Dai sensi di colpa di un vecchio magistrato in pensione, riemerge una morte
sepolta negli archivi del tempo: una ragazza, ultima generazione di una
eminente antica famiglia siciliana, ma figlia di madre danese, e lei stessa più
straniera (di modi, di desideri, di bellezza) che siciliana, scomparsa quasi
vent'anni prima nel mare tra Palermo e Napoli, precipitata dal "postale". Si
preferì allora credere frettolosamente all'incidente. Ma adesso le domande di un
improvvisato detective del passato giocano una specie di partita con un
partner invisibile (è il caso, o una regia sapiente che lo guida?) che risponde,
disseminando ogni volta indizi, messaggi, incontri casuali, fotografie. E a ogni
mano della partita prende corpo la trama di una faida bisecolare tra due
famiglie, appartenente più che al circolo della vendetta che ritorna, all'anello
stringente di un destino che si cerca di rompere. Un giallo "storico" che sembra
animato da una specie di movimento alla Dumas: c'è il delitto, ma intorno ad
esso si stratificano, come bucce successive che si sfogliano, quadri salienti
dalla storia siciliana mentre un vento fatale di rivalsa avventurosa li
attraversa.
Presentazione di Andrea Camilleri
Roma, Libreria Feltrinelli, Largo Torre Argentina, 17 febbraio 2004
E’ con
autentico piacere che ho accettato di presentare il secondo romanzo di Gaetano
Savatteri, autore del quale, meno di quattro anni fa, avevo presentato a
Racalmuto il suo primo libro, “La congiura dei loquaci”, edito anche quello
da Sellerio. E non si tratta solo di un piacere dell’amicizia (Brancati docet),
quanto soprattutto del piacere di un lettore che trova confermate e di gran
lunga diventate più mature e abili e intelligenti e persuasive le capacità
narrative dimostrate, sia pure in modo ancora acerbo, nella prima prova.
A questo punto, prima di
procedere oltre, sento indispensabile una premessa che riguarda un certo metodo
critico vigente nel nostro paese e che indulge, più che all’esame del Dna di
un autore, a ipotesi e supposizioni sulla sua pelle. Mi è capitato di leggere
qualche recensione alla “Ferita” e ancora una volta ho dovuto prendere atto
che molti recensori, pur esperimento giudizi largamente positivi, si ponevano inizialmente
una specie di problema che mi pare riguardare piuttosto i capomastri che non chi
pratica coi libri. Mi spiego meglio. Muniti di filo a piombo, questi recensori
stanno preventivamente a controllare se l’alta statura di Savatteri pencola più
verso Sciascia o verso Camilleri. E poi concludono che Savatteri pende verso
Sciascia, forti oltretutto del fatto che lo scrittore, impropriamente nato a
Milano, è cresciuto a Racalmuto, città di Sciascia, e che addirittura nel suo
primo libro compare, come personaggio, Sciascia in persona.
Risolto questo problema a
modo loro, si sentono assai più tranquilli e possono procedere nel loro
giudizio. Senza riflettere sul fatto cha Sciascia, io, Savatteri siamo della
stessa provincia che ha avuto come capotribù Pirandello, verso il quale tutti
abbiamo un debito tale che continuiamo a pagare senza riuscire mai a saldarlo. E
andatevi a leggere, a conferma di quanto ho appena detto, lo scioglimento finale
di questo romanzo consistente in un rapporto dell’Interpol dove è scritto che
uno dei fratelli, che usavano cognomi diversi, Machì e Santacorona, e dei quali
si chiedono notizie, risulta suicidatosi e l’altro introvabile. Machì. Ma
chi?- verrebbe da interrogarsi proprio su suggerimento dell’autore stesso che
ha scelto quel cognome. Un recensore ha scritto che questo romanzo continua,
dopo Sciascia, a renderci edotti "sul maldivivere isolano nei bassifondi
dell’odio e del malaffare socio-politico”. Gesù! Da siciliano, mi viene da
reagire subito alla brutta.
Bassifondi dell’odio? Solo perché il libro di Savatteri racconta episodi di
un odio secolare tra la famiglia Pancamo e la famiglia Pintacorona? E come la
mettiamo allora, tanto per fare il primo esempio che mi viene in testa, con i
Capuleti e i Montecchi? E poi, vorrei sommessamente far notare che il malaffare
socio- politico esiste, è vero, in Sicilia, ma non solo in Sicilia. E credo,
soprattutto in questi giorni, di non avere necessità di portare esempi
esplicativi. Al massimo, si può dire, con Sciascia, che la palma oramai si è
spostata al nord.
A mio sommesso parere,
definire questo romanzo un “giallo” o peggio ancora un “thriller”,
significa in qualche modo volerlo costringere a indossare una taglia troppo
stretta. Confinarlo in un genere. In realtà si tratta di un romanzo tout court,
abilissimamente congegnato in una struttura stratificata che permette un
excursus temporale di assoluta libertà inventiva. Devo dire, da falsario quale
sono, che molto mi hanno divertito e appassionato i finti rapporti di polizia,
le finte note storiche e memorie della città di Giallonardo, le finte pagine di
libri inesistenti che puntellano e illustrano la lunga guerra, che risale a dopo
il cinquecento e che arriva fino a quasi i giorni nostri, tra i Pintacorona e i
Pancamo. E in mezzo a tante finzioni, certe autentiche riproposizioni di pagine
di quotidiani (come quelle sul governo regionale di Milazzo e soci) permettono a
Savatteri di tracciare un mosso affresco delle tormentate e contraddittorie
vicende politiche e sociali della Sicilia. E’ un’indagine, certo, ma quale
romanzo non è un’indagine? Se io dicessi che il romanzo inizia con la caduta
in mare dal traghetto Palermo- Napoli, nel settembre 1985, di una ventenne,
Maddalena Pancamo, e il suo annegamento per disgrazia o per suicidio, partirei
col piede sbagliato, rischiando di cadere, come lettore, da quello stesso
traghetto per acclarata disattenzione. Certo, il punto di partenza è quello, ed
è rivelato sia dal brogliaccio della Questura di Palermo sia da una notizia di
cronaca che fa il nome della vittima, Pancamo, e apertamente parla di disgrazia.
