie della torre di Babele


La maledizione divina che ha colpito l'uomo (e non solo) con la separazione delle lingue: una "lectio" dello scrittore che riceve la laurea ad honorem Allora tutta la terra aveva un medesimo linguaggio e usava le stesse parole.
Or avvenne che, emigrando dall’oriente, trovarono una pianura nella regione del Sennaar e vi abitarono...
E dissero: «Orsù, edifichiamoci una città e una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci così un segno di unione altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra».
Ma il Signore scese a vedere la città e la torre e disse: «Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti un medesimo linguaggio. Niente ormai li impedirà di condurre a termine tutto quello che verrà loro in mente di fare.
Orsù dunque proprio lì confondiamo il loro linguaggio, in modo che non s’intendano più gli uni con gli altri.
Così il Signore di là li disperse sulla faccia di tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città, alla quale perciò fu dato il nome di Babele, perché ivi il Signore aveva confuso il linguaggio di tutta la terra».
(Genesi, 11, 1-9).
Dunque, come ci spiegano i biblisti, Dio non distrugge la torre perché segno d’umano orgoglio smisurato, ma perché simbolo dell’unità raggiunta attraverso l’uso di uno stesso linguaggio. Linguaggio che permetteva «agli esseri viventi in comunità ad avvicinarsi l’uno all’altro, a simpatizzare, a lavorare insieme, a capirsi reciprocamente», secondo la classica definizione di Révész. Situazione che si presenta agli occhi del Creatore, in quel momento, oltre che come una colpa collettiva, anche come un rischio assoluto: «niente ormai li impedirà di condurre a termine tutto quello che verrà loro in mente di fare». Dio insomma capisce che le parole di quel linguaggio comune non sono le parmenidee «etichette delle cose illusorie», ma realtà concrete che pigliano forma in quei mattoni cotti che servono alla costruzione della torre. Le parole del comune linguaggio concretamente si tramutano in elementi basilari della costruzione.
Ma perché Dio rompe a forza quell’unità? Oggi si direbbe diplomaticamente per una banale divergenza d’opinioni. I discendenti dei figli di Noè si erano convinti che era meglio per loro starsene uniti in un unico luogo della terra, mentre Dio al contrario sosteneva che era meglio che essi si diffondessero per tutta la terra. La sproporzione del peso contrattuale tra le due parti è enorme e non può esserci altra strada se non quella della sottomissione alla volontà divina.
Resta comunque irrisolta la domanda: che bisogno c’era di aggiungere alla diaspora anche la diversità delle lingue se non si vuole ammettere che il Verbo con la «v» maiuscola temeva la parola senza la «p» maiuscola? Perché in verità anche nelle Upanishad gli Asura, i Demoni, paventano l’uso di un medesimo linguaggio da parte degli uomini, dicono che «la parola finirà col dominarci» e rilevano che in fondo, per le loro costruzioni, gli uomini non hanno avuto bisogno che di sole sette parole. Che cosa accadrà quando le parole, i mattoni cotti, si moltiplicheranno restando da tutti comprese allo stesso modo?
In effetti, la rappresentazione che della costruzione della Torre ci ha dato Bruegel, il quale almeno tre volte tornò su questo argomento che evidentemente l´affascinava, è la dichiarazione assoluta dell´orgoglio umano, quando esso prende coscienza delle sue capacità e possibilità di fare. Le proporzioni della Torre sono colossali in rapporto al paese che c´è alla sinistra e anche in rapporto al porto che è sulla destra. In primo piano, a sinistra, c´è la figurazione dell´indifferenza degli scalpellini che continuano a lavorare mentre l´architetto illustra a Nembroth i criteri seguiti per la costruzione. La domanda è: dove sono gli uomini, i lavoratori, quelli che materialmente eseguono la gigantesca costruzione? Sono così minuscoli, sono così formiche che quasi non hanno visibilità. Eppure, a guardar bene, ci sono, e sono tanti. Salgono scale, manovrano argani, rompono pietre, fanno girare ruote gigantesche, raschiano pareti, conducono carri, remano, si riposano, corrono, salgono sugli alberi di navi, scavano, pesano, piallano, segano, misurano. Tutte azioni comandate e coordinate dalle stesse, pochissime parole. La confusione delle lingue diventa perciò per Dio e per gli Asura provvedimento indispensabile alla sopravvivenza.
Borges ha ipotizzato la sterminata biblioteca di Babele, dunque si riferiva a una biblioteca sorta dopo la distruzione della torre, e sarebbe stato interessante sapere da lui quanti e quali volumi la biblioteca avesse contenuto prima della distruzione. Qualche altra ipotesi Borges però l´ha avanzata: poemi che si compongono di una sola parola o delle quattro della lingua di Japhet. Per comporre poemi di una sola parola, basterebbe combinare le lettere che compongono la sillaba sacra, AUM, dove A è lo stato di veglia, U lo stato di sonno e M il sonno profondo. Però qui entriamo in un campo vietato già dal 1866, quando la Société de Linguistique di Parigi statutariamente dichiarò che non avrebbe accettato nessuna comunicazione concernente l´origine del linguaggio. Ma a lungo è rimasto irrisolto il problema, con buona pace della Società di Linguistica, di come si siano formate le diverse lingue dopo la distruzione della torre, da quale comune ceppo si siano dipartiti i rami: su alcuni risultati oggi raggiunti non sembrano più esserci dubbi. E questo dovrebbe tranquillizzarci. Apparentemente, la distruzione della torre non ha apportato considerevoli danni. Oggi ci è possibile comprendere tutte le seimila e passa lingue esistenti sulla terra attraverso la traduzione, che può anche esser simultanea. Ma già nella Bibbia è frequente la comparsa di un personaggio del tutto nuovo, l´interprete. Quando i fratelli di Giuseppe lo raggiungono in Egitto egli si serve di un interprete per capire ciò che dicono. Assuero inviava lettere a tutte le province del regno, a ogni provincia secondo la sua scrittura e a ogni popolo secondo la sua lingua. I Galaditi identificano e ammazzano gli uomini di Efraim facendo loro dire «schibboleth» che gli efraimiti pronunziano «sibboleth». Però il dono dato da Dio agli Apostoli nella Pentecoste, di poter cioè parlare e comprendere tutte le lingue, quello rimane privilegio degli eletti.
Le parole morte
