Le tradizioni strumentali dei barbieri raccolte e rielaborate da Giuseppe Calabrese e Domenico Pontillo
Con un CD di "Musiche dai Saloni" interpretate dalla
Compagnia di canto e musica popolare
Prologo di Andrea Camilleri
Con una nota di Sergio Bonanzinga
Contributi di: Enzo Alessi, Gaetano Basile, Marco Betta, Daniele Billitteri, Francesco
Buzzurro, Giorgio Chinnici, Carmelo Ciringione, Matteo Collura, Nino De Vita, Salvatore Ferlita,
Melo Freni, Girolamo Garofalo, Mario Gaziano, Giuseppe Giudice, Alfonso Lentini, Antonio Liotta,
Giovanni Moscato, Salvatore Giovanni Loforte, Giancarlo Macaluso, Antonio Patti, Giacomo Pilati,
Mario Pintagro, Paolo Polizzotto, Vincenzo Prestigiacomo, Giuseppe Quatriglio, Nonò Salamone,
Gaetano Savatteri, Mario Scamardo, Angelo Scandurra, Salvatore Sciortino, Nuccio Vara,
Carmelo Vetro, Stefano Vilardo, Calogero Zarcone
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Il salone di don Nonò
di Andrea Camilleri
Don Nonò era il barbiere della nostra famiglia, nel senso che tutti i miei famigliari maschi (nonno, gli zii, mio padre) si facevano servire nel suo salone che si trovava situato in una delle due strade che portavano a casa nostra. Era perciò comodo, quando ce n'era bisogno, rincasando, fermarsi dieci minuti nel salone per farsi dare una spuntatina ai capelli.
I miei amici, una volta giunti attorno ai sedici anni, mettevano i pantaloni lunghi e ogni mattina ansiosamente si controllavano allo specchio per vedere se nottetempo era capitato il miracolo della barba. E con quanto orgoglio i più precoci potevano finalmente proclamare ai compagni invidiosi: "La varba mi spuntò! Dal varberi andai!"
Io no, io dirazzavo. Ho sempre, nella mia vita, cercato di evitare i saloni dei barbieri.
Una spiegazione possibile di questa mia idiosincrasia è forse riconducibile a un fatto che mi capitò un giorno che, potevo avere sei anni, mio padre si fece accompagnare da me nel salone di don Nonò. Il salone in verità non meritava l'accrescitivo: era una stanza di poco più di quattro metri dotato di uno sgabuzzino posteriore. Dentro ci stavano tre poltrone da barbiere, sei sedie per i clienti in attesa, un portaombrelli, un attaccapanni, due sputacchiere. Quel giorno arrivò trafelato uno degli aiutanti di don Nonò con una tazza da latte in mano ed entrò nello sgabuzzino. Io lo seguii. E vidi che rovesciava il contenuto della tazza dentro a un pentolino di coccio pieno a metà di sale. Mi accorsi allora che si trattava di quattro orrendi vermi neri, gonfi e grossi.
"Che sono?" – domandai disgustato.
"Sanguette" - mi rispose.
E subito dopo le sanguisughe cominciarono a vomitare sangue, tingendo di rosso il bianco del sale.
M'impressionai talmente che me ne scappai da solo a casa. Allora le sanguette servivano per cavare il sangue a chi ne aveva in eccesso. Si applicavano a una vena e quelle attaccavano a succhiare. Le tenevano i barbieri, residuo di quando i barbieri erano anche cerusici.
Insomma, a 82 anni suonati credo di essere stato da un barbiere non più di una ventina di volte.
A tredici anni, avevo i capelli così lunghi che all'adunata del sabato fascista il capomanipolo mi ordinò di ripresentarmi il sabato seguente coi capelli tagliati. E ne informò mio padre. il quale disse a don Nonò che appena mi vedeva passare, doveva farmi bloccare da un suo aiutante, vincere le mie resistenze, portarmi nel salone e quindi procedere al taglio forzato. Ma io subodorai l'agguato e per i primi quattro giorni mi guardai bene dal passare da quella strada, facevo l'altra. Senonché il quinto giorno, giovedì, trovai la strada di fuga sbarrata per lavori. E quindi dovetti passare dalle forche caudine. L'aiutante di don Nonò mi vide e cercò d'agguantarmi, io riuscii a sfuggirgli, intervenne il secondo aiutante, poi qualche passante. Insomma, alla fine di questa scena degna della ferìa di Pamplona, fui catturato e ridotto quasi alla calvizie.
Don Nonò, come tutti i barbieri, ogni anno distribuiva in regalo un calendarietto ai clienti. Erano piccoli, da portarsi nel taschino, infilati dentro a una bustina di carta speciale. Dotati di un profumo dolciastro particolare, credo unico al mondo, erano illustrati a colori vivaci. Durante gli anni del regime, ne esistevano di due tipi: uno, come dire, ufficiale, che esaltava le eroiche imprese del fascismo e un altro, più clandestino, nel quale erano raffigurate carnose, rubensiane femmine discinte. Per l'epoca, erano molto osé, oggi andrebbero bene in un educandato.
