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Il sorriso di Angelica



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 14,00
Pagine 257
Data di pubblicazione 21 ottobre 2010
Editore Sellerio
Collana La memoria n.833
e-book € 9,99 (formato epub, protezione acs4)



Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe quantunque di lontano
l’angelico sembiante e quel bel volto
che all’amorose reti il tenea involto.

Una banda di ladri ripulisce gli appartamenti di alcuni facoltosi professionisti di Vigàta. Le modalità dei furti si ripetono sempre uguali, quasi una sfida per il commissario Montalbano, anche perché il capo dell’organizzazione pare intenzionato a continuare ancora a lungo, senza timore di essere preso.
A subire un furto in casa è anche Angelica Cosulich, «trintina» di bell’aspetto, da pochi mesi trasferita nella locale sede della Banca siculo-americana.
A Montalbano Angelica ricorda in modo impressionante l’eroina dell’Orlando Furioso così come se l’era immaginata quando era sui banchi di scuola e si strugge d’amore per lei; ed è proprio il poema dell’Ariosto a scandire i punti salenti dell’intera vicenda che si snoda fantasiosa, emozionante, ironica, ricca di colpi di scena.
Quando però uno della banda viene trovato morto e la sfida si fa cruenta la verità si fa più vicina.


Nota

A Roma, qualche tempo fa, una banda di ladri ha svaligiato numerosi appartamenti con la tecnica descritta in questo romanzo.
Tutto il resto, nomi di persone, d'istituti, fatti, situazioni, ambienti e quant'altro sono di mia invenzione e non hanno alcuna attinenza con la realtà.
Ammesso che da un romanzo la realtà la si debba considerare esclusa.

"Il sorriso di Angelica" è il primo libro che pubblico con Sellerio dopo la scomparsa della mia amica Elvira.
Elvira dopo la lettura del dattiloscritto mi telefonò segnalandomi un errore madornale che era sfuggito alle diverse e attente revisioni mie e di altri.
Qui lo ricordo solo per raccontare a voi e ricordare a me la cura, l'attenzione e l'affetto coi quali Elvira leggeva i suoi autori

A. C.


Gli anni non impediscono a Montalbano di riaccedere alle venture e agli incanti dell’esperienza adolescenziale: all’inadeguatezza emotiva, alle fantasticaggini, ai risalti del cuore, ai turbamenti, alla tenera e trepida lascivia; alle affezioni precipitose, anche: dagli scoppi d’ira, agli schianti di gelosia. Conosce a memoria la poesia Adolescente di Vincenzo Cardarelli. Recita a se stesso i versi sul «pescatore di spugne», che avrà la sua «perla rara». E sa, non senza diffidenza e discorde sospetto di decrepitezza, quando più e quando meno, tra il lepido e il drammatico, che «… il saggio non è che un fanciullo / che si duole di essere cresciuto». In così gelosa materia, il commissario ha vicino, con la sua delicatezza silenziosa e con la comprensione partecipe, l’ispettore Fazio. Non crede invece, alla sua «saggezza», la fidanzata Livia. E scambia per un tratto di guasconeria la confessione di un tradimento, fatta con la schiettezza propria dell’età men cauta. Montalbano è stato folgorato dalla bellezza, sensualmente sporca di vita, della giovane Angelica. Ha riconosciuto, nella donna, i tratti dell’eroina dell’Orlando furioso così come erano stati interpretati da Doré nelle illustrazioni del poema ariostesco. Di quell’Angelica di carta e inchiostro si era segretamente innamorato negli anni dell’adolescenza. E ora, incalzato dai versi dell’Ariosto, che spontanei gli tornano in mente, rivive il vecchio amore, e finalmente lo consuma. Anche la coscienza onirica collabora, con le sue illuminazioni notturne. Un misterioso personaggio, nascosto in un gomito d’ombra, confonde il commissario con una giostra di furti architettati geometricamente, secondo uno schema d’ordine di pedante e accanita astuzia. Non mancano stoccate varie e finte mosse, con morti e feriti in campo. Quale sia la posta in gioco è da scoprire. La vicenda è ingrovigliata e ha punte d’asprezza. E intanto Montalbano si vede in sogno, costretto in un’armatura di cavaliere, e buttato dentro un torneo. Deve affrontare un gigante, che ha il volto coperto da una celata nera. Assistono alla sfida dame e cavalieri. Dà il via Carlo Magno. Fuor di sogno, nel vivo delle indagini, irrompe, in questa «gara» similariostesca, la nuova Angelica. Porta addosso gli occhi di tutti. Montalbano è «furioso». Ma, nel molt’altro della storia, tra la bonaccionaggine di Catarella, le lazzaronate del medico legale Pasquano, e la feconda imbecillità dei superiori, veri e propri marescialli dei regolamenti, l’indisciplinato commissario non dismette l’amabile improntitudine. Si dà scena di teatro. Si fa commediante e guitto. Sale in palco. E improvvisa contraffazioni melodrammatiche, con risalite tonali e rimarcature di parole. Sa avvolgersi nel lessico scelto, e colmo di palpiti, di una affettata letteratura drammatica.
Salvatore Silvano Nigro


