Da Stilos del 21.6.2005 riportiamo le
anticipazioni sull'ultimo romanzo del commissario Montalbano.
Il testo
Sarà “Riccardino” il prossimo
titolo
Poteva venire solo a Camilleri l’idea di prendere atto della realtà qual è:
di un Montalbano creatura di carta e di un altro Montalbano creatura
mediatica, entrambi speculari e coevi. Nella realtà è proprio così:
abbiamo un commissario con le fattezze e i modi di Zingaretti e un Montalbano
con le fattezze che il suo autore ha immaginato, più simile alla figura di
Montalbán che non a quella di un attore televisivo. Così, il prossimo romanzo
della serie del famoso poliziotto avrà anche questo tema a rovello, espresso
proprio all’inizio del libro di cui pubblichiamo il primo capitolo ancora in fieri. Camilleri ci sta lavorando, dicendolo “futurissimo”,
e pensa già di intitolarlo “Riccardino”, dal nomignolo della vittima di cui
si ha conto nelle prime pagine. Un titolo che, come dice Camilleri a Stilos, è
del tutto fuori dal suo calco.
L’Autore
Il narratore parla come i personaggi
Andrea Camilleri deve il successo dei suoi libri perlopiù alla novità
prorompente introdotta dal suo stile. Uno stile che con l’uso del dialetto
agrigentino non segna la rottura di uno statuto linguistico ma il portato più
fresco delle istanze postmoderne: di una lingua masscult che si afferma non
perché siciliana ma perché popolare. La novità più schietta è nel
rivolgimento che Camilleri compie nella scrittura narrativa, fino ad oggi
architettata in modo che la diegesi non si mischiasse con la mimesi: il
narratore ha la sua lingua e i suoi personaggi ne hanno una loro distinta. E se
è successo che i personaggi abbiano finito per parlare la lingua dell’autore,
con Camilleri è avvenuto il contrario: è il narratore che parla la lingua dei
personaggi sicché la diegesi si piega alle ragioni della mimesi. Una
rivoluzione.
Il dottore Montalbano 1 e 2 quello
vero e quello della tivù
Il telefono sonò che era appena arrinisciuto a pigliari sonno, o almeno
accussì gli parse, doppo ore e ore passate ad arramazzarisi a vacante dintra al
letto. Le aveva spirimintate tutte, dalla conta delle pecore alla conta senza
pecore, dal tentare d’arricordarsi come faciva il primo canto dell’Iliade
a quello che Cicerone aveva scrivuto al comincio della Catilinaria,
nenti non c’era stato verso. Doppo il Quosque
tandem, Catilina, nebbia fitta. Era una botta d’insonnia senza rimeddio,
pirchì non scascionata da un eccesso di mangiatina o da un assuglio di mali
pinseri. Addrumò la luci, taliò il ralogio; non erano ancora le cinco del
matino. Di certo lo chiamavano dal commissariato, doviva essiri capitata
qualichi cosa di grosso. Si susì senza nisciuna prescia per andare ad
arrispunniri. Aviva
una presa telefonica macari allato al comodino, ma non aviva mai voluto
adoperarla pirchì si era fatto pirsuaso che quella piccola caminata da
una cammara all’altra, in caso di chiamata notturna, gli dava la possibilità
di livarisi le filinie del sonno che si ostinavano a restargli attaccate
nel ciriveddro.
“Pronto?”
Gli era nisciuta una voci non solo arragatata, ma che pariva macari ‘mpastata
con la colla.
“Riccardino sono!” fece una voci che, al contrario della sò, era squillanti
e festevoli.
La cosa l’irritò. Come minchia si fa ad essiri squillanti e festevoli alle
cinco del matino? E inoltre c’era un dettaglio non trascurabile: non
acconosceva nisciun Riccardino.
Raprì la vucca per mannarlo a pigliarisilla in quel posto, ma Riccardino non
gliene desi tempo.
“Ma come? Te lo scordasti l’appuntamento? Siamo già tutti qua, davanti al
bar Aurora, ci manchi solo tu! È tanticchia nuvolo, ma cchiù tardo sarà una
jornata bellissima!”
“Aspettatemi. Tra deci minuti, un quarto d’ora al massimo, arrivo” mentì
Montalbano.
E riattaccò, tornando a corcarsi. D’accordo, aviva fatto una carognata,
avrebbe dovuto chiarire a Riccardino che non era lui la pirsona che aspittavano,
invece accussì quelli davanti al bar Aurora avrebbero perso mezza matinata
senza vidiri cumpariri l’amico che mancava. D’altra parte, siamo giusti, uno
non può alle cinco del matino sbagliare nummaro, arrisbigliare a uno straneo
che non ci trase e cavarsela senza
pagari pigno. Il sonno era oramà irrimediabilmente perso. Meno mali che
Riccardino gli aviva ditto che la jornata sarebbe stata bona. Si sentì
racconsolato.
La secunna telefonata arrivò che erano passate di picca le sei.