Confesso che don Nonò riuscì a tagliarmi i capelli per la seconda volta promettendomi un calendario dove le femmine non erano coperte da trasparenti veli ma completamente nude.
Alla domenica, perché i barbieri lavoravano anche la domenica, il loro giorno di riposo era il lunedì, nel salone di don Nonò c'era il concertino eseguito dal duo Pirrotta-Spitaleri, di grande fama paesana. Pirrotta, al mandolino, era un ferroviere, Spitaleri, falegname, suonava la chitarra.
Naturalmente non si esibivano solo nel salone, ma venivano ingaggiati in occasioni speciali quali matrimoni o particolari ricorrenze. Si prestavano anche a serenate notturne (allora usavano) che gli innamorati facevano eseguire sotto le finestre delle loro belle. Certe volte le serenate finivano con la fuga precipitosa del duo, inseguito da qualche padre geloso che non gradiva la gentile attenzione verso la figlia.
Pirrotta era anche quello che oggi si chiamerebbe un vocalist, non cantava le parole delle canzoni, ma ne accennava a tratti il motivo, generalmente a bocca chiusa. il loro repertorio pescava soprattutto nella grande canzone napoletana e frequenti erano i bis. Perché in occasione del concertino il salone si affollava all'inverosimile e il duo era costretto a suonare praticamente schiacciato contro il muro.
Io me lo godevo da fuori, appoggiato alla porta, sicuro che don Nonò era troppo impegnato per darmi la caccia.
Poi, nel 1942, il fascismo proibì i concertini. La guerra - spiegarono i gerarchi - poteva tollerare solo marce militari e inni patriottici.
E il salone di don Nonò s'intristì.
Concerto-presentazione all'Auditorium Rai di Palermo, 31-10-2008
I barbieri di Sicilia
Nel salone del barbiere don Nonò un bel giorno arriva trafelato un suo aiutante: in mano regge una tazza da latte. Si infila di corsa nello sgabuzzino e rovescia il contenuto della tazza dentro un pentolino per metà colmo di sale. Si tratta di quattro vermi orrendi (le sanguisughe) che cominciano a vomitare sangue, tingendo di rosso il bianco del sale. A questo disgustoso spettacolo assiste il giovanissimo Andrea Camilleri.
Nasce da questo ricordo, probabilmente, l´idiosincrasia dello scrittore di Porto Empedocle nei confronti di forbici e rasoi: «Insomma, a ottantadue anni suonati credo di essere stato da un barbiere non più di una ventina di volte». Questa tardiva ma sapidissima confessione la si trova ad apertura del prezioso volume intitolato "Musica dai saloni. Le tradizioni strumentali dei barbieri raccolte e rielaborate da Giuseppe Calabrese e Domenico Pontillo", a cura di Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio Piscopo, nell´edizione non in vendita della Casa museo Antonino Uccello.
Nelle pagine che fanno da prologo, l´autore del "Birraio di Preston" fa pure cenno ai calendari profumati regalati dai barbieri ai clienti, e soprattutto ai concertini eseguiti nel salone di don Nonò dal duo Pirrotta-Spitaleri: il primo ferroviere, il secondo falegname. Concertini, come scrive alla fine Camilleri, proibiti dal fascismo nel 1942: «La guerra - spiegarono i gerarchi - poteva tollerare solo marce militari e inni patriottici». A questo punto, non può non venire in mente l´ultimo romanzo del padre del commissario Montalbano, "Il casellante" (Sellerio), dove guarda caso c´è il protagonista della storia, ferroviere, che assieme a un vecchio amico anima le serate di un salone di barbiere, fino a quando non interviene il gerarca, ferito nell´onore per aver assistito all´esecuzione del repertorio fascistissimo arrangiato a mo´ di "valzarino", di polca e di mazurca.
Ora, proprio questo microcosmo dei saloni da barba, soprattutto con il loro corredo musicale, è la materia che dà forma al libro in questione, che si deve da un lato alla competenza di Gaetano Pennino, dall´altro alla passione di Giuseppe Maurizio Piscopo. E soprattutto alla collaborazione di un esercito di scrittori, musicisti, critici che hanno dato fondo ai loro ricordi per rievocare tempi e figure risucchiati dall´oblio, che hanno compulsato le pagine di romanzi e poesie, di testi etnoantropologici, per restituire un pezzo di Sicilia dannato all´estinzione. Per non dire delle foto che arricchiscono le pagine: la maggior parte appartiene all´archivio di Melo Minnella, ma si trovano anche scatti a volte fortunosamente recuperati. Al testo e alle immagini, si accompagna un cd realizzato dalla Compagnia di canto e musica popolare di Favara (di cui fa parte Piscopo, di professione maestro e instancabile animatore culturale per vocazione), che allinea le melodie tipiche eseguite nei saloni alternando brevi tracce di documenti originali d´archivio alla riproposizione fedele del tipico stile esecutivo dei barbieri.