Apparentemente, dicevo. Perché come se non bastasse la separazione delle lingue dell´uomo, nuove scienze ci hanno rivelato il senso e il significato dei segni e hanno tramutato alcune metafore poetiche, ad esempio quelle sul linguaggio della natura, in concreti segni di linguaggio e così si è arrivati a scoprire, non so con quanta soddisfazione, che le cornacchie di città non capiscono le cornacchie di campagna e che quelle del Connecticut non riescono a farsi intendere da quelle della California. Anche le cornacchie vittime di una loro torre di Babele? O babelizzate per contagio umano? Ad ogni modo, le lingue nascono, crescono, invecchiano, muoiono. Aggiornate statistiche ci dicono quante ne siano scomparse nell´ultimo decennio. Claude Hagège, nel suo Morte e rinascita delle lingue, sostiene che ogni quindici giorni scompare una lingua. Alcune per eutanasia, nel senso che alcune tribù decidono di abbandonare il loro linguaggio per passare a un altro usato da tribù vicine e più numerose. A me qui interessa constatare il fenomeno, troppe essendo e assai contrastanti tra loro le spiegazioni che di questo fenomeno si vogliono fornire. Un dato comunque è certo: lingue che hanno fornito all´umanità opere immortali alle quali l´uomo si è abbeverato nel suo crescere sono morte alla stessa stregua di lingue che non hanno saputo elevarsi al di sopra della più elementare comunicazione. Ma qui mi preme porre una domanda che riguarda le ceneri, il destino delle lingue morte. Sappiamo che alcune di esse, prima di scomparire, hanno fatto a tempo a generare da sé una lingua figlia. Ma le altre, quelle che sono scomparse senza eredi, che fine hanno fatto? Voglio dire: quelle parole morte che hanno costituito una lingua con la quale sono stati espressi i moti dell´animo e la natura stessa dell´uomo che le diceva si sono volatilizzate nell´aria? Sono tornate a essere una modulazione del vento? Oppure sono diventate humus, terreno fertile per una lingua ancora da venire e che probabilmente nel suo Dna avrà solo indecifrabili tracce della lingua ava? Oppure ancora gran parte di queste parole che a noi appaiono morte si sono trasferite, mimetizzandosi, all´interno del tessuto della lingua prossima e vivente? E inoltre mi chiedo: non è nemmeno sopravvissuto un traduttore, un interprete di queste lingue scomparse? Qualcuno cioè in grado di raccontare agli altri ciò che quelle parole perdute avevano significato per chi le pronunziava? So benissimo che «il senso di una parola non è che la media degli usi che ne fanno gli individui e i gruppi di una stessa società», o per dirla più chiaramente con Wittgenstein «il significato di una parola non è null´altro che l´uso che se ne fa nella lingua», ma so anche che ci fu chi pronunziò qualche volta una parola in senso assoluto, fuori dalla media, da ogni possibile contabilità. Questo è quello che chiedo all´eventuale interprete superstite e gli chiedo anche di ricordarle a se stesso in quanto parziale parte di quel popolo che quella lingua parlò. Sì, perché qui ci soccorre il ricordo di Ennio il poeta il quale affermava che, conoscendo il greco e il latino e l´osco, tria corda habere, era in possesso di tre anime. Se così non è, come temo, la maledizione della Torre ha ancora pieno vigore e il linguaggio della tribù, quella summa di conoscenze e di sentimenti, è destinato a scomparire con la tribù stessa. E in ciò è forse individuabile il vero, profondo senso della maledizione divina. Che si estende, ora con sottile ora con tragica ironia, anche all´interno di una stessa lingua. La sottile ironia, per esempio, ha assunto clamorosa evidenza in quel Corso di linguistica generale di Fernand de Saussure che è alla base di ogni moderno studio linguistico, antropologico, semiotico o di scienza dell´informazione: ebbene ancora oggi ci si chiede se i volumi che costituiscono il Corso fedelmente rispecchino il pensiero di Saussure.
Il paradosso di Saussure
Com´è noto, il maestro ginevrino, che aveva una singolare e inesplicabile repugnanza a pubblicare, tenne questo corso universitario tra il 1906 e il 1911. I suoi allievi linguisti Bally e Sechehaye, servendosi dei loro appunti, di quelli di altri cinque uditori e di quelli di mano di Saussure, fecero stampare nel 1916 il Corso. Il maestro era morto tre anni prima e gli stessi curatori affermarono, nella prefazione, che il loro lavoro era consistito essenzialmente in una «ricostruzione» del suo pensiero. Una ricostruzione, una interpretazione dunque, non il pensiero originale. Dal 1957, quando Robert Godel rimette mano alle fonti del Corso, «anche la semplice lettura di Saussure diventa un problema», come scrive Georges Mounin. Problema che il nostro Tullio De Mauro ha tentato di risolvere consentendo una visione delle idee di Saussure non del tutto collimante con quanto era stato stampato nel 1916. Ma «resta il fatto» - scrive Giulio Lepschy - «che il testo su cui si fondano le correnti più interessanti della linguistica strutturale moderna è quello - del 1916 - così come fu stampato dagli editori». Non è paradossale? Oppure va rivisto quel concetto di identità che Saussure ha voluto dimostrarci col celebre esempio del treno Ginevra-Parigi delle 20,45? Mettiamo - dice Saussure - che ci siano due treni Ginevra-Parigi che partano alle 20,45 a ventiquattr´ore di distanza l´uno dall´altro. Ai nostri occhi si tratta dello stesso treno, anche se assai probabilmente la locomotiva e i vagoni sono stati cambiati e personale e passeggeri sono diversi. Allora perché diciamo che è lo stesso treno? Perché, spiega Saussure, «ciò che costituisce il treno è l´ora della sua partenza, il suo itinerario e in genere tutte le circostanze che lo distinguono da altri treni». Ma, a parte il fatto che tutto ciò è forse valido per le ferrovie svizzere mentre lo è assai meno per le ferrovie italiane, dove talvolta treni partono in ritardo, cambiano percorso e denominazione, perdono identità assieme ai passeggeri, a parte tutto questo, la possibilità dell´errore scientifico può darsi risieda nella necessità della generalizzazione. In altri termini, con un paradosso forse chiarificatore, si potrebbe obiettare a Saussure che i due treni Ginevra-Parigi partiti a ventiquattro ore di distanza non sono riconducibili alla stessa identità mai, perché nel primo viaggiava lo stesso Saussure e nel secondo i suoi allievi Bally e Sechehaye.
Il mostro con due teste
Ho anche accennato all´ironia tragica con la quale si manifesta l´effetto Torre. Le due torri di New York vengono fatte crollare con un immondo attacco terroristico, la nazione che si fa paladina della civiltà occidentale sparge il terrore in Afghanistan con bombardamenti indiscriminati, i cosiddetti terroristi palestinesi si fanno saltare in aria uccidendo donne e bambini israeliani, gli israeliani seminano il terrore coi loro carri armati uccidendo donne e bambini palestinesi, e poi ci sono i terroristi dell´Ira, dell´Eta, delle Brigate rosse e tanti di altre organizzazioni che mi sfuggono. Ebbene, da mesi e mesi, all´Onu, parlando tutti convenzionalmente la stessa lingua, l´inglese, non riescono a dare una definizione, valida per un qualsiasi dizionario, della parola «terrorismo». Quando ero piccolo, c´era nella campagna di mio nonno un anziano contadino che amava raccontarmi storie fantastiche. Un giorno mi disse di un mostro vissuto da quelle parti al tempo degli antichi che si chiamava «Gufia», forse una deformazione di Golia, non so. Era un mostro perché, pur essendo un essere umano come tutti gli altri, aveva due teste. Queste due teste parlavano due lingue diverse e non riuscivano tra loro a capirsi. Allora a Gufia, certi giorni che le due teste cominciavano tra di loro ad altercare senza riuscire a spiegare il perché, saltavano i nervi e si metteva ad ammazzare tutti quelli che incontrava per strada. Ci sono voluti anni e anni per scoprire che non si trattava di una leggenda, per rendermi conto che Gufia continua a esistere e che non è un mostro: è, molto semplicemente, l´uomo.

