Letteratura e storia. Il caso Camilleri
Due osservazioni, per cominciare: quello che risulta "altro" per i lettori italiani di Camilleri deriva quasi esclusivamente dall'uso del dialetto. Il resto, se vogliamo, è abbastanza familiare: le ambientazioni siciliane, sia quelle contemporanee che quelle storiche, l'ambito poliziesco (soprattutto nei romanzi del commissario Montalbano), la sensibilità stessa dello scrittore -- il suo calore umano, la sua ironia, l'umorismo, l'infallibile senso dei ritmi della vita umana -- appartengono al nostro universo culturale di lettori moderni. Tant'è vero che la stessa alterità dialettale dell'autore diventa presto "nostra" per il fatto di essere, almeno in parte, l'espressione di questa umanità universale. E difatti non si fa molta fatica, man mano che si va avanti nella lettura di Camilleri, a far propri gli stessi vocaboli che al principio sembravano così estranei.
L'altra osservazione che voglio fare riguarda invece l'ambigua capacità americana di assorbire tutte le culture del mondo, tutto quello, cioè, che sia "altro" rispetto ad essa, almeno in partenza. Che sia diventata l'America -- gli Stati Uniti s'intende -- una specie di deposito di tutto ciò che una volta poteva sembrare estraneo alla sua originaria civiltà anglosassone, lasciando per ora da parte la questione tragica delle culture indigene, non si può mettere in dubbio. Ma c'è pure il fatto, forse paradossale, che l'America accetti l'altro solo purché esso diventi americano, innanzitutto linguisticamente. Per esempio, c'è adesso una dura lotta politica contro il bilinguismo delle scuole nelle aree ispaniche, una resistenza contro un fenomeno che si potrebbe vedere alternativamente come una ricchezza. Un altro esempio, più attinente forse al nostro argomento, sarebbe una scrittrice "etnica" come la sinoamericana Amy Tan, che ha conosciuto tanto successo proprio perché ha saputo esprimere la sua esperienza "altra" in un linguaggio tipicamente americano, giornalistico, accessibile a tutti. Ha saputo farsi americana pur con tutte le sue peculiarità cinesi.
Dunque c'è, in questa America che si vuole autosufficiente ed autoreferenziale proprio per via della sua capacità selettiva di assorbimento culturale, una resistenza a quel che si consideri "altro", che non sia ancora recuperato come parte della comune koiné di riferimenti. E difatti si sa che gli americani, per la maggior parte, non vedono film stranieri, non leggono libri stranieri in traduzione, non ascoltano musica contemporanea straniera. Tant'è vero che il critico Eliot Weinberger, qualche anno fa, ha accusato l'editoria americana dello stesso tipo di protezionismo di cui veniva tacciata, da parte degli economisti americani, l'industria automobilistica giapponese. Si traducono e si leggono autori americani in tutto il mondo, ma gli editori americani non vogliono pubblicare scrittori stranieri, cioè libri la cui lingua originale non sia l'inglese (c'è moltissima collaborazione invece tra editori americani ed inglesi). Tra le cifre citate da Weinberger c'era questa: che nelle case editrici maggiori, si pubblica, in ognuna, una media di solo cinque libri stranieri all'anno. Cinque libri di qualsiasi tipo, tra scienze, narrativa, economia, poesia, critica, storia, ecc. Per gli inglesi, pur con la loro millennaria insularità, è già un'altro discorso, con una maggiore apertura pubblica ed editoriale verso lettarature straniere.
Tale atteggiamento generale nella cultura editoriale americana si fa sentire perfino nella consistenza materiale dei testi che hanno la fortuna di essere tradotti. Cioè sono soggetti pure loro, e lo siamo pure noi traduttori, alla medesima crivellatura di editing cui sono soggetti gli scrittori americani, ad un vaglio che si vorrebbe un controllo di errori di fatto e di senso -- e lo è nei migliori casi -- ma che diventa sempre più una volontà di far conformare il testo a degli standards prescritti, sia stilistici che grammatici-linguistici, di piegare la lingua (anche in traduzione) alla sua versione più immediatamente familiare e comprensibile. Così, nell'interminabile corso di produzione editoriale, appena i controllori dei testi -- gli editors, appunto, i correttori, che sono il più delle volte correttrici -- incontrano qualcosa fuori del normale, un vocabolo, una sintassi, un'allusione, qualcosa non dico di sbagliato, ma semplicemente d'insolito, vogliono subito sopprimerla e ricorrere alla soluzione più comune e facile. E questo potrebbe sembrare strano quando si considera che la letteratura inglese, ma anche soltanto quella americana, è storicamente molto varia proprio nel modo di trattare la lingua inglese, da Melville a Poe, da Faulkner a Stein, da Hemingway a Hammett e Chandler, da Pynchon a Cormac McCarthy. Eppure si va, o perlomeno si vorrebbe ufficialmente andare, verso un sempre maggiore appiattimento della lingua, cosa che dovrebbe idealmente tradursi, per gli editori, in sempre maggiori vendite.