S'arrisbigliò subitaneo e si susì a mezzo con l'occhi prontamente aperti pirchì aviva di sicuro sintuto a qualichiduno che aviva appena appena finuto di parlari dintra alla sò càmmara di letto. E dato che era sulo ‘n casa, s'allarmò.
Po' gli vinni d'arridiri, pirchì s'arricordò che Livia era arrivata a Marinella la sira avanti, all'improviso, per farigli ‘na sorprisa, graditissima almeno al principio, e ora dormiva della bella allato di lui.
Dalla finestra passava un filo di luci ancora violaceo della primissima alba e allura riabbasciò le palpebri, senza manco taliare il ralogio, nella spranza di farisi ancora qualichi orata di sonno.
Ma subito appresso s'arritrovò novamenti con l'occhi sbarracati per un pinsero che gli era vinuto.
Se qualichiduno aviva parlato dintra alla sò càmmara, non potiva essiri stata che Livia. La quali dunqui l'aviva fatto nel sonno.
Prima non le era mai capitato, o forsi lei aviva in pricidenza qualichi volta parlato, ma accussì vascio da non arrisbigliarlo.
E capace che in quel momento continuava ad attrovarisi in una fasi spiciali del sonno nella quale avrebbi ancora ditto qualichi altra parola.
No, quella non era un'occasioni da perdiri.
Uno che si metti a parlari all'improviso nel sonno non può diri che cose vere, le virità che tiene dintra di lui, non s'arricordava d'aviri liggiuto che nel sogno si potivano diri farfantarie, o ‘na cosa per l'altra, pirchì uno mentri che dormi è privo di difisi, disarmato e ‘nnuccenti come a un picciliddro.
Sarebbi stato ‘mportanti assà non pirdirisi le paroli di Livia. ‘Mportanti per dù motivi. Uno di carattiri ginirali, in quanto un omo può campare per cent'anni allato a 'na fìmmina, dormirici 'nzemmula, farici figli, spartirici l'aria, cridiri d'avirla accanosciuta come meglio non si pò e alla fini farisi pirsuaso che quella fìmmina non ha mai saputo com'è fatta veramenti.
L'altro motivo era di carattiri particolari, momintanio.
Si susì dal letto quatelosamenti, annò a taliare fora attraverso la persiana. La jornata s'appresentava sirena, priva di nuvole e di vento.
Po' annò dalla parti di Livia, pigliò 'na seggia e s'assittò al capezzali, squasi fusse 'na veglia notturna di spitale.
La sira avanti Livia, e questo era il motivo particolari, gli aviva attaccato un catunio giganti per gilusia, guastannogli il piaceri che aviva provato per la sò vinuta.
Le cose erano annate accussì.
Aviva squillato il tilefono e lei era ghiuta ad arrispunniri.
Ma appena che aveva ditto pronto, ‘na voci fimminina all'altro capo aviva fatto:
«Mi scusi, mi sono sbagliata».
E la comunicazioni era stata chiusa 'mmidiato.
E allura Livia si era subito amminchiata che quella era 'na fìmmina che se l'intinniva con lui, che quella sira tiniva un appuntamento e che aviva abbasciato la cornetta sintenno che lei era 'n casa.