Andrea Camilleri - La Stampa , 15.10.2002




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INTRODUZIONE

Prof. Giovanni Puglisi
Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM

Perché Camilleri? Perché a Milano? Perché una laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere? Sono tre domande in qualche modo legittime, alle quali ciascuno ha trovato la “sua” risposta, mentre qualche altro forse ancora no. Provo a darne una io, anche se è solo la “mia” e lascia lo spazio aperto per le altre risposte, altrettanto valide, a partire da quella del neolaureato. Innanzi tutto, perché Andrea Camilleri è uno degli ultimi grandi scrittori italiani di confine: la soglia di Camilleri, infatti, non è quella insulare - sarebbe tanto facile, quanto banale, anche se legittimo pensarlo -, bensì è quella fra tradizione e modernità. Camilleri ha fatto un doppio salto mortale, restando però ogni volta perfettamente in equilibrio: è passato cioè dalla letteratura al teatro, per tornare alla letteratura; nei suoi racconti, inoltre, interrompe la fluidità della narrazione con i frammenti di una lingua, che della “sua” scrittura è insieme epifania e genesi, per recuperare alla fine il piacere armonico del testo nella tensione emotiva del lettore.

In secondo luogo, perché la sua storia intellettuale è piena di fascino sia per gli addetti ai lavori, sia per quanti avvicinatisi a lui attraverso i suoi racconti, ne hanno visto e colto la penetrante curiosità dello scopritore di storie, ancora una volta al confine tra la realtà e la fantasia, un po’ come quel Leonardo Sciascia, che tutti evocano parlando di Camilleri, ma che pochi riescono a collocare nella giusta luce genetico-critica. E, come Sciascia, Bufalino e, in qualche modo, Tomasi di Lampedusa, si colloca in quel filone di autori tardivi e longevi, che hanno dato alla scrittura e alla invenzione letteraria, uno spazio tematico e uno spessore linguistico impareggiabile.

Per questi motivi la critica accademica, quella ufficiale, quella che Roland Barthes chiamava la Letteratura-Istituzione, non poteva non registrare, non farsi carico di tutto ciò; anche se è opportuno che Camilleri, novello Orfeo barthesiano, non si fermi mai a guardare indietro per compiacersi della sua scrittura e del suo successo: la Letteratura-Ispirazione, l’affascinante Euridice, infatti, inesorabilmente scomparirebbe. E, ancora una volta, è fuori dalla “sua” Sicilia che Camilleri riceve un riconoscimento: ed è giusto e comprensibile che sia Milano, la terra di Manzoni, il «suo» Manzoni, e di Gadda, che, incrociando all’alba del Terzo Millennio, lo sperimentalismo linguistico di Camilleri, lo onori e lo celebri. La tradizione milanese, intrisa di culture e di sensibilità diverse, assume così in sé anche quella siciliana più nobile, quella che può iscrivere nel suo albo d’oro dell’innovazione linguistica, illustri personaggi come lo stesso Sciascia, Pirandello, Quasimodo, e in campo poetico, uno per tutti, Ignazio Buttitta. La resistente cultura della tradizione fine a se stessa e soprattutto la paura della novità (parlo della Sicilia, lascio agli intenditori interpretarlo), ancora una volta, hanno avuto ragione del coraggio e dell’innovazione. E’ così che Milano, L’Università milanese, la tradizione accademica e intellettuale lombarda, la stessa che accolse, all’inizio del secolo scorso, sulla cattedra di Estetica alla Statale, tra il 1917 e il 1937, anno in cui poi andò via per le leggi razziali e soprattutto per non prestare giuramento di fedeltà al regime fascista, fu solo uno dei dodici professori universitari che si rifiutò di fare questo, il grande scrittore e critico letterario palermitano Giuseppe Antonio Borghese (era nato a Polizzi Generosa), e nell’immediato secondo dopoguerra Elio Vittorini, accoglie Andrea Camilleri, siciliano nel mondo, significativo esponente della sicilianità più autentica, quella cioè che sa coniugare solo il verbo accogliere e non conosce il verbo escludere. Come Roma e la sua Accademia d’Arte drammatica accolsero Camilleri, consacrandolo regista ed autore teatrale di alto profilo e sicuro successo, così Milano, città d’Europa, apre le sue porte e la sua Università ad un intellettuale irrequieto e coerente, espressione di mediterraneità e insieme di europeismo, riconoscendo in lui, manzonianamente, l’espressione identitaria di un’italianità, oggi più che mai, carica delle esperienze e diversità regionali.

