Camilleri con questo romanzo rende omaggio alla donna, riconoscendole straordinarie doti di coraggio
e intelligenza. E sembra quasi suggerire l’importanza di un suo ruolo centrale nella politica dove
le eccezionali capacità possono tradursi in una concreta azione di cambiamento.
«Anche se solo per ventisette giorni, a partire dal 16 aprile 1677 la Sicilia vivrà l’esperienza
di essere governata da una donna, la Viceregina donna Eleonora de Moura, vedova del Viceré Aniello
de Gusman marchese di Castel Roderigo, il quale in punto di morte nomina suo successore la giovane
moglie».
Questa la notizia storica nella quale Camilleri si è imbattuto, appassionandosi alla figura di
donna Eleonora, che assolse al suo compito con eccezionali capacità e senso dello stato. Era una
donna intelligente e indipendente e dei giorni in cui rimase alla guida della Sicilia approfittò
per varare dei provvedimenti clamorosi: la riduzione del prezzo del pane, la creazione del
magistrato del commercio, l’alleggerimento delle tasse per chi aveva una famiglia numerosa.
Rivoluzionarie furono le misure a favore delle donne: rimise in piedi il conservatorio delle
vergini pericolanti e quello delle «repentite», ex prostitute che volevano cambiare vita, creando
anche una dote regia per le ragazze di famiglia povera che si sposavano. Un simile atteggiamento
non poteva che scontrarsi con gli interessi locali e con il potere della Chiesa che sentiva
minacciata la propria supremazia.
Ma il fatto storico è solo il punto di partenza per Camilleri che costruisce attorno alla
figura della Viceregina un romanzo pieno di suspense. Ci ritroviamo così immersi nel clima della
Palermo del 1676, città decimata dalla miseria e dalla carestia, teatro di feroci rivolte contro
la corona. «Questo regno non riconosce né Dio né la Vostra Maestà, - aveva scritto il Viceré
D’Ossuna al re di Spagna agli inizi del secolo - tutto si vende per denaro, comprese le vite e i
beni del povero, e persino la Giustizia».
Così tra intrighi di palazzo, tentativi di delegittimare la Viceregina, delitti che si consumano
nel parco della Favorita, passaggi segreti nel Palazzo Reale, tradimenti e corruzioni, si dipana il
romanzo. Sono soprattutto i potenti feudatari, il vescovo della città e il Tribunale del Santo
Uffizio a tramare, trovando alla fine un appiglio giuridico che segnerà la fine di quella brevissima
stagione e costringendo il re di Spagna a richiamare in patria donna Eleonora. Con il suo
allontanamento da Palermo, finisce quel momento rivoluzionario durato il tempo di un ciclo lunare.
Racconto veritiero di una storia solo in parte supposta, il romanzo cresce e concresce scortato dalla luna. Tutto era lecito allora, nel Seicento, a Palermo, fuorché ciò che era lecito. Dal ben sedere veniva il mal pensare. Vigeva una normale mostruosità di governo, ora fastosa ora miserrima. Lunghe erano le mani, corte le coscienze. Tra le pompe di un dovizioso apparato, con maggiordomi, paggi, maestri di casa e scacazzacarte, e in mezzo a uno strisciar di riverenze, di ludi e di motteggi, era tutto un rigirar di scale e porte: un far complotti, ordire attentati, muover coltelli e insanguinar le mani; violar le leggi, collezionar prebende, metter tangenti, dispensar favori e accudir parentele; abusare, predare e ladroneggiare, intorbidar le acque; industriarsi nel vizio, puttaneggiare e finger compassione e trepida carità per il sesso più giovane, e derelitto, mentre un’enfasi scenica e profanatoria provvedeva ai corrotti desideri con burlesques di tonache coi fessi aperti dietro e dinanzi. L’illegalità lavorava a pieno servizio. Era il predicato forte della politica del Sacro Regio Consiglio, e delle sue mosse proditorie, dapprima alle spalle di un Viceré che la malattia aveva reso tardo e lento, grave di carne tremolosa, dirupato e assopito sul suo carcassone; e poi contro la sua vedova, donna Eleonora di Mora, senza paragone diversa, lucidamente ferma e decisa nella difesa delle leggi e della giustizia sociale, da lui designata a sostituirlo in caso di morte improvvisa. Fu così che, nel 1677, la Sicilia ebbe un Viceré «anomalo». Un governatore donna.