«Vi ho rotto le uova nel paniere, eh?».
«Quando non c'è il gatto i topi ballano!».
«Lontano dagli occhi, lontano dal cuore!».
Non c'era stato verso di persuadirla diversamenti, la sirata era finuta a schifìo pirchì Montalbano aviva reagito in malo modo, disgustato cchiù che dai sospetti di Livia, dall'inesauribili caterva di frasi fatte che quella tirava fora.
E ora Montalbano spirava che Livia diciva ‘na minchiata qualisisiasi che gli avrebbi dato la possibilità di pigliarisi 'na rivincita sullenne.
Gli vinni ’na gran gana di fumarisi ’na sicaretta, ma si tenne. In primisi, pirchì se Livia rapriva l’occhi e lo scopriva a fumari in càmmara di dormiri, sarebbi successo un quarantotto. In secunnisi pirchì si scantava che l’aduri del fumo potiva arrisbigliarla.
Passate un dù orate, tutto ’nzemmula gli vinni un crampo violento al polpaccio mancino.
Per farisillo spariri, accomenzò a dunduliari la gamma avanti e narrè e fu accussì che, col pedi nudo, detti inavvertitamenti un gran càvucio al bordo esterno di ligno del letto.
Provò un forti dolori, ma arriniscì a tinirisi dintra la valanga di santioni che stava per scappargli fora.
La botta al letto fici però effetto, pirchì Livia sospirò, si cataminò tanticchia e parlò.
Disse distintamenti, senza aviri la voci ’mpastata e facenno prima ’na speci di risateddra:
«No, Carlo, di dietro, no».
Per picca, Montalbano non cadì dalla seggia. Troppa grazia, santantò!
A lui sarebbiro abbastate una o dù paroli confuse, il minimo ‘ndispensabili per fargli flabbicare un castello d'accuse basate supra al nenti, alla gisuitica.
Ma Livia ‘nveci aviva ditto un'intera frasi chiara chiara, minchia!
Come se era perfettamenti vigliante.
E ‘na frasi che potiva fari pinsari a tutto, macari al pejo.
‘Ntanto, non gli aviva mai fatto parola di un tali acchiamato Carlo. Pirchì?
Se non gliene aviva mai parlato, ‘na ragioni seria doveva essirici.
E po' che potiva essiri ‘sta cosa che lei non voliva che Carlo le faciva di darrè?
E di conseguenza: di davanti sì e di darrè no?
Principiò a sudari friddo.
Fu tintato d'arrisbigliare a Livia scutennula forti e malamenti, taliarla con l'occhi sgriddrati e spiarle con voci 'mpiriosa da sbirro:
«Chi è Carlo? Il tuo amante?».
Ma quella sempri fìmmina era.
E dunque capace di nigari ogni cosa, macari ‘ntordonuta dal sonno. No, sarebbe stata ‘na mossa sbagliata.
La meglio era attrovare la forza d'aspittari e tirare fora il discurso al momento cchiù adatto.
Ma qual era il momento cchiù adatto?
E po' abbisognava aviri un certo tempo a disposizioni, pirchì sarebbi stato uno sbaglio affrontari la questioni in modo diretto, Livia si sarebbi 'nquartata a difisa, no, nicissitava pigliari l'argomento alla larga, senza farle nasciri sospetti.
Addecidì d'annarisi a fari la doccia.
Di tornari a corcarisi oramà non sinni parlava.

