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La ferita di Vishinskij



Autore Gaetano Savatteri
Prezzo E 11,00
Pagine p. 302
Data di pubblicazione 2003
Editore Sellerio
Collana La Memoria


Dai sensi di colpa di un vecchio magistrato in pensione, riemerge una morte
sepolta negli archivi del tempo: una ragazza, ultima generazione di una
eminente antica famiglia siciliana, ma figlia di madre danese, e lei stessa più
straniera (di modi, di desideri, di bellezza) che siciliana, scomparsa quasi
vent'anni prima nel mare tra Palermo e Napoli, precipitata dal "postale". Si
preferì allora credere frettolosamente all'incidente. Ma adesso le domande di un
improvvisato detective del passato giocano una specie di partita con un
partner invisibile (è il caso, o una regia sapiente che lo guida?) che risponde,
disseminando ogni volta indizi, messaggi, incontri casuali, fotografie. E a ogni
mano della partita prende corpo la trama di una faida bisecolare tra due
famiglie, appartenente più che al circolo della vendetta che ritorna, all'anello
stringente di un destino che si cerca di rompere. Un giallo "storico" che sembra
animato da una specie di movimento alla Dumas: c'è il delitto, ma intorno ad
esso si stratificano, come bucce successive che si sfogliano, quadri salienti
dalla storia siciliana mentre un vento fatale di rivalsa avventurosa li attraversa.

Presentazione di Andrea Camilleri
Roma, Libreria Feltrinelli, Largo Torre Argentina, 17 febbraio 2004