Avvolta in una magnanima solitudine, confortata solo dal protomedico di corte con la sua casta corrispondenza di sentimenti pudichi, donna Eleonora era un bellissimo ritaglio di notte: neri aveva i capelli; nerissimi gli occhi, dai quali partivano bagliori neri, quasi lampi che balenando andavano. Dimostrava una freddezza, come di luna. E con il femminile pianeta condivise la durata della sua giusta «rivoluzione». La luna compie in quasi ventotto giorni il giro dello Zodiaco. E meno di un mese fu concesso alla Viceré per riparare alle indegnità di un governo, risollevare la condizione mortificata delle donne, calmierare il prezzo del pane, provvedere all’assistenza di chi pativa, riconoscere benefici alle famiglie numerose, riformare le maestranze. Ci volle una donna, per tanta normalità di governo. Contro di lei a nulla valsero le baroccherie di repertorio: l’accusa di complicità con il demonio, i procurati rigurgiti di un melodrammatico inferno di fantasmi in camicia da notte, le orde salmodianti dei fanatici aizzati dal vescovo.
Tra realtà storica e felice invenzione, il romanzo di Camilleri è ad alto tasso di allegrezza e di severo umorismo civile. Ed è anche un omaggio alla regalità della donna.
Salvatore Silvano Nigro
Capitolo terzo Donna Eleonora diventa Viceré e conquista tutti con qualche eccezione
Il sigritario si susì, annò a pigliare la busta, la considerò con attenzioni e dissi:
«Fettivamenti ccà supra c’è scritto “da consegnare e da fare leggere subito al Sacro Regio Consiglio in caso di mia morte improvvisa”. Ci stanno macari il sigillo e la firma di don Angel. Che fazzo, lo rumpo il sigillo?».
«Certamenti» dissi il Gran Capitano.
Il sigritario ruppi il sigillo, raprì la busta, ne cavò un foglio, lo isò ’n aria ammostrannolo a tutti.
«È scritto dalla mano del Viciré» dissi.
«Avanti, avanti» fici ’mpazienti il viscovo.
Finalmenti il protonotaro si misi a leggiri.
Qui esprimo il mio volere ultimo, che rendo a Voi manifesto in pieno e chiaro senno e nell’esercizio dei poteri alla persona mia conferiti per grazia di Dio e di Sua Maestà il Re Carlo III di Spagna. In caso di mia morte improvvisa, la diletta mia sposa donna Eleonora di Mora,marchesa di Castel de Roderigo, dovrà accedere a pieno titolo alla carica di Viceré di Sicilia, con tutti gli onori e gli oneri, i doveri e i diritti a tal carica annessi, in attesa che la Sacra Persona di Sua Maestà Carlo III consenta a questo mio volere o in caso contrario invii altra persona da Lui scelta. Pertanto non vige la norma consueta che in assenza del Viceré sia il Gran Capitano di Giustizia ad assumerne la carica provvisoria. Questo è il mio volere e desidero che sia accolto e rispettato da tutti senza por tempo di mezzo.
Firmato: Il Viceré, don Angel de Guzmán, marchese di Castel de Roderigo
Il silenzio fu tali che si sintì persino ’na musca che volava vicino alla testa del protonotaro.
«Minchia!» fu la prima parola che lo ruppi.
Era stato il viscovo a dirla.
E subito appresso fu tutto un murmuriare, un parlottiare, un gesticoliare, un agitarisi con qualichi risateddra addivirtuta sparsa ccà e ddrà e subito assufficata.
Il principi di Ficarazzi si scotì dalla gran botta che l’aviva ’nzallanuto, storduto e mezzo assintomato, arriniscì faticosamenti a mittirisi addritta supra al troniceddro squasi per soprastari ancora chiossà a tutti l’autri e gridò:
«’Sto tistamento non ha nisciun valori!».