(L'incipit qui riportato è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 21.10.2010)


Si stava vivenno il primo cafè della matinata quanno il telefono sonò.
Si erano fatte le otto. Non s’attrovava nell’umori adatto per sintiri parlari d’ammazzatine. Avrebbi semmai lui ammazzato a qualichiduno, se gliene s’appresentava l’occasioni.
Preferibilmenti qualichiduno che di nomi faciva Carlo.
Ci aviva ’nzirtato, era Catarella.
«Ah dottori dottori! Chi fa, dormiva?».
«No, Catarè, vigliante ero. Che fu?».
«Ci fu che ci fu un frutto che ci fu».
«Un furto? E pirchì veni a scassare i cabasisi a mia, eh?».
«Dottori, addimanno compressioni e pirdonanza, ma...».
«Ma, ’na minchia! Né compressioni né pirdonanza! Telefona subito ad Augello!».
A momenti Catarella si mittiva a chiangiri.
«Quisto appunto ci volevasi diri, spianno scusanza tantissima, dottori. Che il suddetto dottori Augello da stamatino attrovasi allicinziato».
Montalbano stunò. Ma manco ’na cammarera si pò cchiù licinziari su due piedi!
«Licenziato? E da chi?».
«Dottori, ma fu vossia stisso di persona pirsonalmenti ad allicinziarlo aieri doppopranzo!».
Montalbano s’arricordò.
«Catarè, è andato in licenza, non è stato licenziato!».
«E io che dissi? Non dissi accussì?».
«Senti, puro Fazio è stato allicinziato?».
«Macari quisto ci volevasi diri. Siccome che al mircato c’è stata ’na sciarriatina, il suddetto attrovasi in loco».
Non c’erano santi, attoccava annare a lui.
«Vabbeni, il denunziante è lì?».
Catarella fici ’na brevi pausa prima di parlari.
«Lì indovi che sarebbi, dottori?».
«Ma in commissariato, dove vuoi che sia?».
«Dottori, ma io come fazzo a sapiri chi è chisto lì?».
«C’è o non c’è?».
«Cu?».
«Il denunziante».
Catarella sinni ristò muto.
«Pronto?».
Catarella non arrispunnì.
Montalbano pinsò che la linea era caduta.
E lo pigliò il grannissimo, cosmico, irragionevoli scanto che l’assugliava quanno una tilefonata s’interrompiva: quello d’essiri ristato l’unica persona viventi in tutto l’universo criato.
Si misi a fari voci come un pazzo.
«Pronto? Pronto?».
«Ccà sugno, dottori».
«Pirchì non parli?».
«Dottori, vossia non s’offenni se ci dico che io non saccio che è ’sto denunzianti?».
Calma e pacienza, Montalbà.
«Sarebbe quello che ha subito il furto, Catarè».
«Ah, quello! Ma non s’acchiama denunzianti, s’acchiama Piritone».
Cioè a diri grosso peto. Possibbili?
«Sicuro che si chiama Piritone?».
«La mano supra al foco, dottori. Piritone Carlo».
Gli vinni di mittirisi a fari vociate, dù Carli nella stissa matinata erano difficili da supportari.
Sintiva che tutti i Carli del munno in quel momento gli stavano ’ntipatici.
«Il signor Piritone è in commissariato?».
«Nonsi, dottori, tilefonò. Lui abita in via Cavurro tridici».
«Telefonagli che sto arrivando».
Livia non era stata arrisbigliata né dallo squillo del telefono né dalle sò vociate.
Nel sonno, aviva un leggero sorriso supra le labbra.
Forsi stava continuanno a ’nsognarisi a Carlo, la cretina.
L’assugliò ’na raggia ’ncontrollabili.
Pigliò ’na seggia, la isò in aria, la sbattì ’n terra.
Livia s’arrisbigliò di colpo, scantata.
«Che è stato?».
«Niente, scusa. Devo uscire. Torno per pranzo. Ciao».
Sinni niscì di cursa per non attaccari turilla.

Via Cavour faciva parti del quartieri indove che abitava la genti ricca di Vigàta.
Era stato progettato da un architetto che come minimo avrebbi miritato l’ergastolo. ’Na casa pariva un galioni spagnolo del tempo dei pirati, quella allato era stata chiaramenti ispirata al Pantheon…
Parcheggiò davanti al nummaro tridici, che assomigliava alla piramide di Micerino, scinnì, trasì, a mano manca c’era lo sgabuzzino di ligno e vitro del purtunaru.
«A che piano abita il signor Piritone?».
Il purtunaru, un cinquantino àvuto e stazzuto che chiaramenti praticava le palestri, posò il giornali che stava liggenno, si livò l’occhiali, si susì, raprì la porta dello sgabuzzino, niscì fora.
«Non c’è bisogno che si disturbi» fici Montalbano. «A me occorre solo...».
«A tia occorre uno che ti spacca la facci» fici il purtunaru, isanno il vrazzo dritto col pugno chiuso.
Montalbano strammò e fici un passo narrè.
Che gli pigliava a quello?
«Senta, aspetti, ci deve essere un equivoco. Io cerco il signor Piritone e sono...».
«Vattinni di prescia, senti a mia».
Montalbano pirditti la pacienza.
«Il commissario Montalbano sono, cazzo!».
L’altro s’imparpagliò.
«Davero?».
«Vuoi vedere il documento di riconoscimento?».
Il purtunaru si fici russo ’n facci.
«Maria, vero è! Ora lo staiu arriconoscenno! Mi scusasse, l’aviva pigliato per uno che voliva garrusiare! Mi scusasse ancora. Vidissi però che ccà non abita nisciun Piritone».
Naturalmenti, come a ’u solitu, Catarella gli aviva arrifirito un nomi sbagliato.
«E qualichiduno con un nomi somiglianti?».
«Ci sarebbi il dottor Peritore».
«Potrebbe essiri lui. A che piano?».
«Al secunno».
Il purtunaru l’accompagnò all’ascensori non finennola cchiù di scusarisi e fari inchini.
Montalbano pinsò che Catarella, a forza di dargli nomi di testa sò, un jorno o l’altro l’avrebbi fatto sparare da qualichiduno tanticchia nirbùso.