E’ questo intreccio di sensibilità culturali e linguistiche che ha spinto l'Università IULM, fortemente motivata, anche storicamente, alle ragioni e alla causa della comunicazione linguistica, a ricondurre l’onorificenza accademica nell’ambito delle lingue e delle culture moderne, piuttosto che delle scienze della comunicazione. L’Università IULM in questi giorni ha modificato la stessa titolazione della sua Facoltà di Lingue e Letterature straniere in Facoltà di Lingue, Letterature e Culture Moderne: la laurea honoris causa ad Andrea Camilleri è il più degno battesimo di questa nuova Facoltà, della quale lo scrittore siciliano diventa moralmente il primo laureato. In verità la scelta tra le due lauree non è stata facile, essendo la produzione di Camilleri aperta anche alle nuove tecnologie della comunicazione. Il coraggio e l’intelligente intraprendenza del suo Editore siciliano, Elvira Sellerio, infatti, non solo hanno riportato da protagonista Andrea Camilleri all’interno dell’agone letterario siciliano, ma lo hanno spinto a nuove forme di sperimentazioni linguistiche, come quelle sostenute e realizzate dal giovane Antonio Sellerio, di cartoni animati interattivi in CD-ROM, realizzando da alcuni testi narrativi di Camilleri - Il cane di terracotta e Il ladro di merendine e, in via di pubblicazione, La voce del violino - un gioco multimediale, un cartone animato interattivo, un racconto illustrato per computer.

L’Università IULM, L’Università di Lingue e Letterature straniere voluta da due grandi umanisti e letterati come Silvio Baridon e Carlo Bo, si onora, pertanto, di accogliere nel suo Campus Andrea Camilleri, la sua intelligenza, la sua creatività, il suo spirito libero, per ricominciare dalle Lingue e dalle Culture Moderne: trent’anni dopo un passo deciso verso l’Europa, che parte questa volta dal cuore del Mediterraneo, la Sicilia.