E’ con autentico piacere che ho accettato di presentare il secondo romanzo di Gaetano Savatteri, autore del quale, meno di quattro anni fa, avevo presentato a Racalmuto il suo primo libro, “La congiura dei loquaci”, edito anche quello da Sellerio. E non si tratta solo di un piacere dell’amicizia (Brancati docet), quanto soprattutto del piacere di un lettore che trova confermate e di gran lunga diventate più mature e abili e intelligenti e persuasive le capacità narrative dimostrate, sia pure in modo ancora acerbo, nella prima prova.
A questo punto, prima di procedere oltre, sento indispensabile una premessa che riguarda un certo metodo critico vigente nel nostro paese e che indulge, più che all’esame del Dna di un autore, a ipotesi e supposizioni sulla sua pelle. Mi è capitato di leggere qualche recensione alla “Ferita” e ancora una volta ho dovuto prendere atto che molti recensori, pur esperimento giudizi largamente positivi, si ponevano inizialmente una specie di problema che mi pare riguardare piuttosto i capomastri che non chi pratica coi libri. Mi spiego meglio. Muniti di filo a piombo, questi recensori stanno preventivamente a controllare se l’alta statura di Savatteri pencola più verso Sciascia o verso Camilleri. E poi concludono che Savatteri pende verso Sciascia, forti oltretutto del fatto che lo scrittore, impropriamente nato a Milano, è cresciuto a Racalmuto, città di Sciascia, e che addirittura nel suo primo libro compare, come personaggio, Sciascia in persona.
Risolto questo problema a modo loro, si sentono assai più tranquilli e possono procedere nel loro giudizio. Senza riflettere sul fatto cha Sciascia, io, Savatteri siamo della stessa provincia che ha avuto come capotribù Pirandello, verso il quale tutti abbiamo un debito tale che continuiamo a pagare senza riuscire mai a saldarlo. E andatevi a leggere, a conferma di quanto ho appena detto, lo scioglimento finale di questo romanzo consistente in un rapporto dell’Interpol dove è scritto che uno dei fratelli, che usavano cognomi diversi, Machì e Santacorona, e dei quali si chiedono notizie, risulta suicidatosi e l’altro introvabile. Machì. Ma chi?- verrebbe da interrogarsi proprio su suggerimento dell’autore stesso che ha scelto quel cognome. Un recensore ha scritto che questo romanzo continua, dopo Sciascia, a renderci edotti "sul maldivivere isolano nei bassifondi dell’odio e del malaffare socio-politico”. Gesù! Da siciliano, mi viene da reagire subito alla brutta. Bassifondi dell’odio? Solo perché il libro di Savatteri racconta episodi di un odio secolare tra la famiglia Pancamo e la famiglia Pintacorona? E come la mettiamo allora, tanto per fare il primo esempio che mi viene in testa, con i Capuleti e i Montecchi? E poi, vorrei sommessamente far notare che il malaffare socio- politico esiste, è vero, in Sicilia, ma non solo in Sicilia. E credo, soprattutto in questi giorni, di non avere necessità di portare esempi esplicativi. Al massimo, si può dire, con Sciascia, che la palma oramai si è spostata al nord.
A mio sommesso parere, definire questo romanzo un “giallo” o peggio ancora un “thriller”, significa in qualche modo volerlo costringere a indossare una taglia troppo stretta. Confinarlo in un genere. In realtà si tratta di un romanzo tout court, abilissimamente congegnato in una struttura stratificata che permette un excursus temporale di assoluta libertà inventiva. Devo dire, da falsario quale sono, che molto mi hanno divertito e appassionato i finti rapporti di polizia, le finte note storiche e memorie della città di Giallonardo, le finte pagine di libri inesistenti che puntellano e illustrano la lunga guerra, che risale a dopo il cinquecento e che arriva fino a quasi i giorni nostri, tra i Pintacorona e i Pancamo. E in mezzo a tante finzioni, certe autentiche riproposizioni di pagine di quotidiani (come quelle sul governo regionale di Milazzo e soci) permettono a Savatteri di tracciare un mosso affresco delle tormentate e contraddittorie vicende politiche e sociali della Sicilia. E’ un’indagine, certo, ma quale romanzo non è un’indagine? Se io dicessi che il romanzo inizia con la caduta in mare dal traghetto Palermo- Napoli, nel settembre 1985, di una ventenne, Maddalena Pancamo, e il suo annegamento per disgrazia o per suicidio, partirei col piede sbagliato, rischiando di cadere, come lettore, da quello stesso traghetto per acclarata disattenzione. Certo, il punto di partenza è quello, ed è rivelato sia dal brogliaccio della Questura di Palermo sia da una notizia di cronaca che fa il nome della vittima, Pancamo, e apertamente parla di disgrazia. In realtà il romanzo inizia diversamente. Vale a dire con un paragrafetto di appena sette righe a stampa, che finge essere un brano estrapolato da una lettera, datata 11 maggio 1861, del segretario generale del dicastero di P.S. al Luogotenente generale di Palermo. In queste sette righe i Pancamo e i Pintacorona sono descritti come persone ancora da civilizzare, intente a spargere i semi dell’odio e dell’intrigo e perciò da sottoporre alla misura del domicilio coatto, o meglio il confino, in paesi più civili. Nella pagina successiva, un altro paragrafetto, di righe dieci questo, è uno stralcio della relazione tenuta dal Procuratore generale del Re a Palermo, il 12 gennaio 1862, vale a dire meno di un anno dopo, nel quale viene affermato che i Pintacorona e i Pancamo, "additati come causa dei mali della nostra terra”  da funzionari pubblici in malafede, in realtà sono degnissime persone che godono del rispetto unanime e che “la concordia che da sempre unisce le due famiglie” è “a lungo destinata a perdurare”. Dunque il secondo paragrafo non solo contraddice il primo, ma ne ribalta le conclusioni.
Abilmente insomma Savatteri fin dalle due pagine iniziali, prima ancora di entrare nel vivo del racconto, ti avverte di una duplice lettura dei fatti. Ti avverte a non precipitarti a fare una scelta di campo. Dice Borges nella Postulazione della realtà:”Il fatto stesso di porre attenzione è di tipo selettivo, ogni attenzione comporta una deliberata omissione di ciò che non interessa”. Ossia di ciò che non pare interessare. Le parole chiavi dell’intero romanzo sono tutte comprese in quelle prime diciassette righe e a tutte va riservato, da parte del lettore, lo stesso interesse. Perché in questo libro non c’è un rigo che sia inutile. Vi pare poco? Ho detto, e hanno detto, che si tratta di un romanzo strutturato per stratificazioni, ma mi preme aggiungere che i diversi strati sono tra loro legati da fili intersecanti, i quali fili a volte sono evidenti, a volte hanno un andamento carsico, procedono cioè sotterraneamente per riemergere più in là nel corso del racconto. Non solo ci vuole molta bravura e abilità per narrare a questo modo, ma ci vuole anche e soprattutto una sorta di, non saprei definirla diversamente, passione narrativa che sottende alla storia e le fa da collante.
Un’ultima considerazione sul titolo. Del ferimento casuale di Andrej Vishinskij, all’epoca potente braccio destro di Stalin, si parla nel capitolo intitolato “Dicembre 1943”, data di una sua rapidissima e misteriosa visita a Palermo e da molti messa in dubbio. Io, però, ne fui testimone. Il ferimento, dovuto a un colpo d’arma da fuoco esploso da uno di due mafiosi appostati per sparare  a un Pintacorona, avviene a pagina 61 del romanzo. E non se ne parla più fino a pagina 287, cioè alla conclusione. Quella ferita avrebbe potuto portare alla identificazione di un russo che, nel 1954, negli Stati Uniti, asseriva di essere Vishinskij, scappato dall’URSS per timore di ritorsioni da parte di Kruscev. Ma l’indagine sulla ferita che una giovane e bella statunitense viene a fare in Sicilia non ha seguito perché colui che diceva di essere Vishinskij si suicida e la missione della donna viene annullata. Questo episodio è stato definito da qualche recensore come un aneddoto, una digressione, un”piccolo caso nel caso”.
Sinceramente, non credo che le cose stiano così.
Penso invece che questo episodio sia solo apparentemente marginale e il fatto stesso che l’autore l’abbia scelto per intitolare il romanzo è una precisa spia perché nell’organizzare la sua struttura narrativa Savatteri non lascia nulla al caso e non si concede divagazioni. Tra l’altro, è proprio questo rigore a fare la solidità, la compattezza della narrazione. Cosa ci narra l'episodio della ferita? Lo ripeto brevemente. Si racconta che nel 1943 Vishinski, a Palermo, rimane casualmente ferito e che undici anni dopo viene inviata in Sicilia dagli Stati Uniti una donna per raccogliere informazioni su quella ferita, la quale ferita servirà a stabilire se un russo, che afferma di essere Vishinskij, dica la verità o no. Però il russo si suicida e la verità non si saprà mai. Questo episodio contiene, a mio parere, tutto il senso del romanzo. Qui si tratta di una ferita fisica; la morte per acqua della ventenne  Maddalena Pancamo rappresenta invece la metafora conclusiva di una ferita, di una lacerazione sulla quale si indaga. E ancora: la schizofrenia di uno dei due fratelli non è una ferita? E torno a chiedermi: siamo così certi che il suicida del lago svizzero (come il russo che si diceva Vishinskij) abbia proprio quel nome che gli viene dato? So benissimo che le mie parole non sono chiare, ma dire più chiaramente comporterebbe certamente il rischio di togliere al futuro lettore il gusto e il piacere di percorrere fino in fondo tutte le implicazioni di questo romanzo complesso sì ma non tortuoso, denso ma non oscuro, comunque e sempre godibilissimo.



Last modified Wednesday, July, 13, 2011