Sirene. Le voci del mare
Con un'intervista ad Andrea Camilleri
Come si diventa scrittori? L'abbiamo chiesto ad
Andrea Camilleri nella lunga intervista che apre "Sirene", l'antologia
dei migliori racconti del 4º Concorso letterario di "Terre di mezzo". Lo
scafista con la gamba matta, l'ostinazione di una bambina di montagna che
affronta la piscina sognando il mare, una manciata di perle infilate in bocca al
pesce per pagare l'amore di un vecchio marinaio...
Venti storie impastate di salsedine, selezionate fra le oltre 250 pervenute
in redazione e sottoposte al severo giudizio degli editor Marco Cassini (Minimum
Fax), Gabriella D'Ina (Feltrinelli) e della scrittrice Simona Vinci. E
un personaggio intenso e dall'umore salino, cuore del racconto dello scrittore
Maurizio Maggiani, a impreziosire la raccolta.
Il
colore dell’acqua non cambia mai
Intervista
ad Andrea Camilleri
a
cura di Silvia Melloni
Sono
nato in un paese che si chiama Porto Empedocle ormai quasi 80 anni fa e fra casa
mia e il mare c'era solo una fila di case. La prima volta che mi è capitato di
spostarmi qualche giorno nell'interno della Sicilia, non riuscivo a prendere
sonno. All'alba mi resi conto che mi era mancato il rumore del mare.
Il
mare era dappertutto nella mia giovinezza. Sotto il fascismo, quando si andava
in giro con la divisa, io vestivo quella del marinaretto. Eravamo pochi e
facevamo macchia blu in mezzo al grigio-verde dei compagni avanguardisti.
D'altra
parte, nei miei sogni giovanili non c'era un futuro da regista o da scrittore.
Volevo diventare capitano di Marina.
L'intervista ad Andrea Camilleri inizia
così, provando a parlare di mare, che è il tema del concorso di Terre di
mezzo.
Eppure il mare e i marinai non sono mai
i veri protagonisti, nei suoi libri
È
vero, non sono un narratore di mare. Bisognerebbe esserci stati sul serio, per
poterne scrivere.
Una
volta però ho scritto un racconto su un uomo di mare. Si chiamava Capitan Caci
e diceva di aver doppiato Capo Horn ma non gli credeva nessuno. Però del mare
raccontava storie meravigliose e sono queste storie che io inventai. Almeno,
credevo di averle inventate... Perché accadde una cosa curiosa: una decina di
giorni dopo che Leonardo Sciascia aveva deciso di pubblicarlo in un'antologia di
inediti, uscì in libreria "Storia del porto di Bahia" di George Amado,
uno scrittore che ho amato molto. Lo comprai e mi accorsi con orrore che il
protagonista del libro era praticamente Capitan Caci, cioè uno che racconta di
avventure straordinarie ma che tutti considerano un ballista. Già questa
somiglianza era seccante, ma il peggio è che una di queste balle è esattamente
quella che mi ero inventato io.
Ora, né io avevo letto prima il libro
di Amado né lui ovviamente aveva letto il mio racconto. E si trattava di una
balla talmente metafisica e implausibile, che era per forza un'invenzione.
Allora come abbiamo fatto a pensarla in due?
Comunque all'epoca non avevo ancora
scritto di Montalbano e non ero conosciuto. Dissi a Leonardo: "Guarda, non
pubblicare il mio racconto perché non crederanno mai che non avessi letto Amado.
Lui è importante e io no, e tutti diranno che io ho copiato". Quando poi
sono diventato famoso, me ne sono fottuto e l'ho fatto pubblicare dal quotidiano
La Stampa. Ma per anni mi sono arrovellato su come fosse potuto succedere...
Mia moglie dice che le storie di mare
dei marinai sono tutte uguali e che probabilmente le abbiamo ascoltate e
riprodotte tutti e due.