MOTIVAZIONE DELLA LAUREA HONORIS CAUSA

Mario Negri
Preside della Facoltà di Lingue e Letterature straniere

Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle (Agrigento) nel 1925, vive a Roma, regista e autore teatrale e televisivo. Fin dal ’49 lavora come regista legando il suo nome alle più note produzioni televisive poliziesche della televisione italiana, quelle che avevano come protagonisti il commissario Maigret , con l’indimenticabile Gino Cervi, e il tenente Sheridan. Con il passare degli anni ha affiancato a questa attività quella di scrittore. Ha esordito nella narrativa con “Il corso delle cose” (Lalli ’78).Nel 1980 esce da Garzanti “Un filo di fumo” riedito poi da Sellerio, prima di una serie di romanzi ambientati nella Vigàta di fine 800, immaginaria cittadina siciliana. Ma è del ’94 con l’apparizione de “La stagione della caccia” che Camilleri diventa un autore di successo. I suoi libri, ristampati più volte, sono, senza eccezioni, dei grandi best-sellers. Oltre alle opere con protagonista la Vigàta di un tempo de “Il birraio di Preston” (Sellerio ’95), il suo libro più venduto, ci sono i gialli della Vigàta odierna del Commissario Montalbano: “La forma dell’acqua” (Sellerio ’94), “Il ladro di merendine” (Sellerio ’96) e “La voce del violino” (Sellerio ’97), “La concessione del telefono” (Sellerio ’98), cui ha fatto seguito una raccolta di storie del commissario Montalbano “Un mese con Montalbano” (Mondadori ’98), “Gli arancini di Montalbano” (Mondadori ’99), “La gita a Tindari” (Sellerio 2000) e “L’odore della notte” (Sellerio 2001). Da ricordare inoltre i romanzi “La mossa del cavallo” (Rizzoli ’99) e “Il re di Girgenti” (Sellerio 2001). Camilleri compie un lungo percorso come sceneggiatore, come regista, sia teatrale che televisivo, nonché docente presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, ma la sua vocazione è quella del romanziere. Oltre a saper tenere insieme le fila di tante storie di genere diverso, riesce a coinvolgere in esse il lettore da subito, in modo visivo, grazie alla sua storia personale di sceneggiatore, che gli ha permesso di adottare, secondo il linguaggio cinematografico e televisivo, la tecnica di Simenon della sequenza d’immagini e il meccanismo del giallo, richiamandosi anche al modello del racconto politico- poliziesco inaugurato da Leonardo Sciascia. Nasce così il nuovo linguaggio impegnato e incalzante, che si basa sulla capacità di utilizzare la vita intera dei suoi personaggi nella mimica della lingua. Lingua che è quella locale e personale del siciliano, dialetto fantasioso, preciso e leale, reinventato dall’esuberante estrosità verbale di Camilleri. Il personalissimo siciliano di Camilleri scorre fluido e leggero riuscendo a stabilire il giusto rapporto, con le cose narrate, di affettuosa ironia, di disincantata lontananza, di partecipe solidarietà e che fa della medietà la sua regola. Regola che è collocata ai confini dell’accettabilità linguistica comune e la lingua adottata, ancorché uniforme, irrompe sulla pagina con strepito e colore, eccede con garbo, diverte con misura, non infastidisce mai e lascia sempre ammirati. Nella nostra epoca, che tende verso la globalizzazione, la capacità di mediare un tratto distintivo di diversità, mantenendola tale, in un ambiente più allargato è senz’altro la migliore. E uno dei veicoli scelti per trasmettere questo tratto caratteristico è il personaggio del commissario Montalbano e l’universo che porta con sé, legato al mondo della lotta al crimine. Brillante lo spostamento in un circuito super partes del protagonista, che ha emesso una figura che, sul piano antropologico, è risposta a una necessità propria di tutte le comunità. Non a caso il modello seguito è quello del commissario Maigret di Simenon, che rimanda alla Francia e, dunque, all’Europa. La lotta alla mafia e alla malavita sicula, che nell’immaginario collettivo è l’elemento nebuloso e invincibile, è riportata sul piano della trasparenza del quotidiano attraverso il tratto quasi nord europeo che caratterizza il commissario Montalbano. Prima di tutto un personaggio loico, con il buon senso che merita dalla lettura logico- deduttiva dei segni e che filtra, senz’altro, attraverso i suoi metodi di tipo concettuale tale nebulosa realtà e la riporta su di un piano tecnico, familiare alla stragrande maggioranza dei lettori europei. La produzione letteraria di Camilleri è stata oggetto d’attenzione da parte dell’editoria e della critica internazionale. Autore tra i più tradotti nel mondo, ha visto i suoi romanzi al centro dell’attenzione critica e pubblica di quasi tutti i paesi d’Europa (Spagna, Francia, Germania, Portogallo, Ungheria, Turchia, Olanda, Grecia, Irlanda), ma anche di altre culture e letterature lontane come quella del Brasile e del Giappone. La fertilità della fantasia creativa sapientemente miscelata con la capacità ermeneutica di rendere la sua lingua autenticamente innovativa, un prodotto, un’occasione insieme di ibridazione letteraria e culturale, che proietta la sua opera e la sua storia oltre i confini della sua tradizione linguistica e letteraria e della sua stessa isola, fanno di Andrea Camilleri l’emblematico esponente della nostra letteratura, un caso unico di frontiera della scrittura e della cultura. La scrittura di Andrea Camilleri, lungi dall’iscriversi nel registro della letteratura regionale, contribuiscono invece in modo efficacissimo a descrivere la Sicilia e la sua anima culturale nella più ampia e più moderna cultura europea, indicando un percorso, una linea di tendenza insieme. Il tendere cioè alle tradizioni letterarie regionali, quelle che oggi vengono chiamate patrimoni immateriali, come patrimonio dell’umanità, uscendo dal loro guscio locale e dialettale e senza perdere nulla della loro identità, diventando pagine stimolanti e luminose della nuova Europa delle regioni. Per questi motivi il Consiglio della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, unanime si onora di conferire a Andrea Camilleri la Laurea Honoris Causa il Lingue e Letterature Straniere

