«I racconti di Camilleri sono trascinanti e irresistibili, dolci e salati. E rinnovano uno
dei pochi miracoli letterari italiani (il suo)»
(Antonio D'Orrico, Sette - Corriere della Sera)
«Io al teatro sono debitore all’ottantacinque per cento della mia scrittura, non solo il teatro è presente, direi di più, è intricato dentro il mio modo di raccontare: l’uso dei colpi di scena, il disseminare di una serie di piccoli segni che poi confluiscono in un evento rivelatore...». Queste parole di Camilleri trovano ancora una volta conferma in questo libro: a Vigàta, il palcoscenico di tutte le sue storie, si muovono protagonisti e comparse; recitano, ma sono persone vere, per i sentimenti che nutrono e per le avventure che vivono, avanzano sulla scena al ritmo impresso dallo scrittore, con un sottofondo musicale che è la lingua temeraria e irresistibile che ha inventato. Andrea Camilleri sostiene di non avere avuto una vita avventurosa ma che il suo diventa un racconto straordinario «perché straordinarie sono le persone - anche le più normali - che ho osservato, notato, conosciuto»; attinge così a una memoria sterminata, di letture e di teatro sì, ma soprattutto di incontri con fatti e personaggi della sua Sicilia; e le sue pagine fanno ridere e piangere, commuovere ed emozionare.
Otto racconti, ambientati tra Ottocento e Novecento, che pur nella distanza temporale che li separa, sembrano comporre un unico romanzo.
Le storie raccolte in questo volume sono:
Il duello è contagioso
La cappella di famiglia
Teresina
Il palato assoluto
La rettitudine fatta persona
Il morto viaggiatore
Lo stivale di Garibaldi
L'oro a Vigàta
La cronaca contorta e pazza di Vigàta è uno spinaio di furfanterie, sgangheratezze, deliramenti, e intrichi d’amore: un intreccio di balordaggini pubbliche e di magnifiche stolidezze private. Nel villaggio, l’innocenza è spesso un candore temerario, un’allucinazione; e l’onestà è il capolavoro di falsari della morale e del buonsenso caritativo. Lo stesso crimine è un refuso dell’intelligenza, una morbida beffa. E la tristezza nuda di un cimitero si presta agli esercizi di un petrarchismo peloso versato nel corteggiamento di una Lauretta in abiti vedovili e alla resa dei conti tra parenti. Il camposanto diventa una gremita e agitata piazza d’armi e d’amori. Ci si mette anche il caso, che porta a rovescio ciò che si vorrebbe fosse il dritto. Le apparenze ingannano. E la realtà contempla situazioni che proliferano. Gli amori clandestini fanno sì che si formino collezioni di famiglie. La strampalatezza eccitabile è una corrente elettrica incontrollata: accende reazioni a catena, contagi come da «epidemia»; assurdità ossimoriche del tipo: «Un morto si reca all’obitorio ma cade strada facendo». Un dono di natura è capace di distorcere un’intera vita, e trasformare l’eletto in una «macchina» digerente, priva di «cuore», di «cervello», di funzioni sessuali.
L’arco cronologico è lungo. Va dal 1862 al 1950, dopo avere attraversato l’aria viziata di stupidità e dissennatezza del ventennio nero. Gli otto racconti, o «storie» vigatesi, fanno libro. Si sostengono a vicenda. E sono unificati dal comune assoggettamento al regime della voce poderosa del narratore, che risuona dentro la scrittura. Presentano tutti un umorismo a lenta combustione, che non dirompe se non fuori dalle pagine, nelle reazioni dei lettori. Camilleri surriscalda le scene con accortezza, per liberare alla fine volatili delizie perfettamente godibili, estremamente divertenti. Raccoglie (nei racconti intitolati Lo stivale di Garibaldi e La rettitudine fatta persona) l’eredità del Boccaccio, grande coreografo di processioni dietro reliquie che sacre non sono; e gran fabbro della «santità» blasfema di ser Ciappelletto. E se l’improbabile santità del personaggio di Camilleri non produrrà miracoli com’era accaduto con la «devozione» di «san Ciappelletto», un «miracolo» letterario operò di sicuro la «reliquia» di Garibaldi: «lo stivale insanguinato del Generalissimo». Alle onoranze dedicate allo stivale, alla processione, presero parte due giovani che ebbero così modo di affiatarsi e di promettersi. Si chiamavano Caterina e Stefano. Si sposarono. Dal loro matrimonio nacque Luigi Pirandello.
Salvatore Silvano Nigro
'Ntanto il sei di majo tutta Vigàta era stata mittuta a canoscenzia che il Tribunali civili di Montelusa aviva ditto la parola difinitiva, senza cchiù possibilità d'appello, nella causa che da trent'anni si strascinava tra i dù frati Cammarata, Liborio e Gregorio.
Il loro patre, don Calorio, ricco sfunnato, pirsona grevia, superbiosa e cori di petra, era morto ottantino quanno oramà Liborio aviva quarantun anni e Gregorio uno di meno. Tra i dù frati c'era stata sempri 'n'antipatia profunna, 'nsormontabili, 'na cosa 'stintiva, senza 'na vera raggiuni, ma accussì forti che manco si salutavano e si parlavano quanno per caso si 'ncontravano.