(Il brano qui riportato è stato pubblicato su Il Mattino del 21.10.2010)


Il quarantino aliganti, biunno, sicco, con l'occhiali, che gli vinni a rapriri al commissario non arrisultò 'ntipatico come aviva spirato.
«Buongiorno. Montalbano sono».
«S'accomodi, commissario, le faccio strada. Sono stato preavvertito del suo arrivo. Naturalmente l'appartamento è in disordine, mia moglie e io non abbiamo voluto toccare nulla».
«Vorrei dare un'occhiata».
Càmmara di letto, càmmara di mangiari, càmmara dell'ospiti, saloni, studdio, cucina e dù bagni tutti suttasupra.
Armuàr e armadietti con le ante aperte e la robba che c'era dintra ghittata 'n terra, 'na libreria completamenti svacantata e i libri alla sanfasò supra al pavimento, scrivanie e tangèr coi cascioni aperti.
Latri e poliziotti avivano questo 'n comuni quanno perquisivano un appartamento; un tirrimoto di certo avrebbi lassato le cose tanticchia cchiù in ordini.
'N cucina ci stava 'na picciotta trentina, macari lei biunna, graziosa e gentili.
«Mia moglie Caterina».

(Il brano qui riportato è stato pubblicato su La Provincia di Como del 21.10.2010)


«Le faccio un caffè?» spiò la signura.
«Perché no?» disse il commissario.
’N funno, la cucina era la càmmara meno sconquassata.
«Forse è meglio parlare qua» fici Montalbano assittannosi supra a ’na seggia.
Peritore l’imitò.
«Mi pare che la porta d’ingresso non è stata forzata» continuò il commissario. «Sono entrati dalle finestre?».
«No. Sono entrati con le nostre chiavi» disse Peritore.
Si ’nfilò ’na mano ’n sacchetta, tirò fora un mazzo di chiavi, lo posò supra al tavolino.
«Le hanno abbandonate nell’ingresso».
«Scusate, ma allora voi non eravate in casa quando è stato commesso il furto?».
«No. Proprio ieri sera siamo andati a dormire nella nostra casa al mare, a Punta Piccola».
«Ah. E come avete fatto a entrare qua se le chiavi le avevano i ladri?».
«Tengo sempre un mazzo di riserva dal portinaio».
«Scusate, non ho capito bene. Ma le chiavi per entrare qua i ladri dove le hanno prese?».
«Dalla nostra casa al mare».
«Mentre voi ci dormivate?».
«Esattamente».
«E lì non hanno rubato?».
«Certo che sì».
«Allora i furti sono stati due?».
«Esattamente».
«Mi perdoni, commissario» fici la signura Caterina sirvennogli il cafè. «Forse è meglio che le racconti io, mio marito non riesce a riordinare le idee. Dunque. Stamattina ci siamo svegliati alle sei con un po’ di mal di testa. E subito ci siamo resi conto che i ladri, forzando la porta della villetta al mare, ci avevano storditi con qualche gas e avevano fatto i comodi loro».
«Non avete sentito niente?».
«Assolutamente niente».
«Strano. Perché vede, prima di addormentarvi, hanno forzato la porta. Me l’ha appena detto lei. E qualche rumore...».
«Beh, noi eravamo...».
La signora arrussicò.
«Eravate?».
«Diciamo piuttosto brilli. Abbiamo festeggiato i cinque anni di matrimonio».
«Capisco».
«Insomma, non avremmo sentito le cannonate».
«Vada avanti».
«I ladri nella giacca di mio marito hanno trovato il portafogli con il documento d’identità e l’indirizzo della nostra abitazione, cioè questa, e le chiavi di qua e della macchina. Si sono messi comodamente in auto, sono venuti qua, hanno aperto, hanno rubato quello che c’era da rubare e addio».
«Cos’hanno portato via?».
«Beh, a parte la macchina, dalla casa al mare relativamente poco. Le nostre fedi, il Rolex di mio marito, il mio orologio coi brillanti, una collana mia di un certo valore, duemila euro in contanti, i nostri due computer, i cellulari, le carte di credito che però abbiamo bloccato».
Chiamalo poco.
«E una marina di Carrà» concludì la signora frisca frisca.
Montalbano satò supra alla seggia.
«Una marina di Carrà? E la tenevate così?».
«Beh, speravamo che non se ne capisse il valore».
E ’nveci l’avivano accapito, il valori.
«E qua?».
«Qua il bottino è stato più grosso. Intanto, il portagioielli con tutte le mie cose».
«Roba di valore?».
«All’incirca un milione e mezzo di euro».
«E poi?».
«Gli altri quattro Rolex di mio marito che ne fa collezione».
«E basta?».
«Cinquantamila euro. E...».
«E?».
«Un Guttuso, un Morandi, un Donghi, un Mafai e un Pirandello che mio suocero aveva lasciato in eredità a suo figlio» disse la signora tutto d’un sciato.
’Nzumma, ’na galleria d’arti d’enormi pregio.
«Una domanda» fici il commissario. «Chi lo sapeva che sareste andati a festeggiare l’anniversario del vostro matrimonio nella villa di Punta Piccola?».
Marito e mogliere si taliaro per un attimo.
«Beh, i nostri amici» arrispunnì la signora.
«E quanti sono questi amici?».
«Una quindicina».
«Avete una cameriera?».
«Sì».
«Pure lei lo sapeva?».
«Lei no».
«Siete assicurati contro i furti?».
«No».
«Sentite» disse Montalbano susennosi. «Dovete venire subito in commissariato a sporgere regolare denunzia. Vorrei la descrizione particolareggiata dei gioielli, dei Rolex e dei dipinti».
«Va bene».
«Vorrei anche l’elenco completo degli amici ch’erano informati con relativi indirizzi e numeri di telefono».
La signora fici ’na risateddra.
«Non sospetterà di loro, spero».
Montalbano la taliò.
«Lei pensa che s’offenderebbero?».
«Certamente».
«E lei non dica loro niente. Io vi precedo. Ci vediamo in commissariato».
E sinni niscì.