«E pirchì?» fici il viscovo. «È scritto di pugno dal Viciré e c’è macari tanto di sigillo!».
«Pirchì… pirchì...» fici il Gran Capitano che stava circanno alla dispirata ’na raggiuni qualisisiasi alle paroli che aviva ditto. Ma non cinni viniva una che fusse una ’n menti.
«Sintemo il pareri del protonotaro che la liggi l’accanosce bona» suggerì don Cono Giallombardo.
«Sintemolo! Sintemolo!» ficiro l’autri Consiglieri ’n coro e pigliannosi un potiri decisionali che non avivano.
Don Gerlando Musumarra si susì. A malgrado della scarsa luci, si vidiva che era pallito e prioccupato.
«C’è picca da diri. La liggi parla chiaro e non ammetti dubbio. Il voliri del Viciré è supremo e inoppugnabili sia che sia stato espresso a voci ’n prisenza di testimoni sia che sia stato scrivuto. Come in questo caso. E va applicato macari se tutto il Consiglio è contrario».
«Ma è il voliri di un morto!» vociò il Gran Capitano.
«A parti che per questo avrebbi maggior valori, ’sto voliri don Angel l’addichiarò, scrivennolo, quann’era ancora vivo» replicò friddo il protonotaro.
Il Gran Capitano, a malgrado che avvertiva a pelli che tutto il Consiglio gli era contro, non volli mollare l’osso.
«Ma la norma non può essiri cangiata dal Viciré, abbisogna che a farlo sia il Re stisso!».
«E ’nfatti la norma non è stata cangiata» replicò il protonotaro. «Tant’è vero che le dilibire fatte oggi sono state firmate da voi, signor principi, post
mortem del Viciré. Quindi, doppo morto, il Viciré ha continuato, attraverso di voi, a manifistari il sò voliri. Se mittemo ’n discussioni il tistamento, dovemo di necessità mettiri ’n discussioni macari tutte le dilibire fatte stamatina dal Consiglio pirchì non portano la firma di don Angel».
Era un colpo vascio tirato dal protonotaro. Lassava accapire che se il tistamento viniva arrefutato, allura puro tutte le malifatte, i favori, i soprusi, l’anghirie che i Consiglieri avivano cangiato ’n liggi facenno finta che il Viciré era sulamenti sbinuto e no morto, arrischiavano di non arrivari a signo.
Per un momento, il principi di Ficarazzi sinni ristò muto. E il viscovo sinni approfittò.
«Pirchì non mittemo ai voti l’approvazioni del tistamento? » spiò facenno ’na facci di ’nnuccenti angiluzzo.
I Consiglieri pigliaro come la menta.
«Ai voti! Ai voti!» ficiro ’n coro.
Il Gran Capitano accapì d’aviri pirduto la partita. Tornò ad assittarisi supra al troniceddro.
«Fate come voliti».
«Chi riteni valido il tistamento isasse il vrazzo» dissi il protonotaro.
Cinco vrazza si isaro ’n aria. Il tistamento di don Angel era stato approvato.
Tutti allura si votaro a taliare a donna Eleonora che sinni era sempri ristata ferma e muta ’n mezzo al saloni.
«Fatemi posto» dissi lei arrivolta al principi, senza che nella sò voci ci fusse la minima ’mperiosità.
Ma il principi si scantò propio per quell’assenza di cumanno. La friddizza di quella fìmmina gli faciva aggilare il sangue. Calò la testa, scinnì dal troniceddro e sinni tornò al sò posto di Gran Capitano.
Donna Eleonora traversò il saloni sutta all’occhi affatati dei prisenti, si firmò davanti al trono vacanti del Re, calò la testa, si spostò, acchianò con grazia i tri scaluna, s’assittò supra al troniceddro, s’aggiustò il vistito e po’ a lento si livò il velo nìvuro scummigliannosi la facci.
A tutti di colpo ammancò il sciato.