LAUDATIO

Sergio Pautasso
Ordinario di Letteratura italiana contemporanea

Spero che Andrea Camilleri non me ne vorrà se per iniziare questa laudatio non mi richiamerò a qualcuno dei suoi numerosi e celebri romanzi bensì a un suo intervento estemporaneo. Estemporaneo, ho detto, per la forma, non la sostanza dal momento che tratta di Manzoni. È apparso il 4 agosto su La Stampa di Torino con un titolo redazionale assai provocatorio: Il mio novecento si chiama Manzoni. Ma poi non risulta tanto fuorviante il suo pensiero a proposito dell’opera narrativa del Gran Lombardo e delle forme della sua ricezione del tempo: parlar di Manzoni gli ha consentito di chiarire, sulla base delle sua stessa esperienza, l’equivoco derivante dalla lettura deviante scolasticamente imposta che ha accompagnato nel tempo l’adozione ufficiale a testo esemplare de I Promessi Sposi. Letto, commentato e studiato nell’edizione del 1840 ma precisiamo subito , e vedremo poi perché, con l’omissione della storia della colonna infame. Quell’autore era stato, anche per il giovane studente Camilleri, apro le virgolette “antipatico, scostante, bacchettone, bigotto” chiudo le virgolette e per soprammercato “baciapile”. Poi il caso ha voluto che la sua voracità di lettore lo abbia portato in seguito a curiosare proprio tra le pagine omesse della storia della Colonna infame, nell’edizione curata da Giancarlo Vigorelli il quale l’aveva riesumata nel 1942 dalla dimenticanza generale e facendola precedere da una sua appassionata introduzione che risentiva dell’eco dell’affermazione manzoniana che dice: “ Le belle lettere saranno trattate a proposito quando le si riguarderanno come un ramo delle Scienze Morali”. Da allora il rapporto di Camilleri con Manzoni è cambiato completamente grazie a Vigorelli, a cui deve la scoperta proprio di un altro scrittore. Infatti si domandò allora: che il Manzoni baciapile dei Promessi Sposi fosse lo stesso della Colonna Infame? E di conseguenza lesse un altro Promessi Sposi. Perché questa digressione manzoniana a proposito di Camilleri? Nessun timore: non voglio farlo diventare un epigono contemporaneo del Manzoni, sia pure un Manzoni riscattato dalla storia della colonna infame, se mai dobbiamo associarlo al suo conterraneo Leonardo Sciascia, anch’egli estimatore e introduttore dell’inquietante testo manzoniano sul processo degli untori e sull’esercizio della giustizia interpretato in chiave processuale contemporanea. Però, a ben guardare, e considerando l’opera di Camilleri dopo aver letto la rievocazione di questa sua avventura di lettore, mi dico che la folgorazione giovanile sulla strada della storia della colonna infame forse non è stata marginale se la domanda sul conflitto fra l’uomo e il male torna così di frequente nelle sue pagine? Se il commissario Montalbano ha tanta voglia di capire il mondo, di capire l’uomo? E comunque qualche segno deve averlo lasciato, magari sottopelle, ad agire a futura memoria sulla formazione di una scrittura che ora ci sembra quasi avere le stimmate di una predestinazione a farsi portatrice di una misura narrativa che grazie ad una continua invenzione linguistica orchestra in un’unica esecuzione storia, attualità e dimensione morale. Non solo, ma mentre rappresenta sulla pagina situazioni e personaggi, produce uno stato di tensione che coinvolge il lettore in un patto inscindibile. Camilleri, nonostante il grande successo di pubblico, non è affatto uno scrittore di intrattenimento, ancorché ironico e divertito nel tratteggiare situazioni e personaggi avvalendosi degli effetti ottenuti con i fuochi d’artificio prodotti da una lingua sì inventata ma che trae l’humus vitale dalla quotidianità popolare. Anzi, la sua opera narrativa, nel fondo, non tratta che un solo tema, che potremmo definire dell’ingiustizia sociale della storia e che egli proietta nelle vicende che caratterizzano la vita quotidiana nell’inventato paesino siciliano di Vigàta , un microcosmo che però racchiude tutto il senso storico del mondo. E’ questa visione morale di un compito letterario , a cui si è affidata una funzione di rappresentazione problematica della realtà e dell’uomo, il quale ne è protagonista principe, che ritengo debba essere portata in primo piano quando si ragiona dell’opera di Camilleri sul piano letterario e non come di un prodotto del consumismo editoriale. La ragione di una letteratura che si faccia carico dei problemi dell’uomo è un dato inalienabile della narrativa di Camilleri che da qualche parte deve pur aver tratto origine. Possiamo ormai lasciare da parte il peso dell’antica e giovanile conversione avvenuta sulle pagine manzoniane che ricostruiscono la storia del povero …?…Giacomo Mora e pensare piuttosto ai frutti di un’osservazione critica dei movimenti della realtà e dell’uomo nel tempo e di una riflessione che le …?… narrativamente. Quel modo risentito che Camilleri ha nel raccontare la complessa realtà siciliana che fa da sfondo ed è tema dei suoi libri, una narrazione a double-face ossia attraverso il recupero di fatti storici come schermo attraverso cui proiettare il presente oppure attraverso il calarsi nell’attualità tramite l’invenzione di un personaggio come il commissario Montalbano, quella sua capacità di sostenere la narrazione con un linguaggio che non impasta solamente lingua e dialetto, e un dialetto come quello siciliano, ma fonde varietà, registri, strati linguistici diversi, dando vita ad una personale maniera espressiva. Quell’indubbia abilità tecnica nel costruire l’impianto narrativo, cogliendo dal vivo il movimento dell’azione e dei personaggi. Ebbene, la sommatoria di tutte queste condizioni strutturali, linguistiche, morali mi pare che dia all’opera di Camilleri una sua peculiare “quidità e la illumini di una luce diversa rispetto a quel banale luogo comune critico che l’ha catalogata come un “caso” per via del suo grande successo pubblico in Italia e all’estero dove è abbondantemente tradotta. Ora, il successo dei libri di Camilleri è innegabile, specie quelli che hanno il Commissario Montalbano protagonista, ma si sa che in letteratura il successo detta sempre diffidenza, genera sospetti inconfessati, getta un alone di dubbio sull’effettivo valore autoriale, spiegato con un richiamo al caso e …?… della lectio facilior che offre la maniera per svicolare senza prendere posizione. E invece, proprio con un autore che ha alle spalle la storia di un Camilleri, uno scrittore che ha esordito tardi ma che poi si è imposto in modo clamoroso, alternando romanzi storici a libri gialli, ma sempre incardinati alla realtà e al tempo dell’oggi in un contesto particolare come quello siciliano, pubblicati con la costanza di un libro all’anno, quasi volesse rifarsi del tempo perduto, tutto ciò credo che imponga doverosamente di non fermarsi al caso ….?