“Dottori, dimando compressione e pirdonanza. Che feci, l’arrisbigliai?”
“No, Catarè, vigilante ero”.
“Sicuro sicuro dottori? O me lo sta dicenno per complimento?”
“No, Catarè, non avere rimorsi. Dimmi”.
“Dottori, ora ora Fazio chiamò pirchì disse che a lui l’avivano
chiamato”.
“E tu perché chiami me?”
“Pirchì Fazio mi disse di chiamarlo”.
“A me?”
“Nonsi dottori, a Fazio”.
Di questo passo, non sarebbe mai arrinisciuto a capiricci nenti. Riattaccò e
chiamò Fazio sul cellulare.
“Che c’è?”
“Mi dispiace disturbarla, dottore, ma hanno sparato a uno”.
“L’hanno ammazzato?”
“Sissi, dottore. Due colpi in faccia. Sarebbe opportuno che lei venisse”.
“Augello non c’è?”
“Dottore, se ne è scordato? È andato nel paese dei suoceri, con la moglie e
il picciliddro”.
E subito Montalbano pinsò con amarizza che quello che aviva appena finuto di
spiare, e cioè se Mimì Augello stava di servizio, era un segno dei tempi, anzi
meglio, del tempo al singolare, quello sò, pirsonale, dell’anni che
principiavano a pisargli: una volta avrebbe fatto carte favuse per tiniri Mimì
Augello lontano da una indagine, non per invida o per fottergli la carriera, ma
per non spartiri con lui il piaciri indescrivibile della caccia solitaria, ora
invece l’avrebbe vulanteri mannato al posto sò, gli avrebbe lassato in mano
l’inchiesta. Certo, quanno gli capitava un caso ancora ci si ghittava dintra
cavallo e carretto, come aviva fatto sempre, ma, se ci arrinisciva, preferiva
scansarselo, il caso, fin dal principio. La vera verità era che da qualichi
tempo gli fagliava la gana. Doppo anni di pratica si era fatto capace che non
c’era pirsona cchiù scarsa di
ciriveddro di chi cridiva d’arrisolviri un problema ricorrendo all’omicidio.
Altro che De Quincey e “L’assassinio come una delle belle arti”! Cretini
tutti, sia quelli che ammazzavano al minuto per avidità, gelosia, vendetta, sia
quelli che massacravano all’ingrosso in nome di parole che inchivano la vucca
come libertà e democrazia. E lui si era stuffato di aviri sempre a chiffari coi
cretini. Che certe volte erano furbi, certe volte i cretini erano macari
intelligenti, come aviva acutamente notato una volta Leonardo Sciascia, ma,
zarazabara, sempre scarsi di testa
ristavano.
“Dov’è successo?”
“In mezzo a una strata, manco un’ora fa”.
“Ci sono testimoni?”
“A tinchitè, quanti ne vuole”.
“Quindi hanno visto l’assassino?”
“Per vederlo, l’hanno visto, dottore. Ma, a quanto pare, non è stato
possibile riconoscerlo”.
E come ti sbagli, in questa nostra bella terra? Vedi, ma non riconosci. Assisti,
ma non puoi precisare. Sei presente, ma ti sei scordato gli occhiali. D’altra
parte, siamo giusti, chi s’azzarda a dichiarare d’aviri raccanosciuto un
assassino mentre assassina, oggi come oggi si trova automaticamente l’esistenzia
rovinata non tanto dall’assassino stisso che si voli vendicare, quanto
chiuttosto dalla polizia, dalla stampa, dalla televisione, dai giudici.
“L’hanno
inseguito?”
“Vuole babbiare?”
E come ti sbagli, in questa nostra bella terra? Sissignore, c’ero, ma non ho
potuto corrergli appresso perché avevo una scarpa slacciata. Sissignore, ho
visto tutto, ma non sono potuto intervenire perché soffro di reumatismo.
D’altra parte, siamo giusti, quanto coraggio ci voli per mittirisi a curriri,
disarmato, appresso a uno che ha appena finuto d’ammazzari e che ha minimo
minimo un altro colpo in canna?
“Hai avvertito il pm, il dottore, la scientifica?”
“Tutti”.
Stava pigliando tempo, se ne capacitava perfettamente. Ma non potiva
scapottarsela. Spiò di malavoglia:
“Come si chiama ‘sta strata?”
“Via Rosolino Pilo, dalle parti di…”
“La conosco, arrivo”.
Facenno voci, santianno e sunanno il clacson fino a intronarsi, arriniscì a
farisi largo in mezzo a una cinquantina di pirsone, accorse subitanee come mosche
al feto di una cacata, che attuppavano l’accesso di via Rosolino Pilo a chi
come lui viniva da via Nino Bixio. L’attuppamento era dovuto al fatto che
l’accesso era sbarrato da una machina della polizia assistimata di traverso e
oltretutto presidiata dagli agenti Inzolia e Verdicchio, meglio accanosciuti in
commissariato come “i vini da tavola”. All’altro capo, che dava su via
Tukory, ci stavano di guardia, con un’altra machina, le “vestie serbagge”,
vale a dire gli agenti Lupo e Leone. La sezione “pollaio”
del commissariato, e cioè Gallo e Galluzzo, era al centro della strata
‘nzemmula a Fazio. E sempre in mezzo alla strata si vidiva un corpo
stinnicchiato ‘n terra. Poco distante, tri òmini stavanno addossati a una
saracinesca.