Fu come se nella scurìa del saloni fusse comparso tutto ’nzemmula un punto di luci cchiù luminoso del soli che abbagliava accussì forti da fari lacrimiare l’occhi.
«Dáteme el signo de vuestra obediencia».
E macari stavota nisciun tono di cumanno, era ’na semprici, aducata, gentili richiesta di ’na fìmmina di granni nobirtà.
I Consiglieri, stracatafuttennosinni della gerarchia, scattaro tutti e sei addritta, compriso il Gran Capitano macari lui affatato, e correro squasi fusse ’na gara verso il troniceddro ammuttannosi e travaglianno di gomito, s’attrupparo ai pedi dei tri scaluna, s’agginocchiaro, portaro la mano dritta al cori, calaro la testa.
’N quel priciso momento a don Cono Giallombardo scappò di murmuriari:
«Beddra!».
«Beddra!» ficiro l’autri cinco Consiglieri.
«Beddra beddra!».
«Beddra beddra!» arripitero l’autri.
«Fìmmina di Paradiso!» fici don Cono.
«Fìmmina di Paradiso!» litaniaro l’autri.
Donna Eleonora ’nterruppi l’adorazioni.
«Tornate al vuestro posto».
S’allontanaro amalincori, con la testa votata verso di lei, come a chi devi lassare ’na fonti d’acqua avenno ancora siti.
Donna Eleonora parlò.
«Confirmo che no habrá ningun entierro de solemnidad y ninguna visita de condolencias. Il Sacro Regio Consiglio se reunirá pasado mañana a la misma hora de hoy. La sesión ha terminado».
«La storia di una donna bellissima che si trova ad avere in mano un enorme potere e, nonostante sia avversata da uomini che si sentono scalzati sia dalla sua bellezza che dalle sue capacità, riesce a portare a termine la sua missione, a compiere la sua vendetta e a non sacrificare alcun innocente. Donna Eleonora è più decisa del Conte di Montecristo, più comprensiva di Fra’ Cristoforo, più conturbante di Esmeralda, più abile di Ulisse e, soprattutto, parla ancora meno del Conte Mosca. La rivoluzione della luna sintetizza tutta la letteratura di Camilleri e dunque tutta la letteratura».
Chiara Valerio
Correva l’anno 1677 quando a Palermo il viceré don Angel de Guzmán muore improvvisamente. Al dolore dei consiglieri del Regno subentra lo sgomento perché nel testamento don Angel ha disposto che sia sua moglie ad assumere le funzioni di viceré, in attesa delle decisioni del Re di Spagna. Donna Eleonora di Mora si ritrova così, a dispetto di ogni legge e consuetudine, a governare una Sicilia piagata da epidemie, carestia, povertà, e contro ogni previsione riesce a riparare alle indegnità del Sacro Regio Consiglio e a risollevare le condizioni in cui versa il popolo. Rivoluzionari sono soprattutto i provvedimenti a favore delle donne, dall’istituzione del «conservatorio per le vergini pe-ricolanti», per garantire alle orfane un sussidio e impedire loro di darsi alla prostituzione, alla decisione di assegnare una dote regia alle ragazze più bisognose che vogliono sposarsi, ai benefici per le famiglie numerose. Tutto nella durata di un ciclo lunare. Coraggiosa, determinata, donna Eleonora, sostiene l’Autore, è «una figura di donna gigantesca, unica a governare in un mondo maschile; un meraviglioso esempio del potere responsabile verso i terzi, nello scontro eterno tra chi detiene il potere per sé e il potere per gli altri». Tra le pagine di storia Andrea Camilleri trova le tracce di questa rivoluzione e vi costruisce un romanzo pieno di invenzione e di pathos.
Quando Donna Eleonora s’affacciò, Camilleri e il romanzo in una riga «V’arricordo che aviti fatto atto di bidienza». «E che ci trase? La bidienza è ’na cosa, aviri pariri diverso è ’n’autra».