Lei dice che è la realtà ad
alimentare la sua ispirazione, però dopo tanti anni che vive a Roma le sue
storie restano sempre ambientate in Sicilia...
In verità a Roma ho ambientato due
racconti, ma effettivamente si parla di siciliani che si trovano lì di
passaggio... Guardi, non vorrei parere letterario, che è cosa che detesto, però
un grande giornalista siciliano disse che i siciliani si dividono
in due tipi: i "siciliani di scoglio" e quelli "di mare
aperto". I primi non riescono a lasciare l'isola, gli altri sì, anche se
per loro
la Sicilia resta sempre un riferimento. Io sono un siciliano "di mare
aperto", ma c'è un cordone ombelicale che mi fa spesso diventare di
scoglio. C'è un fatto rituale, per noi siciliani, che è il passaggio dello
stretto. L'isola è circondata dal mare. Nel momento in cui passi lo stretto
abiuri la tua natura e te ne vai.
E’
un rito iniziatico. Il motivo per cui molti sono contrari al ponte non è che
rovina il paesaggio, è una contrarietà che ha le sue radici nella difesa di
un'insularità, di essere isolani.
Parlando invece di scrittura d'esordio,
la cosa che colpisce leggendo la
sua intervista con Sorgi ("La testa ci fa dire", Sellerio), è
l'apparente facilità con cui i giovani riuscivano a entrare in contatto coi
maestri di allora. Oggi è molto difficile, per chi inizia a scrivere, attirare
l' attenzione di uno scrittore noto. E’ solo
una percezione?
Non è una sua percezione. È una verità.
Negli anni '50 era impressionante la disponibilità all'incontro, anche
nei confronti di persone sconosciute. Ero giovane, ho telefonato a
Corrado Alvaro e mi ha ricevuto, ho chiamato Guttuso e mi
ha ricevuto. Sono diventato amico di Mafai. Ho ritrovato le lettere di
Goffredo Petrassi.
Cos'era? Credo fosse la voglia di
riconoscersi negli altri che avevamo
subito dopo la Liberazione, in quegli anni di rifondazione dell'Italia e della
cultura. Una minore diffidenza. La sensazione di essere tutti sulla stessa
barca.
C'era
il tempo, la sera, di uscire e andare al bar. Ora non c'è più per una serie di
problemi che vanno dal fatto che te ne stai in casa perché c'è un dibattito
interessante in tv, al fatto che non trovi il taxi, o il posteggio... Ma non è
solo questo, oggi noi viviamo come in uno stato perenne di difesa. È uno stato
passivo, non attivo di lavoro, creazione. Come stavano al G8, chiusi
dentro le loro gabbie di ferro.
Il
problema è che oggi il mondo preme contro queste gabbie di ferro. Si torna a
parlare, a conoscersi, a guardare insieme alcune cose.
Ma lei trova che oggi, nel mondo della
letteratura, si torni a guardare fuori dallo steccato?
Mah,
alcuni piccoli editori io trovo che inizino a pubblicare cose diverse.
Visto che abbiamo citato il G8,
nell'ultimo libro con Montalbano, "II giro di boa", c'è quel lungo
preambolo sui fatti di Genova... In genere si capisce che i suoi racconti sono
ambientati ai nostri giorni, ma non sono collocati in modo preciso nel tempo.
Mentre in questo caso la storia è chiaramente datata e i pensieri di Montalbano
vengono raccontati da fuori e non suggeriti dai suoi modi e dalle sue parole.
Molti
lettori si sono lamentati di quel preambolo, ma il personaggio Montalbano non è
fuori dal mondo. Un uomo come lui, con regole morali ferree, anche se non le
dichiara mai, non può restare indifferente al
fatto che uomini che fanno il suo mestiere si comportino come a Genova.
Quel che osservavo, però, è che quel
testo "
salta fuori " dal romanzo a cui appartiene, non è funzionale al
racconto.
