Il formaggio siciliano più famoso attraverso un'originale iniziativa dei ragazzi
della Cooperativa Sociale "Alberto Portogallo"
Con una Presentazione di Andrea Camilleri
Dopo le prime due edizioni di "Cunti della Contea di Modica", questo libro edito dalla
Cooperativa "Alberto Portogallo" sul formaggio Ragusano DOP è un tentativo riuscito
di costruire reti relazionali.
In un tempo in cui è onestamente difficile trovare punti di incontro condivisi,
attorno al nostro Ragusano si sono trovati uno chef, un giornalista, uno scrittore, i
collaboratori e i ragazzi diversabili della Cooperativa: questi sono stati gli ingredienti
vari e ben amalgamati della nostra personalissima ricetta.
Dalla buona compagnia - che se veramente buona è anche bella! - tra lo chef
Carmelo Chiaramonte e i ragazzi diversabili sono nate le ricette presentate nel libro e nel
dvd allegato: lo chef infatti ha chiesto direttamente ai ragazzi l'abbinamento tra il
Ragusano e alcuni ingredienti tipici della nostra terra iblea.
Il giornalista Antonio Casa ha fatto da "tutor" ai ragazzi della Cooperativa, guidando
le interviste al presidente del Corfilac e ad un produttore di formaggio Ragusano: le stesse
interviste sono state poi trascritte dagli stessi ragazzi con costane voglia di apprendere
nuovi mestieri e nuovi strumenti.
Dal secondo cordiale incontro tra la nostra Cooperativa sociale e lo scrittore Andrea
Camilleri - dopo l'inedito "Noè e il pidocchio" - è nato il racconto autobiografico
sulla personale iniziazione dello scrittore siciliano al formaggio Ragusano: "Caciocavallo,
un lungo amore".
Last but non least, i nostri ragazzi diversabili - questo è un nome che ci comprende
tutti perché ognuno di noi ha abilità diverse dagli altri, mentre disabili indica che
qualcuno ha stabilito quali abilità mancano negli altri! - insieme a quanto sopra descritto,
hanno scattato oltre seicento foto legate dal tema del Ragusano: una selezione delle foto
più belle sono raccolte in questo volume.
Grazie a queste reti di incontri i ragazzi della nostra Cooperativa hanno gustato
l'amicizia del "fare insieme" piuttosto che il sentirsi oggetto di un distaccato e
pietistico "fare per", da queste relazioni nuove e antiche ci sentiamo reciprocamente
arricchiti e questo nostro lavoro vi mostriamo nella pagine seguenti.
Il comitato editoriale
Copie del volume
e informazioni possono essere richieste direttamente a:
Libreria Equilibri,
e-mail libreriaequilibri@yahoo.it,
tel. +39.0932453363
Paolo Modica, email paolomodica@yahoo.it
Giovanni Rossitto, email cassagio@hotmail.com
Caciocavallo, un lungo amore
di Andrea Camilleri
Avevo sì e no cinco anni quanno una matina, sul tardo, mè matre niscì dalla cucina e venne da mia che stavo a taliare il ”Corriere dei piccoli” e a circare di leggiri le storie di sor Pampurio o del soldato Marmittone.
“Vai dal napoletano e accattami cento grammi di cascavaddro che quanno
fici la spisa me lo scordai”.
All’epoca, tutti i negozianti di generi alimentari del mio paisi venivano chiamati “i napoletani” pirchì parlavano tutti con l’accento delle parti di Napoli, ma in realtà erano o salernitani o amalfitani. E la parola “etto” ancora non si usava, forse non era manco conosciuta. Arrivò più tardi, quanno io ero già grande, insieme a parole come democrazia, repubblica,
voto e all’albero di Natale al posto del presepio.
Alla richiesta di mè matre fui subito tentato d’attrovare una scusa per dirle di no. Mai avevo voluto mangiarlo il cascavaddro, mi veniva da vommitare al solo pensiero che tagliavano un pezzo di cavaddro, macari ancora vivo, col sangue, la pelle, il pilo e tutto e ne facivano, vai a sapiri come, un pezzo di cacio. Nella mè testa di picciliddro la cosa mi pareva
una specie di sacrilegio. Mè patre cercava di convincermi:
“Ma è un cacio fatto come gli altri!”
Non era vero, pinsavo. Io lo sapevo come si faciva il cacio dal latte di crapa o di vacca, ma il latte da un cavaddro non l’avevo mai visto nesciri.
Ad ogni modo, siccome era difficile assà disobbedire a un ordine di mè matre, andai di malavoglia dal napoletano.
Quanno ebbi tra le mano il pezzo incartato, in una vaneddra solitaria dalla quale dovevo per forza passare per tornare a la casa, mi fermai, lo scartai e me lo portai al naso. Sciaurava di cacio, e di cacio bono, non c’era nenti che mi ricordava una vestia come il cavaddro. Allora finalmente mi decisi al gran passo. Tirai fora la lingua e lo liccai. La lingua mi pizzicò tanticchia, ma il sapore mi piacque. Detti, per avere conferma, una secunna liccata e doppo lo rincartai. Mè matre lo portò in tavola e, appresso al secondo, attaccò a mangiarselo con mè patre.
“E a mia nenti?” - spiai.
E questa fu la mia iniziazione al caciocavallo. E mi passò ogni scrupolo: se per fare un cacio accussì bono dovevano ammazzare un cavaddro, pazienza. Ricordo che una volta, io già andavo alla seconda elementare, mè patre ne portò una forma intera da Ragusa. Allora eravamo andati a passare qualche mesata nella casa di campagna e io stavo sempre fora a jocare terre terre o, quanno scurava, nel baglio dove c’erano due granni panchine di pietra. Un jorno, che la forma di cascavaddro era arridotta alla mità, decisi di fabbricare un piccolo monumento al cavaddro in quanto fornitore della materia prima per fare il cascavaddro. Ne tagliai un pezzo, l’arridussi a rettangoli, quadrati, triangoli e, coll’aiuto di alcune canne di ristuccia feci un cavallo che era tanticchia picassiano. La sera, a vedere la forma di cascavaddro tutta scavata, mè patre arraggiò.
“Che hai fatto?”
“Ci ho fatto un monumento al cavaddro”.
“Fammelo vidiri”.
“L’ho lassato fora, supra a una panchina”.
L’indomani matina, quanno scinnii nel baglio, il monumento non c’era più. Supra la panchina erano rimasti solo le canne di ristuccia. Dispirato, mi misi a chiangiri e mè matre currì subito.
“Se lo saranno mangiato i surci” - disse.
Ma io mi feci pirsuaso che i topi non ci trasivano nenti, sicuramente era stato mè patre a mangiarselo prima di andare in paìsi.
Che dire ancora? Che quanno nel 1949 mi sono trasferito a Roma ho capito che il mio amore per il caciocavallo ne avrebbe patito assà. E infatti, trasuto in un elegante negozio e domandato un etto (stavolta la parola la usavo macari io) di caciocavallo, mi vitti rifilare una cosa che del cascavaddro non era manco cugina di quinto grado. Non ebbi fortuna migliore in altri negozi. Risolvetti che quanno non ne potevo più dal desiderio me ne facevo spedire tanticchia dalla Sicilia. E così ho continuato, e continuo, a fare.
Ah, volevo dire che solo a settant’anni sonati seppi che il nome di caciocavallo derivava dal fatto che le forme di cacio vengono messe a cavallo di un bastone per la stagionatura. Non so perché, ne restai tanticchia deluso.
|