Le note del mandolino accompagnano così, ad apertura del supporto musicale, un vero e proprio viaggio nel tempo: i volti strappati a un passato che sembra lontanissimo si affacciano dalle foto per assistere a una sorta di inatteso prodigio. I vecchi saloni si rianimano, i motivi musicali peculiari si espandono: si sente quasi il ritmo metallico delle forbici, animate da mani veloci ed esperte. Sembra di trovarsi innanzi a una specie di atto esorcistico: per oscurare definitivamente le insegne pretenziose e improbabili di oggi ("Hair stylist" ad esempio, come ricorda Gaetano Basile nella sua testimonianza intitolata "Barbieri di Sicilia"), l´arredo elegante e minimalista degli odierni saloni di bellezza, e far rivivere invece un´aura oggi quasi irriconoscibile, che probabilmente resiste alla pasoliniana mutazione antropologica in alcune sacche di resistenza: paesini di poche migliaia di anime, vere e proprie trincee di una memoria ormai sbiadita. Come testimoniano le pagine scritte da Giuseppe Quatriglio, Matteo Collura, Gaetano Savatteri, Stefano Vilardo, Melo Freni, Nino De Vita, Carmelo Vetro e tanti altri presenti nel volume: ne viene fuori una sorta di "Spoon river" della barberia isolana. Un arcipelago di nomi, e soprattutto di storie, legate a passioni nascoste, a dichiarazioni d´amore accompagnate dalle serenate notturne, a solennità famigliari.
A fare da colonna sonora, le melodie provenienti dai saloni, i ritornelli delle fisarmoniche dei violini e dei mandolini, gli accordi, scrive Pennino nell´introduzione, «di chitarre risuonanti nelle vecchie sale da barba dei paesi, luoghi di ritrovo e di incontro per naturale e antichissima elezione». Una sorta di teatro anatomico della comunità del paese, insomma: non per nulla a un certo punto si legge nel "Giorno della civetta" di Leonardo Sciascia: «Il tempo di farmi la barba - disse il maresciallo - e saprò se questo Zecchinetta è uno del paese: il mio barbiere conosce tutti». Il coiffeur, dunque, come una sorta di confessore, da un lato: ricettacolo di segreti, mormorii, indiscrezioni. Dall´altro, confidente ideale, prezioso informatore. Ma anche prototipo di eleganza e a volte anche argutezza: come annota Vitaliano Brancati nel suo "Diario romano": «Dal barbiere. Un vecchio ben vestito, con la spilla nella cravatta e il colletto duro, sereno e grave come un medico, inforca gli occhiali e mi tratta sapientemente la faccia. Più che una rasatura, mi aspetto una diagnosi». E spesso la diagnosi i barbieri la davano davvero: della situazione politica, dell´ultima crisi matrimoniale, dell´improvvisa bancarotta di un cliente. Per non dire delle cure riservate non tanto a barba e capelli, quanto ai più disparati malanni. Non hanno infatti solo praticato l´attività di cavadenti, i barbieri, disposti come erano ad affrontare anche le emergenze più preoccupanti: a questo proposito, non a caso Giuseppe Pitrè parlò di bassa medicina. Bassa per la provenienza insolita dell´assistenza medica, ma anche per i risultati spesso raggiunti: basta leggere il capolavoro di François Rabelais, "Gargantua e Pantagruel", in cui troviamo barbieri che cercano di curare, e che invece quasi sempre accorciano la vita dei malcapitati. Bassa medicina sì, dunque, anche se è vero che tra il Medioevo e il Rinascimento, i barbieri erano iscritti alla Corporazione dei medici e degli spaziali: tra questi, vanno annoverati addirittura Dante Alighieri e Domenico di Giovanni, meglio noto come il Burchiello (Firenze, 1404 - Roma, 1449), poeta celebre per la sua lingua assurda.
Barbieri tuttofare (c´è pure il parrucchiere alchimista e astrologo delle "Mille e una notte", che si chiama Taciturno e invece è uno che non la smette di parlare, e quello che con rara competenza censura le biblioteche, come nel "Don Chisciotte"): barbieri tuttofare si diceva, alla stregua del "Figaro" di Cesare Sterbini (1784-1831): per aver in tasca qualche doblone, l´acconciatore factotum non si fa scrupoli: s´adatta a far piacere, «colla scusa / del pettine di giorno, / della chitarra col favor la notte». Una chitarra suonata con perizia, di solito assieme al mandolino, alla fine di un vero e proprio apprendistato, come dimostra Sergio Bonazinga, che nella sua nota, posta a chiusura del libro, passa in rassegna con rara competenza il repertorio musicale dei barbieri e le tecniche di esecuzione, anche attraverso interessanti testimonianze dirette.
Salvatore Ferlita
(da La Repubblica (ed. di Palermo), 2 ottobre 2008)
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