Lei
ha perfettamente ragione. Il fatto è che mi ero scocciato. Molti lettori
fingevano di non capire quello che io avevo voluto politicamente dire prima, nei
romanzi precedenti. Uno scrittore ha dei doveri anche verso se stesso, anche
solo per dire: "Guardate che non mi state capendo bene, ragazzi".
Si sente che è una sua personale presa
di posizione, d' altra parte l'ha scritta addirittura in corsivo.
È vero. È anche vero che è l'unico
libro di Montalbano che abbia provocato una riunione del sindacato di polizia,
qui a Roma al Teatro Eliseo, dove venni gentilmente invitato. Ci fu uno
straordinario dibattito con loro su quello che avevo scritto e uno disse una
frase che mi ha colpito profondamente: "Noi crediamo che la democrazia una
volta conquistata tale sia, invece c'è bisogno di una sua manutenzione
quotidiana". L'ho trovata bellissima. C'era anche Sergio Cofferati, era il
suo ultimo giorno alla Cgil. Ho trovato bellissimo che
fosse stato un romanzo a ispirare questo incontro.
Cosa fa di un letterato un maestro?
Non si può parlare di maestri. C'è
una cattiveria di Arbasino che trovo azzeccatissima:
diceva che di un regista sotto i 40 anni si dice sempre "il giovane
promettente regista", quando ha fra i 40 e i 60 viene chiamato "il
solito coglione" e dopo “il venerando maestro”…
Però
ci sono persone che si incontrano e sono capaci di far crescere...
Guardi,
quando io insegnavo all' Accademia credo che la cosa importante non fosse
l'insegnamento della tecnica della lettura e recitazione di un testo, ma le
parole accanto. Visto che si avevano pochi allievi, nel tempo si entrava in un
rapporto di amicizia e intimità. Quello che loro ricordano, quando riparliamo
di quei tempi, è una mia capacità di dire cose che risolvevano alcuni loro
problemi interiori.
Scrivere, come diceva Marino Moretti,
non è necessario, ma saper vivere lo è, e saper vivere bene è necessarissimo.
Quindi io non so se sono uno che ha contato nella vita degli altri per quello
che ha scritto, ma mi piace pensare di esserlo stato per quello che ho detto su
come vivere.
Lei ha lavorato per tanti anni coi
giovani. ma ancora una volta non sono i protagonisti delle sue storie.
I
giovani non esistono. Esistono persone che attraversano una certa fase della
vita che viene chiamata giovinezza. Poi c'è un vecchio di 80 anni che a volte
è più giovane di uno di loro. Sono persone in uno stato di apprendimento e
apertura mentale ancora in grado di apprendere e cambiare.
E
poi, scusi, cosa ne sa lei che io non abbia preso un mio allievo e non lo abbia
reso, invecchiato, un personaggio?
Ma perché sente il bisogno di
invecchiarlo?
Perché i giovani sono in continuo
movimento. C'è sempre qualcosa che ti sfugge. È difficile farne dei
protagonisti, a meno che a scrivere non sia un giovane. Ma io ho iniziato tardi
a scrivere. Mi muoverei su un terreno sconosciuto.
Torniamo al tema degli esordienti.
Immagino che lei riceva molte richieste di confronto, suggerimenti...
Centinaia.
Cosa la scoraggia in un testo?
Le
tautologie. Quando avverti che una scrittura è piatta. Non c'è un guizzo,
un'increspatura d'onda, il sospetto che la realtà possa essere una cosa diversa
da quella che appare... La bonaccia, insomma.
E cosa la intriga, l'acchiappa?
L'originalità della scrittura, quando
una cosa banale viene resa meno banale dalla capacità della scrittura e poi,
quello che per me vale più di tutto, la capacità di narrare.
Spesso
nella scrittura degli esordienti si coglie una fatica di narrare. Vengono
scoperte subito le carte, o si corre alle conclusioni...