Quando si tratta allora di tradurre in inglese uno scrittore come Andrea Camilleri, la cui originalità dipende anche da scarti rispetto a norme linguistiche, alcuni problemi si pongono. Quello del dialetto innanzitutto, cioè del se e del come tradurre il dialetto; ma anche quello della stranezza del contenuto stesso, che risulta doppiamente strano rispetto a norme americane-anglosassoni; quello delle esigenze di conformità non solo alle sopraccennate norme editoriali ma anche a regole semantiche ed epistemologiche basilari e inerenti a questa nostra lingua inglese; e via di questo passo. Ma qui mi limiterò a quei problemi che si presentano o si sono finora presentati nelle mie traduzioni dei romanzi del commissario Montalbano, che sono le uniche opere di Camilleri ad essere proposti finora al pubblico anglofono.
E naturalmente nel fatto stesso che siano solo le indagini del Commissario di Pubblica Sicurezza di Vigàta ad essere tradotte finora in inglese, abbiamo sempre a che fare con la questione dell'alterità, nel senso che il genere poliziesco è soprattutto d'origine anglosassone, e quindi per i lettori anglofoni il "giallo" camilleriano non sarà certo una cosa "altra". Semmai sarà l'ambientazione siciliana, l'apparente stranezza dei costumi, la complicatissima "dietrologia" dei problemi politici e burocratici, a dare quel tocco di piccante e d'esotismo al conosciutissmo modello letterario e a renderlo sufficientemente "altro", ma non troppo, per piacere al pubblico.
Fino a che punto, allora, date tutte queste condizioni editoriali-culturali, può una traduzione inglese di Camilleri conservare quello scarto rispetto alla norma linguistica appena accennato? Rimane comunque il fatto che un dialetto sia sempre un fenomeno strettamente locale, e che nella lingua inglese i dialetti praticamente non esistano più, a parte alcune eccezioni come per i montanari scozzesi. Non si può imporre ai poliziotti vigatesi il parlato di un preciso luogo geografico americano, britannico, australiano, ecc. Sarebbe assurdo che parlassero come i contadini mississippiani di Faulkner. E anche se volessi a tutti i costi mettere in bocca a un vigatese una parola, che so, scozzese, le squadre di redattrici me lo correggerebbero subito. E poi il fatto che un traduttore di lingua inglese quasi sempre traduca per tutto il mondo anglofono complica ancora di più le cose. Si cerca quasi sempre di impedire il miscuglio linguistico, di fare un prodotto che valga per tutti i possibili lettori, anche quando si tratta di un autore come il nostro, il quale è riuscito appunto a ibridare, in modo perfettamente naturale, la propria lingua. E forse volendo troppo riprodurre lo scarto linguistico si tradirebbe comunque lo spirito di questa naturalezza dell'originale.
Come procedere allora? Avendo finora tradotto soltanto i due primi romanzi della serie "Montalbano," posso dire che la strada più giusta mi sembra quella appunto di non allontarmi troppo da questa naturalezza camilleriana, tenendo sempre conto della particolarità del testo originale, sia nel suo linguaggio che nel contenuto. Così, per esempio, quando si usano parolacce, oscenità, "santioni", e parole "vastase" nei dialoghi -- che succede anche spesso -- mi conviene sempre attenermi, nella traduzione, a quell'area slang e popolare che mi è più familiare, cioè quella americana (più precisamente della regione nordorientale del paese), che poi sta diventando quasi universalmente comprensibile nel mondo anglofono per via soprattutto dei film e della televisione, ma che non è certo quell'inglese corretto che s'impara a scuola. D'altro canto, per non compromettere nemmeno la specificità anche tematica quale si manifesta nel linguaggio di Camilleri, mi sono permesso in diversi casi di tradurre letteralmente alcune espressioni idiomatiche, sia siciliane che italiane, che non esistono in inglese. Questa forzatura, se la vogliamo chiamare così, me la giustifico con l'importanza direi musicale di alcune espressioni che appaiono e riappaiono in Camilleri -- quelle che la signora Muñiz poco fa ha chiamato appunto dei leitmotiv -- e con il fatto che una traduzione può, anzi deve in certi casi creare, come ha detto Pushkin, nuovi spazi nella lingua nella quale si rifà il testo.
Per farne alcuni esempi, l'autore spesso non dice semplicemente "pazienza", ma quasi sempre "santa pacienza". Ora in certi momenti della narrazione la santità di questa pazienza contiene una carica spiccatamente ironica, come nel Cane di Terracotta, quando Montalbano e i suoi uomini fanno un gran casino nella montatura che è l'arresto del mafioso Tano u grecu, e l'omicida Tano, che recita la sua parte, se ne sta buono buono, le braccia alzate, appunto con santa pacienza; e in casi come questo mi è sembrato giusto dire "with the patience of a saint" oppure "with saintly patience" proprio per conservare l'umorismo del contrasto ironico, anche se queste formulazioni, peraltro perfettamente accettabili in inglese, non sono correnti come lo sono nel siciliano dell'autore. Un altro esempio di questo approccio riguarda l'espressione italiana della "vita, morte e miracoli" di qualcuno, espressione cui traducendo in inglese si potrebbe sostituire un'altro idioma che occupa lo stesso spazio semantico, quello che dice appunto della vita di uno from the cradle to the grave, dalla culla alla tomba. Ma nel caso specifico del fu ingegner Silvio Luparello nella Forma dell'Acqua, il quale appartiene all'establishment cattolico politico e viene appunto santificato dalla stampa e dalla televisione, è chiaramente meglio tradurla alla lettera e conservare questo preciso elemento religioso dell'idioma. E così faccio a volte anche con i pleonasmi dialettali -- per esempio di pirsona pirsonalmente -- proprio perché sono come dei motivi ripetuti in modo musicale o teatrale a fine di ottenere precisi effetti spesso comici.