In realtà il romanzo inizia diversamente. Vale a dire con un paragrafetto di
appena sette righe a stampa, che finge essere un brano estrapolato da una
lettera, datata 11 maggio 1861, del segretario generale del dicastero di P.S. al
Luogotenente generale di Palermo. In queste sette righe i Pancamo e i
Pintacorona sono descritti come persone ancora da civilizzare, intente a
spargere i semi dell’odio e dell’intrigo e perciò da sottoporre alla misura
del domicilio coatto, o meglio
il confino, in paesi più civili. Nella pagina successiva, un altro paragrafetto,
di righe dieci questo, è uno stralcio della relazione tenuta dal Procuratore
generale del Re a Palermo, il 12 gennaio 1862, vale a dire meno di un anno dopo,
nel quale viene affermato che i Pintacorona e i Pancamo, "additati come
causa dei mali della nostra terra” da
funzionari pubblici in malafede, in realtà sono degnissime persone che godono
del rispetto unanime e che “la concordia che da sempre unisce le due
famiglie” è “a lungo destinata a perdurare”. Dunque il secondo paragrafo
non solo contraddice il primo, ma ne ribalta le conclusioni.
Abilmente insomma Savatteri fin
dalle due pagine iniziali, prima ancora di entrare nel vivo del racconto, ti
avverte di una duplice lettura dei fatti. Ti avverte a non precipitarti a fare
una scelta di campo. Dice Borges nella Postulazione
della realtà:”Il fatto stesso di porre attenzione è di tipo selettivo,
ogni attenzione comporta una deliberata omissione di ciò che non interessa”.
Ossia di ciò che non pare interessare. Le parole chiavi dell’intero romanzo
sono tutte comprese in quelle prime diciassette righe e a tutte va riservato, da
parte del lettore, lo stesso interesse. Perché in questo libro non c’è un
rigo che sia inutile. Vi pare poco? Ho detto, e hanno detto, che si tratta di un
romanzo strutturato per stratificazioni, ma mi preme aggiungere che i diversi
strati sono tra loro legati da fili intersecanti, i quali fili a volte sono
evidenti, a volte hanno un andamento carsico, procedono cioè sotterraneamente
per riemergere più in là nel corso del racconto. Non solo ci vuole molta
bravura e abilità per narrare a questo modo, ma ci vuole anche e soprattutto
una sorta di, non saprei definirla diversamente, passione narrativa che sottende
alla storia e le fa da collante.
Un’ultima considerazione sul
titolo. Del ferimento casuale di Andrej Vishinskij, all’epoca potente braccio
destro di Stalin, si parla nel capitolo intitolato “Dicembre 1943”, data di
una sua rapidissima e misteriosa visita a Palermo e da molti messa in dubbio.
Io, però, ne fui testimone. Il ferimento, dovuto a un colpo d’arma da fuoco
esploso da uno di due mafiosi appostati per sparare
a un Pintacorona, avviene a pagina 61 del romanzo. E non se ne parla più
fino a pagina 287, cioè alla conclusione. Quella ferita avrebbe potuto portare
alla identificazione di un russo che, nel 1954, negli Stati Uniti, asseriva di
essere Vishinskij, scappato dall’URSS per timore di ritorsioni da parte di
Kruscev. Ma l’indagine sulla ferita che una giovane e bella statunitense
viene a fare in Sicilia non ha seguito
perché colui che diceva di essere Vishinskij si suicida e la missione della
donna viene annullata. Questo episodio è stato definito da qualche recensore
come un aneddoto, una digressione, un”piccolo caso nel caso”.
Sinceramente, non credo che le
cose stiano così.
Penso invece che questo episodio
sia solo apparentemente marginale e il fatto stesso che l’autore l’abbia
scelto per intitolare il romanzo è una precisa spia perché nell’organizzare
la sua struttura narrativa Savatteri non lascia nulla al caso e non si concede
divagazioni. Tra l’altro, è proprio questo rigore a fare la solidità, la
compattezza della narrazione. Cosa ci narra l'episodio della ferita? Lo ripeto
brevemente. Si racconta che nel 1943 Vishinski, a Palermo, rimane casualmente
ferito e che undici anni dopo viene inviata in Sicilia dagli Stati Uniti una
donna per raccogliere informazioni su quella ferita, la quale ferita servirà a
stabilire se un russo, che afferma di essere Vishinskij, dica la verità o no.
Però il russo si suicida e la verità non si saprà mai. Questo episodio
contiene, a mio parere, tutto il senso del romanzo. Qui si tratta di una ferita
fisica; la morte per acqua della ventenne Maddalena Pancamo rappresenta invece la metafora conclusiva
di una ferita, di una lacerazione sulla quale si indaga. E ancora: la
schizofrenia di uno dei due fratelli non è una ferita? E torno a chiedermi:
siamo
così certi che il suicida del lago svizzero (come il russo che si diceva
Vishinskij) abbia proprio quel nome che gli viene dato? So benissimo che
le mie parole non sono chiare, ma dire più chiaramente comporterebbe certamente
il rischio di togliere al futuro lettore il gusto e il piacere di percorrere
fino in fondo tutte le implicazioni di questo romanzo complesso sì ma non
tortuoso, denso ma non oscuro, comunque e sempre godibilissimo.
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