La rivoluzione della luna, romanzo scritto da Andrea Camilleri nel 2013, racconta la storia di una donna bellissima che si trova ad avere in mano un enorme potere e, nonostante sia avversata da uomini che si sentono scalzati sia dalla sua bellezza che dalle sue capacità, riesce a portare a termine la sua missione, a compiere la sua vendetta e a non sacrificare alcun innocente.
Siamo nel mese di settembre del 1677, a Palermo ci sono disordini, manca il cibo e il lavoro, la corruzione dilaga e il Sant’Uffizio è triste perché non si riesce più a bruciare nessuno in pubblica piazza. «Ed erano ancora tutte prisenti, e forsi aumentate, ’ste conseguenzie, al momento della morti di don Angel. E quindi, se non era stato capace d’arrisolvirle un omo, di certo non ’nni sarebbi stata capaci ’na fìmmina. La quali, è cosa cognita, vali meno assà di un omo. E certe vote, meno ancora d’una bona vestia».
Il romanzo è straordinario per almeno tre motivi. Il primo è, appunto, la sua protagonista, Eleonora di Mora, marchesa di Castel de Roderigo e moglie di don Angel de Guzmán, viceré di Spagna in Sicilia che muore improvvisamente. A lui succede il cardinale Luis Fernando de Portocarrero, ma non subito. Prima, per ventisette giorni, Eleonora di Mora, per volontà del marito, assume la carica di viceré e governa la Sicilia, prima e unica donna in tutta la lunga travagliata, appassionante e spesso rissosa storia dei viceré. Donna Eleonora è più decisa del Conte di Montecristo, più comprensiva di Fra’ Cristoforo, più conturbante di Esmeralda, più abile di Ulisse e, soprattutto, parla ancora meno del Conte Mosca.
Il secondo motivo è il romanzo in sé, che dice, meglio di qualsiasi saggio di critica letteraria, come funziona l’immaginazione romanzesca. Andrea Camilleri sta leggendo una cronologia e una storia dei viceré di Spagna in Sicilia e incontra il nome di donna Eleonora, ne rimane affascinato e, nonostante le poche e sparute notizie, decide di scrivere un romanzo. Solo una riga e niente altro. D’altronde, esiste strumento più efficace del romanzo per indagare l’animo umano, e la storia degli uomini? No. Per questo, categorie merceologiche a parte, i romanzi sono tutti gialli (non tutti i gialli sono romanzi, va detto), solo che certe volte non ci sono colpevoli (solo la vita).
Leggendo La rivoluzione della luna, ci si convince immediatamente, appena don Angel muore sul trono durante una seduta del Regio Consiglio, che le cose siano andate esattamente così, l’avventura di donna Eleonora, nonostante gli storici non siano arrivati a scriverla, è andata come Camilleri l’ha immaginata. Il tempo, si sa, romanzifica – inventiamo un verbo – e dunque, a distanza di quasi quattrocento anni dalla reggenza di donna Eleonora, l’invenzione di Camilleri è storia. La riga col nome di donna Eleonora nella cronologia dei viceré che sboccia in romanzo è un grande classico degli scrittori che sono grandi lettori e la cui opera narrativa è comparabile con l’opera critica – espressa attraverso diversi media, anche a cena con amici.
Succede a Virginia Woolf nel 1931 mentre legge il carteggio tra Elizabeth Barrett e Robert Browning e si diverte con Flush, il cocker spaniel della poetessa. Woolf si sta divertendo ma è anche impegnata a sedurre, come può – tutti facciamo come possiamo, grandi scrittori e no –, Vita Sackville-West, e a distrarsi da un romanzo sul quale lavora,
Le onde. Il 16 settembre del 1931, Woolf scrive a VSW di mandarle una foto di Henry, il cocker spaniel di Harold Nicolson, il marito: «hai una fotografia di Henry? Lo chiedo per una ragione speciale, connessa a una scappatella tramite la quale spero di arginare la rovina che subiremo col fallimento de
Le onde». Nel 1933, Flush è stato pubblicato e ha avuto un enorme successo, Woolf scrive a Lady Ottoline Morrell: «La figura del loro cane mi ha fatto ridere tanto che non ho potuto resistere a fargli una vita». La figura di Eleonora di Mora deve aver impressionato tanto Andrea Camilleri che ha deciso di farle una vita.