(Il brano qui riportato è stato pubblicato su Il Messaggero del 21.10.2010)


Il palazzo indove abitava la signora Cosulich era a forma di cono gilato.
Compresi i pezzetti di noccioline atturrate 'n cima.
«Cosulich?» spiò al purtunaru.
«Quali?»
Oddio, non avrebbi retto a un'altra azzuffatina con un purtunaru. Gli vinni gana di voltari le spalli e ghirisinni, ma si fici forza.
«Cosulich».
«L'accapii, non sugno surdo. Ma i Cosulich ccà sunno dù. Angelica e Tripolina».
Gli vinni gana di diri Tripolina sulo per accanosciri 'na fìmmina con un nomi accussì.
«Angelica».
«Urtimo piano».
L'ascensori era superveloci, praticamenti gli detti un pugno nella vucca dello stomaco e lo fici volari sino all'attico, a livello cioè della panna che di solito c'è 'n cima al cono gilato.
C'era 'na sula porta in tutto l'enormi pianerottolo a mezza luna, e a questa il commissario sonò.
«Chi è?» spiò doppo tanticchia 'na voci fimminina di picciotta da darrè la porta.
«Il commissario Montalbano sono».
La porta si raprì e al commissario capitarono di seguito i tri seguenti fenomeni:
primo, leggero annigliamento della vista, secunno, sostanziali ammollimento delle gammi e, terzo, notevoli ammanco di sciato.
Pirchì la signura Cosulich non sulo era 'na trentina di stupefacenti biddrizza naturali, acqua e saponi, 'na cosa rara che non adopirava pitturazioni facciali come i sarbaggi, ma…
Ma era vero o era tutto un travaglio della sò immaginazioni?
Era possibbili che potissi capitare un fatto accussì?
La signora Cosulich era pricisa 'ntifica, 'na stampa e 'na figura, con l'Angelica dell'Orlando furioso, accussì come lui se l'era immaginata e spasimata viva, di carni, a sidici anni, talianno ammucciuni le illustrazioni di Gustavo Doré che sò zia gli aviva proibito.
'Na cosa 'nconcepibili, un vero e propio miracolo.

Come alla Donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe, quantunque di lontano,
l'angelico sembiante, e quel bel volto
ch'all'amorosa rete il tenea involto.