… Andrea Camilleri sembra essere nato quasi improvvisamente e timidamente alla letteratura: siciliano - è nato a Porto Empedocle sulla costa sud-occidentale dell’Isola nel 1925 - pubblica il suo primo libro Il corso delle cose solo quando è più che cinquantenne, da un editore minore, Lalli nel 1978 però la stesura ci dice risaliva al ’68 , dopo che molti altri editori avevano rifiutato quel libro. Oggi egli dice ottimisticamente che ebbe una gran bella accoglienza, più o meno la stessa accoglienza la ricevette anche il secondo Un filo di fumo, due anni dopo, 1980, seppure questo fosse pubblicato da un editore di primo rango come Garzanti. A quell’epoca, se ben ricordo, di Camilleri non si parlava molto: si stava per profilare l’ennesimo caso dello scrittore di valore incompreso dagli editori e trascurato dalla critica? Stando al suo cursus honorum si direbbe di sì perché esso rivela come la letteratura sia stata per lui quasi una vocazione: dai giornali scolastici, all’infatuazione per il Politecnico di Elio Vittorini, dal mito dei maestri fiorentini di letteratura con cui avrebbe voluto studiare - come Giuseppe De Robertis e Giorgio Pasquali - ai primi racconti pubblicati nell’immediato dopoguerra sull’Ora di Palermo e alle prime poesie apparse in continente su qualcuna delle numerose riviste che a quell’epoca fiorivano baldanzose magari per curare le spalle a …?… Per quelle poesie, ci dice oggi Camilleri, c’era una continua compagine di lettori come Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo, e bisogna anche aggiungerci la partecipazione a premi e i riconoscimenti critici che ne derivavano. Insomma, alle origini, Camilleri non era diverso da altri scrittori alle prime armi che abitavano in provincia e che in quegli anni si affacciavano alla letteratura e che poi sono diventati famosi o si sono persi, come la sua storia sembrava a un certo punto indicare, almeno fino al momento in cui il suo successo non lo ha fatto diventare un caso. Per Camilleri, invece, le cose non sono andate proprio così. Per lui la differenza l’ha fatta il teatro, allorché la giuria di un premio teatrale a Firenze, presieduta da Silvio D’Amico gli premia nel 1948 la commedia Giudizio a mezzanotte e poi lo stesso D’Amico lo invita a partecipare al concorso per l’ammissione all’Accademia d’Arte drammatica: è la svolta del ’48, secondo la sua definizione. Il trasferimento in continente e non solo il passaggio dalla letteratura al teatro ma soprattutto da autore a regista. Camilleri imparò la regia con un grande maestro come Orazio Costa e dopo che questi gli aveva dimostrato che non c’era differenza tra letteratura e teatro, e divenne un uomo di teatro: regista, sceneggiatore, produttore radiofonico e televisivo, docente a quella stessa Accademia d’arte drammatica che aveva frequentato, dopo qualche trascorso dialettico con il D’Amico sostituendo nella cattedra proprio Orazio Costa. Se non è diventato prima lo scrittore che è ora la responsabilità è dunque della scena che lo ha fagocitato per molti anni. Proviamo ora ad osservare in retrospettiva l’evoluzione di questa esperienza: potremmo dedurre in prima istanza che Camilleri abbia maturato un grande credito letterario verso il teatro. Sul piano temporale sì, e infatti avremmo forse potuto leggere prima romanzi dall’ambiziosa struttura come Il birraio di Preston o dalla composita scrittura come Il Re di Girgenti o compartecipare alle inchieste del Commissario Montalbano. Ma nello stesso tempo egli ha anche contratto con il teatro un debito forse ancora maggiore per tutto ciò che, praticandolo personalmente, ha potuto apprendere sul piano dell’organizzazione della scrittura e della rappresentazione che ora è passata dalla scena alla pagina. Non voglio con ciò sostenere che nel passaggio la pagina abbia sostituito la scena, però a me pare abbastanza evidente che la capacità affabulatoria con cui Camilleri tiene inchiodato il lettore alla lettura non sia da attribuire soltanto alle sue funamboliche invenzioni stilistiche ma anche alla sua capacità di padroneggiare il senso del movimento che la parola può creare nella narrazione. E qui mi permetto, sommessamente, di suggerire agli innumerevoli appassionati lettori dei suoi romanzi, sia lettori critici, sia lettori comuni, di non trascurare che tra le componenti della scrittura che egli sa così bene amalgamare, una posizione centrale la occupa proprio una consolidata capacità tecnica di costruire e far funzionare le vicende narrate. Camilleri ha scelto come luogo del proprio narrare la sua Sicilia, ne ha isolato il minuscolo comprensorio di Vigàta e lo ha montato come una scena ma, abitando dal ’48 a Roma, egli la vede attraverso il doppio filtro della conoscenza dal vivo e della memoria, e per raccontarla raddoppia tra tempo storico e attualità in un opera che spazia, nel genere narrativo, con romanzi e racconti. Abbiamo sì qualche diversione saggistica riflessiva però inerente ai temi trattati narrativamente come per esempio il singolare dizionarietto di termini, modi e forme popolari siciliane Il gioco della mosca o La biografia del figlio cambiato, in cui racconta alla sua maniera la storia di Pirandello, oppure l’estrosa rubricazione di documenti per ricostruire La scomparsa di Patò . Dal genere principale, il romanzo, si passa poi a sottogeneri come la narrazione storica e il romanzo poliziesco, ma l’abbrivo lo dà sempre l’osservazione critica delle cose, siano esse riprese da documenti o da suggerimenti passati che mettono in moto il meccanismo narrativo storico oppure siano calate nell’attualità vissuta quotidianamente dal Commissario Montalbano nel corso delle sue inchieste e protagonista dei romanzi polizieschi. La distinzione in campi d’azione non è pretestuosa, se con un gioco potessimo allineare le trame dei suoi testi storici su una superficie, dalla loro visione d’assieme potremmo constatare come in ognuno di essi si ripeta una specie di impalcatura comune che sostiene ogni storia, per esempio un documento ritrovato, l’ambientazione circoscritta ad un perimetro - Vigàta - e un tempo definito, il passaggio dai Borboni ai Savoia, personaggi appartenenti a strati ben individuati i politici, i burocrati, ecclesiastici, degli ambienti polizieschi e giudiziari, aristocratici e borghesi. Sono costanti che nell’insieme diventano strutture narrative. In questo senso Camilleri si propone come un romanziere tradizionale e onnisciente in grado di dare vita a un suo mondo, in esso si muove e fa muovere i suoi personaggi, con l’ambizione di proiettarvi emblematicamente il mondo degli altri. Due elementi