Il terzo motivo è che La rivoluzione della luna sintetizza tutta la letteratura di Camilleri – non ho letto tutto, solo la maggior parte, questo romanzo, per esempio, non lo avevo letto – e dunque tutta la letteratura. A un certo punto, donna Eleonora parla con don Serafino, il protomedico, suo unico amico, come tutti innamorato di lei, attonito e percosso di fronte alla bellezza della marchesa viceré, e sta per confessarle che è innamorato, innamorato pazzo, forse potrebbe dirle che da quando l’ha incontrata, anche se a bassa voce, canta tornando a casa, ma donna Eleonora gli fa segno di no, di non dire niente. Non commetta l’errore di parlare, dice donna Eleonora guardandolo con occhi neri come fiamme scure – se esistessero. Donna Eleonora incarna la letteratura che non commette mai l’errore di parlare, infatti non dichiara né amore né niente, ma racconta, sta, sente gli odori, sputa, respira, ripete le frasi, allunga le mani, bacia, fa l’amore, sistema le sedie, misura metri di stoffa. Donna Eleonora è irresistibile per tutti coloro che la vedono, dal vescovo Turro Mendoza che vuole farla fuori, alle vergini pericolanti, alle Maddalene pentite, alle maestranze, agli inquisitori, ai siciliani.
Ed è irresistibile per chi legge perché donna Eleonora incarna la differenza tra il potere che serve solo se stesso e il potere a servizio di una comunità. Donna Eleonora abbassa il prezzo del pane, istituisce la figura del magistrato del commercio affinché riunisca le maestranze palermitane, ripristina il Conservatorio per le vergini pericolanti e quello per le prostitute che non possono più esercitare per sopraggiunti limiti di età, riduce il numero dei figli per ottenere i benefici concessi ai padri onusti (famiglie numerose), opera per debellare la corruzione, stabilisce la Dote Regia, fonda il Conservatorio delle Maddalene pentite. Donna Eleonora fa la rivoluzione in un solo ciclo lunare. «Il silenzio fu tali che si sintì persino ’na musca che volava vicino alla testa del protonotaro. “Minchia!” fu la prima parola che lo ruppi. Era stato il viscovo a dirla».
Il romanzo, per struttura, ammicca ai feuilleton, ai romanzi storici, i capitoli sono numerati e ciascun titolo di capitolo riassume o chiosa ciò che contiene. Ammicca perché invece il romanzo è veloce come un apologo. Ammicca perché l’intenzione è picaresca. «La filama era che la malatia aviva fatto ’ngrassari ’n modo lifantiaco tutte le parti del corpo di don Angel meno una, propio quella che addistinguì l’omo dalla fìmmina e che era addivintata, date le nove proporzioni del resto, squasi ’ntrovabili, ’na spingula in un pagliaro».
In occasione dell’uscita del romanzo, Andrea Camilleri rilascia un’intervista video al Corriere della Sera nella quale racconta ciò che si può leggere anche nella nota, e cioè l’incontro con Eleonora di Mora, e suggerisce che il romanzo fornisca una risposta a tutti coloro che criticano il modo in cui mette in scena i personaggi femminili, pieni di debolezze e difetti. Stessa eccezione che, nel necrologio sul New York Times, è stata posta a Kundera. Certo, le donne di Kundera e le donne di Camilleri non sono eccezionali – tranne donna Eleonora – ma non lo sono manco gli uomini, e questo perché sono romanzieri, grandi romanzieri, e dunque si occupano della vita che sta loro intorno senza giudicarla, senza sollevarla, senza annichilirla, la osservano con acume, leggerezza e attenzione, e con acume, leggerezza e attenzione la lasciano sulla pagina, la vita che sta intorno a loro è la vita che sta intorno a noi e, grazie al cielo, così possiamo godercela, cioè dimenticarcela, di eccezionale ha poco. Godiamoci il ridicolo, la mancanza di coraggio, l’essere qualsiasi, la coscienza di tutto questo e la meraviglia che, nonostante questo, le vite, pure le nostre, meritano un racconto. Non c’è bisogno che dica che Camilleri è uno dei più grandi scrittori che il Novecento abbia visto, lo sapeva da solo, non doveva dirlo, e non doveva dirselo, era così e basta, spavaldo e tenero col suo dialetto sonoro che oltre al senso porta il sentimento, e oltre al suono porta l’odore, e oltre al ritmo porta l’assenza. L’assenza della giustizia nella vita di tutti che talvolta, per un caso, un inciampo, per una donna che diventa viceré di Sicilia, si fa invece presenza e di questa presenza – perché così è nelle cose umane, in quel gigantesco sud malversato che sono le cose umane – non rimane che una riga. Però quella riga c’è e scrivere, se serve a qualcosa, serve a colmare la memoria, a produrla quando non c’è materiale con cui colmarla e dopo averlo fatto dire a tutti andate, la strada è di nuovo percorribile, la buca è coperta. A questo serve scrivere, se serve.