A
me ha aiutato molto il teatro, dove impari come procede un testo. Il teatro è
una grande scuola di scrittura. Perché lì hai il dialogo puro e ne devi tirare
fuori tutto il resto. A volte, ancora oggi prima scrivo i dialoghi e poi che
faccia hanno i personaggi.
Come costruisce un personaggio Andrea
Camilleri?
Beh, appunto, io vengo dalla tradizione
teatrale. Quando cominciavo a studiare un personaggio per metterlo in scena,
provavo a immaginare come parlasse, se zoppicava... A poco a poco gli davo una
tale quantità di motivazioni interne, tutte desunte dal suo modo di ragionare,
che il personaggio iniziava ad "alzarsi"
rispetto al testo, ad avere una sua tridimensionalità. A quel punto gli metti
addosso una giacca, una camicia e lui comincia a girarti per casa. Anche nella
scrittura lavoro tanto al personaggio finché avverto che è
tridimensionalizzato. Procedo dall'interno del personaggio verso l'esterno. Poi
tono principale, per me, è dato da come parla, dal ritmo del suo discorso.
Par di capire che per lei il rapporto
fra la vita reale, il saper vivere bene di cui parlava e la scrittura sia
fondamentale.
Ah
sì, guardi, a me la contemplazione delle increspature del mio ombelico proprio
non interessa nulla. Se mai preferisco contemplare l'ombelico di un'altra...
Non
so scrivere se non sento la vita. Vede qua sotto? Lo spazio sotto la mia
scrivania è l'ufficio di mia nipote, che ha sei anni. Io scrivo sopra e lei
sotto, dove tiene tutte le sue cose. Una volta mi sono detto: " Ma un vero
scrittore non vive nel silenzio?" e me ne sono andato in una casa in
campagna in Toscana. Sono stato tre giorni ad ascoltare il canto degli uccellini
senza riuscire a scrivere una riga. Poi ho telefonato a mia figlia, quella più
giovane, e le ho detto: "Senti, mandami i tuoi figli. Sono arrivati i miei
nipoti, dei casinisti terribili, e sono finalmente tornato a scrivere". Mia
moglie dice che più che uno scrittore sembro un inviato di guerra.
D'altra parte lei torna spesso sul
fatto che la realtà è come su due livelli, che le cose sembrano diverse da
quelle che sono. Per tornare al mare sembra un po' che, insieme al cibo, lei lo
utilizzi come elemento rivelatore della realtà emotiva e di quella delle cose.
Si ha sempre una doppia visione delle
cose se ti senti siciliano e scrivi di Sicilia mentre stai altrove. È come
stare contemporaneamente in due posti. Ed ecco che allora la realtà non è più
verità ma visione della realtà. Se perfino i fisici ci dicono che il fenomeno
in sé non è osservabile, perché cambia solo per il fatto che lo stai
osservando...
Il
mare sembra cambiare colore, ma il colore dell'acqua non cambia mai.
D’altra parte
il paese di Vigàta in cui abita Montalbano non esiste, però si attacca bene all'immaginario sulla
Sicilia.
È vero, si attacca bene
all'immaginario. D'altra parte non sono l'unico a descrivere minuziosamente un
posto immaginario. È un modo che alcuni scrittori hanno di organizzare, quasi
visivamente, una topografia della loro fantasia. È una mia necessità sapere
che il prossimo personaggio abiterà nel vicolo X, più o meno distante da un
altro personaggio o dal luogo dove si svolge un fatto. Però quando parlo di una
casa,
quella è reale. È solo il luogo in cui la colloco ad essere immaginario.
Lei prende appunti?
No, assolutamente.
Anzi, sto mentendo. Li prendo, ma solo quando devo scrivere qualcosa e non ne ho voglia. Allora,
appena mi balugina un'idea, me la segno. Ma solo in quel caso. Non si troveranno
mai i miei appunti né le prime stesure dei miei romanzi perché, come i
migliori assassini, non lascio
tracce.
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