Dalle finestre, dai finestroni, dai terrazzi, vecchi e picciotti, fimmine e
mascoli, picciliddri, cani e gatti s’affacciavano a taliare, altri si
sporgevano a rischio di andarsi a catafottere sulle basole per vidiri meglio
quello che capitava ed era tutto un chiamari, arridiri, chiangiri, prigari, fari
voci, un gran virivirì che pariva precisa ‘ntifica la festa di San Calò. E
proprio come nella festa c’era chi scattava fotografie e chi ripigliava la
scena con quelle telecamere niche niche che oggi sanno adoperare macari i
neonati. Il commissario accostò al marciapiedi, scinnì. E subito s’intrecciò
supra la sò testa un animato dialogo aereo.
“Talè! Talè! ‘U commissariu arrivò!”
“Montalbano è!”
“Cu? Montalbanu? Chiddru di la televisioni?”
“No, chiddru veru”.
A Montalbano gli vinni una violenta botta di nirbuso.
“Non si può fare in modo che questa gente non se ne stia affacciata a godersi
lo spettacolo? I corvi hanno più decenza!”
“E come facciamo, dottore? Ci mettiamo a sparare in aria?”
“Chi sono quelli?” spiò facendo ‘nzinga con la testa verso i tri
‘mpiccicati contro la saracinesca.
”Amici del morto. Erano con lui quando è successo”.
Montalbano li taliò. Tutti trentini, tutti coi capilli a spazzola, tutti in
felpa grigia e scarpe da ginnastica, tutti bastevolmente atletici, tutti con la
facci cotta dal sole. Ma al momento la loro ariata sportiva era scomparuta per
lassare il posto a una specie di rigidità da manichini, certo dovuta allo
scanto e allo shock. Lo pigliò un dubbio.
“Che per caso sono militari?” spiò spiranzuso.
Se pi caso erano sordati in borgisi, potiva immediatamente sganciarsi dalla
facenna passannola ai carrabbinera.
“Nonsi, dottore”.
Macari il morto era vistuto all’istisso modo, solo che la parte di davanti
della maglietta di felpa aviva macchie e striature marrò scuro, dovute al
sangue che faciva una pozza sulle basole. La facci non ce l’aviva cchiù,
scancillata. Allato alla mano mancina c’era un cellulare. Fu solo allura che
Montalbano, talianno torno torno, s’addunò che supra la saracinesca inserrata
ci stava un’insegna. C’era scritto: Bar Aurora.
Ebbe istantanea cirtizza, tanto assoluta quanto inspiegabile, che il povirazzo
sparato era l’istissa pirsona che gli aviva telefonato un’orata avanti
sbagliando nummaro. Si avvicinò ai tri che stavano stritti stritti, come se
sintivano friddo.
“Il commissario Montalbano sono. Come si chiamava il morto?”
I tri atleti parivano addrummisciuti addritta, le pupille nell’occhi
sbarracati firriavano come palline a dritta, a manca, supra, sutta e sicuramenti
non vidivano nenti. Non si cataminarono, non arrispunnero,
forse non arriniscivano a mettere a foco la pirsona che avivano davanti.
“Come si chiamava?” ripitì, pacinziuso, Montalbano.
Finalmente uno, facenno una faticata evidente, arriniscì a bloccare i sò occhi
davanti a quelli del commissario.
“Riccardo Lopresti” murmuriò.
“Riccardino?” fece Montalbano.
Gli parse di aviri ditto una parola mammalucchigna, una parola magica, fu come
se avesse innestato in una presa di corrente la spina che dava energia ai tri.
Persa di colpo l’affatata immobilità, ripigliarono calore, colore, parola,
sentimento, vita.
“Lo conosceva?” spiò, con le labbra che gli trimavano, quello che aviva
risposto.
Montalbano non gli replicò. Il secunno accomenzò a dire a voce vascia, quasi
una prighera:
“Riccardino, Dio mio, Riccardino…”.
Il terzo non parlò, si mise a chiangiri silenziosamente, tinennosi la facci tra
le mano. Un raggio di sole, ‘mproviso, priciso come la luce di un riflettore,
illuminò il gruppo del commissario e dei tri atleti. Montalbano isò la testa:
il nuvolo aviva fatto occhio, la jornata, da ummirosa che era, stava cangiando.
Riccardino aviva visto giusto, sarebbe stata propio una gran bella jornata. Ma
non per lui. E comunque la cosa per Riccardino oramà non aviva cchiù
nisciunissima importanza.
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