intervengono, però a mio avviso, a turbare questa idilliaca descrizione di strutture narrative: l’ironia e il linguaggio. Da autentico uomo di teatro Camilleri cambia le parti in commedia anche con la letteratura. L’ironia è assunta in senso critico e il compito è affidato a qualche personaggio strampalato, ad una storia di furbi (?) che con la sua franchigia mentale può dire le verità più atroci per riportare in primo piano, se pure traslato storicamente, il senso critico della realtà d’oggi. Non dobbiamo dimenticare che il microcosmo camilleriano è la proiezione speculare di quel macrocosmo che si chiama Sicilia, con tutti i suoi problemi politici e sociali. Ad orchestrare il tutto, Camilleri ha chiamato il direttore linguistico che è in lui compositore e manovratore di lingue a vari livelli. I romanzi storici sono quelli in cui l’impianto della costruzione è più scoperto e il gioco letterario si fa più evidente mettendo in mostra la funzione del linguaggio. Camilleri lo dirige e lo controlla grazie alla tecnica appresa in teatro, dove il linguaggio si manifesta a più dimensioni: finzione, movimento, scenografia, anche a teatro tutto è linguaggio. Impiegato con questa …?… articolato nella variegata stratificazione dei registri, il suo linguaggio sulla pagina diventa una lingua che sorprende, stupisce e provoca sconcerto perché è quanto di più lontano dalla tradizione si possa pensare, e non tanto per la presenza del dialetto mescolato alla lingua ma proprio perché il dialetto funziona in perfetta sintonia con la lingua determinando un ritmo e una fluidità della narrazione che si è persa nella lettura. Gli scrittori che fanno ricorso a dialetto e registri linguistici diversi passano sempre per sperimentatori, per trasgressori delle norme, per il loro riscattare il linguaggio letterario da quello comune - Gianfranco Contini ne ha tracciato storicamente la linea direttrice come esempio più alto rappresentato nel Novecento da Carlo Emilio Gadda. Ma credo che faremmo un torto a Camilleri se lo collocassimo nella lista dei “nipotini dell’ingegnere” per ricordare un famoso titolo di Alberto Arbasino sui derivati gaddiani : l’operare sul linguaggio come lo conduce Camilleri non ha nulla a che fare con quello che perseguiva l’autore del Pasticciaccio, l’eventuale testo di riferimento pensandolo comunanza del giallo e del collega di Montalbano, il commissario don Ciccio Ingravallo. Di Gadda, è rimasta famosa la battuta con cui sosteneva che barocco è il mondo non è barocco il Gadda e infatti egli ricercava le parole per costruire una realtà, mentre Camilleri prende le parole che la realtà gli offre. L’altra componente dell’opera di Camilleri è la sequenza di racconti e romanzi polizieschi che si imperniano sul personaggio del commissario Salvo Montalbano. Qui il tempo è quello dell’attualità, della quotidianità, delle difficoltà che egli deve affrontare con la sua squadra per portare a compimento il suo impegno, anche a causa di un suo modo di muoversi attraverso le cose, quello che, per contrasto, potremmo considerare come la sua inattualità, che comunque è la chiave per capirlo. Il successo che il pubblico leggente e televisivo gli ha decretato è dovuto alla sua normalità, non è un eroe ma è astuto e un po’ goffo, non sa come muoversi con Internet però legge buoni libri prima di addormentarsi, non disdegna la buona cucina, ovviamente siciliana, ed è fedele alla fidanzata lontana, Livia, che abita a Genova, a Boccadasse, quartiere di artisti, con la quale ha stabilito una sorta di coniugalità telefonica e onirica. Montalbano potrebbe essere il vicino della porta accanto che fa il commissario di polizia. In altre parole, Camilleri non ha costruito il suo personaggio su uno schema di comportamento che pure si fonda su una tradizione ormai classica ma su un carattere, ed è qui che a mio avviso egli ha giocato il jolly della sua riuscita di scrittore. Con gli spunti che può offrire un periodo storico così contraddittorio come quello del trapasso fra i Borboni e il regno d’Italia, un ambiente aristocratico e popolare unito nell’essere refrattario ad ogni novità - basti pensare alla filosofia del Gattopardo - un paesaggio aperto sul canale di Sicilia. Camilleri, avvalendosi della sua dimestichezza con lingua e dialetto aveva ben di che con cui costruire narrazioni a sfondo storico ma nel contempo ha sempre avuto bisogno di uno scatto ????, un documento, un fatto scoperto a caso, un ricordo. La cultura e il mestiere gli hanno facilitato una partenza assistita come in Formula 1, la maestria tecnica di giungere al traguardo a volte con qualche fuori pista, questo per dire che la letteratura dà a chi sa prendere. Quando decide di cominciare a scrivere romanzi polizieschi e affidare la risoluzione dei casi alle inchieste del commissario Montalbano con La forma dell’acqua, Camilleri non ricorre al ben fornito magazzino della storia, investe invece tutto sulla propensione a raccontare intrighi e misteri da svelare che aveva nutrito con buone letture dei classici del genere, Simenon in testa, poi, uno spunto sulla funzionalità del giallo suggeritogli da Sciascia verso cui ha riconosciuto il proprio debito, infine la suggestione onomastica con lo scrittore spagnolo di gialli Manuel Vazquez Montalban per il nome del suo commissario. In altre parole, bisognava inventare, e l’invenzione è stata il commissario Montalbano, un poliziotto immesso nelle gole profonde dell’attualità malavitosa siciliana e un personaggio che vive nella più normale quotidianità. Naturalmente Camilleri aveva in carniere anche una buona provvista linguistica e infatti la vitalità narrativa di Montalbano è data dalla coincidenza della lingua parlata con il movimento del personaggio. Annullata la distanza storica e con essa il peso nascosto della letteratura, il linguaggio di Camilleri conosce una libertà imprevista perché si identifica sia con l’immediatezza dei dialoghi che con la naturalezza dei comportamenti, la scrittura, grazie alla tecnica, dispiega situazioni e personaggi in uno spazio visivo, teatrale, come se fossero su una scena. Se, per concludere, posso tentare di sintetizzare, vorrei dire che la ragione del successo di Camilleri non deve essere attribuita a nessun caso, e come dimostra il seriale Montalbano pare invece equamente divisa tra l’inventività linguistica che tanto scalpore ha sollevato e l’apporto di una lucida capacità di organizzare tecnicamente la scrittura; questa è meno evidente, perché ha sempre operato nell’ombra e, da dietro le quinte o dalla cabina di regia, oggi si è trasferita nel laboratorio dello scrittore.



Trascrizione a cura di Chiara & Nadia & Paola

Last modified Saturday, July, 16, 2011