Angelica, oh Angelica!
Sinni era 'nnamurato completamenti perso a prima vista e pirdiva bona parti delle nottati immaginannosi di fari con lei cosi accussì vastase che non avrebbi mai avuto il coraggio di confidari manco all'amico cchiù stritto.
Ah, quante volte aviva pinsato d'essiri lui Medoro, il pastori del quali Angelica si era 'nnamurata facenno nesciri pazzo furiuso al poviro Orlando!
Si rappresentava spasimanno e trimanno la scena di lei nuda supra alla paglia, dintra a 'na grutta, col foco addrumato, mentri fora chioviva e luntano si sentiva un coro di picorelle che facivano bee bee…

… e più d'un mese poi stero a diletto
i duo tranquilli amanti a ricrearsi.
Più lunge non vedea del giovinetto
la Donna, né di lui potea saziarsi;
né, per mai sempre pendergli dal collo,
il suo disir sentia di lui satollo.


«Si accomodi».
La leggera neglia che gli gravava supra all'occhi si diradò e Montalbano sulo allura vitti che lei 'ndossava 'na cammisetta bianca aderenti.

Le poppe ritondette parean latte,
che fuor de' giunchi allora allora tolli…


No, forsi le poppe di quei versi non appartinivano ad Angelica, ma comunque…

«Si accomodi» disse ancora la picciotta principianno a sorridiri per l'evidenti 'mparpagliamento del commissario.
Aviva un sorriso che era come 'na lampatina da cento che s'addrumava 'mprovisa nello scuro.
Ci volli un bello sforzo di volontà a Montalbano per passari dai sidici anni ai cinquantotto della sò trista età prisenti.
«Mi scusi, ero soprappensiero».
Trasì.
Già dall'anticàmmara s'accapiva lo sconquasso che i latri dovivano aviri cumminato in quell'appartamento.
Che era grannissimo, ammobiliato modernissimo, pariva d'attrovarisi dintra a un'astronavi, e che doviva essiri addotato d'una terrazza che non finiva mai. Circolari, naturalmenti.
«Senta» fici Angelica «l'unica stanza in qualche modo abitabile è la cucina. Le dispiace se ci mettiamo lì?»
«Con lei mi mittiria macari dintra a 'na cella frigorifera» pinsò Montalbano.
E 'nveci disse:
«Per niente». Lei 'ndossava un paro di pantaloni nìvuri aderentissimi come la cammisetta e vidirla caminare da darrè era 'na vera grazia di Dio.
'Na cosa a un tempo rinforzanti e illanguidenti.
Gli pruì 'na seggia.
«S'accomodi. Le faccio un caffè?»
«Sì, grazie. Ma prima vorrei un bicchiere d'acqua».
«Si sente bene, commissario?»
«Bee… benissimo».
L'acqua lo rinfrancò.
Preciso 'ntifico a com'era capitato coi Peritore. Sulo che ccà ammancava l'omo.
Anzi, pariva che non ci fussero tracce d'omo, nell'appartamento.
Gli sirvì il cafè, 'na tazza se la pigliò per lei e s'assittò davanti al commissario.
Se lo vippiro 'n silenzio.
A Montalbano annava benissimo, potivano ristarisinni a viviri cafè sino all'indomani a matino.
Anzi, meglio, fino a quanno al commissariato non l'avrebbiro dato per disperso.
Appresso lei disse:
«Se vuole fumare, faccia pure. Anzi, ne offra una anche a me».
Si susì, annò a pigliari un posacinniri, tornò ad assittarisi.
Tirò la prima vuccata e fici a mezza voci:
«In poche parole, si tratta di una copia conforme al furto subito dai miei amici Peritore».
Aviva 'na vuci che era un'armonia celesti, 'ncantava come 'u flautu 'ncanta i pitoni.
Abbisognava accomenzare a fari il mallitto travaglio, macari se non ne aviva nisciuna gana.
Si schiarì la voci, aviva la gola sicca a malgrado dell'acqua appena vivuta.
«Anche lei stanotte ha dormito in una sua casa fuori paese?».
Aviva capilli biunni lunghissimi che le arrivavano a mità schina.
Avanti d'arrispunniri, se li scostò dalla facci.
Per la prima volta, al commissario parse tanticchia 'mpacciata.
«Sì, ma...».
«Ma?».
«Non si tratta di una casa».
«Di un appartamento?».
«Nemmeno».

(Il brano qui riportato è stato pubblicato il 21.10.2010 su Bresciaoggi, L'Arena e Il Giornale di Vicenza)



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