Ma puro il patre da anni non parlava coi sò dù figli e per la stissa midesima raggiuni per la quali Liborio e Gregorio non s'arrivolgivano la parola: gli erano stati 'ntipatici già dalla culla. Gli erano parsi dù vermi, e vermi li considerò e l'acchiamò fino a che ebbi vita.
Tri jorni appresso al funerali del patre, Liborio e Gregorio si erano apprisintati, a deci minuti di distanzia l'uno dall'autro, dal notaro Cumella che l'aviva 'nformati d'essiri 'n posesso del testamento di Calorio.
E ccà avivano attrovato al notaro Cumella chiuttosto 'mparpagliato e strammato. Li aviva fatti accomidare e li taliava, assittati davanti a lui a debita distanza l'uno dall'autro, e non s'addicidiva a raprire la busta sigillata con dintra il testamento.
«C'è cosa?» s'era addeciso a spiare Liborio.
«Beh, sì» aviva arrispunnuto il notaro.
«Parlasse chiaro» aviva ditto Gregorio.
Prima di rapriri vucca, il notaro si era schiaruto la gola e aviva sputato nella sputazzera.
«Ho ricevuto tre telefonate da tre colleghi notari. Sisillo da Montelusa, Bonocore da Sicudiana e Tripepi da Montereale. Guardate la data su questa busta: 12 dicembre 1899. È il giorno nel quale vostro padre è venuto qua a fare il testamento. Senonché, nella stessa giornata, si è recato a Montelusa, a Sicudiana e a Montereale e ha fatto altri tre testamenti. Naturalmente tanto io quanto gli altri notai eravamo all'oscuro di tutto, ognuno di noi credeva di essere in possesso dell'unico testamento. Ora aspetto notizie dai miei colleghi che intanto si stanno consultando sul modo migliore di procedere. Tornate domani ».
«Che grannissimo cornuto!» fici dintra di lui Liborio pinsanno a sò patre.
«Che gran figlio di buttana!» fici dintra di lui Gregorio pinsanno a sò patre.
All'indomani, Liborio e Gregorio, doppo aviri passato 'na nuttatazza 'nfami, s'erano attrovati davanti a quattro notari, ognuno con una busta 'n mano.
«Abbiamo deciso» aviva ditto il notaro Cumella «che l'apertura delle buste avverrà secondo l'ordine alfabetico dei nostri cognomi, Bonocore, Cumella, Sisillo e Tripepi. Si proceda».
Bonocore aviva liggiuto il tistamento. Calorio lassava ogni cosa a Liborio e disiridava a Gregorio.
Nel tistamento fatto con Cumella 'nveci lassava ogni cosa a Gregorio e nenti a Liborio.
Al notaro Sisillo 'nveci Calorio aviva ditto che la sò eredità toccava tutta a Liborio e manco 'na moddricheddra di pani per Gregorio.
Nel tistamento fatto col notaro Tripepi 'nveci ogni beni viniva lassato a Gregorio mentri Liborio ristava a vucca asciutta.
Dù a dù. Non c'erano santi, abbisognava annare a causa.
E Liborio e Gregorio, niscenno dallo studdio del notaro Cumella, non si erano cchiù taliati con 'ntipatia, ma con odio vero. E in quell'odio reciproco avivano consumato la loro esistenzia, tanto che nisciuno dei dù si era voluto maritari.
E ora finalmenti era arrivata la sintenza difinitiva.
La quali diciva che tutti i beni lassati dal defunto dovivano essiri, doppo trent'anni che si nni stavano congilati, scongilati ed equamenti divisi tra i dù frati, a meno che Liborio, essenno il figlio maggiori, nelle more del disbrigo delle pratiche per lo scongelamento, stabilito in mesi sei, non avissi nel frattempo contratto regolari matrimonio. Nel quali caso – diciva la sintenza – tutto il grosso dell'eredità sarebbi toccato a lui, lassanno a Gregorio sulo 'na minima parti dei beni che il tribunali stabiliva in un magazzino e in una casa a dù piani di civili bitazioni.
'Na miseria, 'na limosina, 'na cacateddra di musca, a petto ai dudici magazzini, all'otto case, ai quattro appezzamenti di tirreno bono coltivati, alle quattro paranze e ai boni del Tisoro che 'nveci sarebbiro annati a Liborio 'n caso di pigliata di mogliere.
La sintenza ebbi dù conseguenzie.
La prima fu che l'ultrasittantino Liborio, tri jorni appresso, dichiarò ai soci del circolo che si era fatto zito con la vintina Mariastella Gennaro, figlia della sò cammarera Zina, e che era in corso la nisciuta delle carte, per cui era prividibili che la cirimonia si sarebbi cilibrata tra tri misi, massimo tri misi e mezzo.
La secunna fu che a Gregorio, alla notizia del prossimo matrimonio di Liborio, gli vinni il sintòmo, per cui si nni stetti 'na simana allo spitali di Montelusa tra la vita e la morti.
Appena che fu 'n condizioni di spiccicari parola, chiamò a un amico raggiuneri e gli detti disposizioni d'accattare un pezzo di terra al camposanto, nella parti opposta a quella in cui c'era la cappella di famiglia, e farici costruiri 'na tomba sulo per lui. Nella cappella di famiglia, 'nzemmula al patre Calorio e al frate Liborio non ci sarebbi voluto stari manco da morto.
(Il brano del racconto La cappella di famiglia qui riportato è stato pubblicato su
La Repubblica del 21.10.2016)
|