«V’arricordo che aviti fatto atto di bidienza». «E che ci trase? La bidienza è ’na cosa, aviri pariri diverso è ’n’autra». Ubbidire e essere d’accordo non sono sinonimi. Tuttavia, donna Eleonora più decisa del Conte di Montecristo, più comprensiva di Fra’ Cristoforo, più conturbante di Esmeralda, più abile di Ulisse e, soprattutto, più silenziosa del Conte Mosca, perché tutto si compia come immagina e come vuole, ha bisogno di un amico. Don Serafino. Forse un bell’uomo, di certo gentile, capace nella vita professionale (è il protomedico del palazzo del Viceré), meno dal punto di vista sentimentale (vive con la madre e la sorella).
O forse, come mi risponde il mio amico Stefano Pisani, ex matematico e co-fondatore di «Lercio»: «Attenzione, è mia madre che vive con me»). Fatto sta che, quando don Angel muore, donna Eleonora manda a chiamare don Serafino, non si fida di ciò che le hanno detto sulla morte del marito. Come tutti a Palermo, don Serafino non ha mai visto donna Eleonora e, come tutti, appena la vede, rimane senza fiato. Rimane senza fiato e si innamora. Donna Eleonora sa di avere a disposizione tutta la vita per l’amore – forse l’ha già avuta a disposizione, quella di don Angel – ma un’ora sola per il coraggio. Le forze che si addensano intorno alla sua reggenza sono oscure e corrotte ma benedette e protette da Santa Madre Chiesa e, talvolta, dalla sua Inquisizione. Donna Eleonora si accorge di aver bisogno di don Serafino, ma sa che non può corrispondergli, lui d’altronde vuole esserle amico ma spera pure di diventare altro, così i due, consci dei sentimenti e delle aspettative dell’altro, cenano spesso insieme, si confidano, si guardano, operano perché donna Eleonora abbia ciò che vuole, e con lei i palermitani.
C’è sempre una certa malinconia nelle persone che pur avendo a disposizione il corpo, lo trattengono. Donna Eleonora e don Serafino hanno a disposizione i loro corpi ma intuiscono di essere capitati da due parti diverse della Storia ed è più facile fare la rivoluzione a Palermo che condividere un letto. Certe volte capita così. E accettare l’esistente è ciò che consente di vivere l’avventura. Non ho capito se donna Eleonora è innamorata di don Serafino e non posso capirlo fino in fondo perché non so cosa desiderare per loro, oltre il romanzo di Camilleri. Riusciranno ad avere una vita sessuale, altrove e senza la carica di viceré, come Elisabetta I e Leicester, al secolo, Sir Robert Dudley? Il resto ce l’hanno, sono complici, possono stare da soli senza che nessuno li guardi, parlare o tacere insieme senza imbarazzo, ridono, si capiscono, si fidano. Elisabetta I e Leicester, da un certo punto in poi, non più. Quindi, chi lo sa cosa è meglio.
Chiara Valerio (antizipazione da Domani, 9 febbraio 2025)