Questa poi è una strategia che si può adoperare anche nella scrittura, e di cui il più famoso esempio nella letteratura anglo-americana moderna sarebbe Henry James, che avendo vissuto a lungo in Francia e in Italia non ha esitato, per dare uno stampo più originale al proprio stile, ad avvalersi di espressioni sia francesi che italiane che non esistono in inglese o che non esistevano prima di lui. Come, ad esempio, quando James dice ne La Coppa d'Oro che una data faccenda sia another pair of sleeves, un altro paio di maniche; che è, che io sappia, l'unica volta nella storia della letteratura di lingua inglese che questa espressione venga usata. Ma ci sono pure tanti esempi dello stesso fenomeno nella letteratura inglese del passato, che soprattutto nell'età elisabettiana subì un forte influsso italiano, arricchendosi di vocaboli, idiomi e stilemi italiani presi sia direttamente da testi originali rinascimentali che da traduzioni inglesi contemporanee, e di cui il più grande esempio sarebbe naturalmente Shakespeare, il cui linguaggo ha una forte inflessione italiana rispetto alla norma precedente.
Dunque a volte si può, si deve, adattare la lingua a nuove condizioni, a nuovi dati, quando si fa una traduzione. Rimane però il fatto, precisato da Walter Benjamin nel suo famoso saggio sul "compito del traduttore", che "in traduzione l'originale sale ad un'atmosfera linguistica per così dire più elevata, più pura." Cioè le oscurità, gli aspetti rozzi dell'originale, le zone d'ombra, spesso vengono esplicitate, anche per la natura stessa del tradurre, che è pure un chiarimento del testo, proprio per esserne semplicemente una lettura. Si potrebbe dire che così facendo si fa proprio, linguisticamente, quel che era altro nell'originale, anche se nel trasferimento si perde un po' di quell'immediatezza d'espressione pure sensoriale, quell'elemento di identità inconscia con la cosa espressa che si dà scrivendo.
Ora, per tornare a Camilleri, questo farsi proprio dell'alterità del linguaggio e del contenuto fino a che punto può conservare quell'elemento di distanziamento dell'originale senza diventare troppo alienante per i lettori della traduzione? E fino a che punto può questo procedimento dirsi consigliabile ed adatto alla materia in gioco? Fino a che punto può Camilleri farsi americano per soddisfare alle esigenze degli editori e alle aspettative di un pubblico di lettori purtroppo poco disposti ad immaginarsi al posto dell'altro, del non-americano, e rimanere sempre Camilleri? Non ho risposte pronte a queste domande un po' retoriche. Forse ne avremo alcune solo nella lettura dei testi tradotti o nel livello di riscontro che questi avranno presso il pubblico. The proof is in the pudding, come diciamo noi. Cioè, solo mangiando il budino si saprà quanto sia buono. Ma credo comunque una risposta parziale si possa trovare nell'accenno fatto in partenza: che l'alterità stessa del linguaggio di Camilleri sia sempre in via di diventare comune, che la facciamo comunque nostra, noi lettori, leggendolo, per via del contatto che l'autore ci fa avere con questo suo mondo, che è anche nostro o che diventa nostro grazie proprio all'amore che lui prova per questo mondo e per questo linguaggio. La distanza che si sperimenta leggendo, via via che si comincia a capire, diventa presto piacere; e l'amore dell'autore, diventato nostro pure esso, diventa immedesimazione. Se riesco almeno in parte a trasmettere al lettore anglofono questo procedimento dell'autore, questa sua specie di traduzione linguistica e morale dei valori umani universali che fa sì che l'altro diventi sempre noi stessi, allora non avrò del tutto fallito nel mio compito.
Stephen Sartarelli, poeta e traduttore, ha pubblicato tre raccolte di poesia, tra cui The Open Vault (2001). Sta traducendo in inglese tutti i romanzi del Commissario Montalbano e spera in futuro di lavorare anche sui romanzi 'storici' di Camilleri. Ha tradotto, tra l'altro, Gesualdo Bufalino, Francesca Duranti, Umberto Saba, e dal Settecento francese, Giacomo Casanova, Jacques Cazotte e Xavier de Maistre. Da oltre quindici anni lavora alla traduzione dell'Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo.
Stephen Sartarelli
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