Nota di Andrea Camilleri
Postfazione di Giovanni Capecchi
Siamo in Versilia. Bernardo Maestrelli, comandante di velieri, è costretto a ormeggiare il suo Eliseo: né lui né la sua barca hanno più l'età per andare per mare. Sceso a terra la sua casa diventa l'ospizio del paese, nato proprio per accogliere i vecchi marinai. Lì trascorre le sue giornate, sempre uguali, fra l'orto e il molo, d'estate costretto dalle suore a chiedere l'elemosina tra i villeggianti, d'inverno a scrutare il mare con invincibile nostalgia. Ma un giorno sulla linea dell'orizzonte appare un'ombra, la vela di un bastimento. Quella sagoma in mezzo al mare, quel vecchio veliero, riaccende i sogni e le speranze del Capitano Maestrelli e degli altri uomini di mare dell'ospizio: riprendere il mare, andandosene senza meta. Per sempre.
In questi anni sembra che la narrativa si sia volentieri sottomessa all'intreccio, a seguire il meccanismo di complicate peripezie che si distanziano dall'artigianato della minuta scultura di personaggi e dal tessere e ritessere intorno a una situazione psicologica capace di scatenare il romanzesco. Un realismo avventuroso, di questi tempi, che ama l'estensione e mostra ripugnanza per l'idea come nucleo forte dello sviluppo narrativo. Invece, questo romanzo che ci arriva dagli anni Sessanta, rimasto scolpito nella memoria di Andrea Camilleri che oggi lo ripresenta, trova il suo centro energetico in un'idea suggestiva, un'idea legata al mare, all'orizzonte, e a quel che suggeriscono quali simboli di una vita diversa. Il richiamo immediato è quindi a Conrad, Melville, Hemingway. Maestrelli Bernardo, detto il Capitano, che ha dominato gli oceani quand'erano ancora solcati dai velieri e ancora conserva l'andatura impressa dal ponte di legno, vive oramai in un ospizio, insieme a un gruppo di vecchi marinai, vessati dalle suore e per di più costretti alla questua con i turisti per contribuire al proprio mantenimento. Impacciato e arenato in terraferma, con invincibile nostalgia, guarda sempre il mare, finché un giorno gli si presenta l'incredibile visione. Un vecchio veliero, di quelli rimpiazzati dalle moderne macchine a motore, viene verso il porto per essere disfatto. E il Capitano elabora il suo sogno: recuperare quella carcassa, rimetterla in sesto e riprendere il mare, andandosene senza meta. Per sempre. «Se quel veliero fosse nostro, che importanza avrebbe il posto dove andare?».
Nota
di Andrea Camilleri
Mi capitò d'imbattermi in due racconti di Marcello Venturi nel 1946 sulle pagine del Politecnico di Vittorini, del quale ero lettore attentissimo e speranzoso. Speranzoso, naturalmente, di potervi vedere un giorno stampate le mie poesie che avevo inviate a Vittorini. E questi mi aveva risposto, facendomi fare salti di gioia, che un giorno o l'altro ne avrebbe pubblicata qualcuna. Quando mi riscrisse, mesi dopo, annunziandomi l'imminente pubblicazione (intanto il Politecnico era diventato mensile), ci pensarono Alicata e Togliatti a stroncarmi le gambe costringendo praticamente Vittorini a chiudere la rivista. Sto raccontando questa storia privata solo per dire con quanta curiosità e partecipazione leggessi tutto quello che appariva sul Politecnico, soprattutto gli scritti di coloro che, a occhio e croce, stimavo miei quasi coetanei. Li sentivo, come dire, fratelli. Questi due racconti di Venturi però mi piacquero particolarmente, così come molto m'interessò una sorta di reportage sul paese dove viveva, apparso sempre nel 1946. Da allora diventai un suo lettore abbastanza fedele. E perciò mi sento di dichiarare con tutta tranquillità che L'ultimo veliero, apparso da Einaudi nel 1962, non solo è, a mio parere s'intende, il romanzo più riuscito e felice di Venturi, ma anche uno tra i migliori romanzi italiani pubblicati nel secondo novecento. Non ne racconterò la trama perché ritengo che finirebbe con l'essere una involontaria forma di condizionamento per il lettore, anche il semplice racconto di una trama non riesce mai ad essere oggettivo, si finisce col sottolineare quello che ci ha personalmente più colpito e non è detto che sia la lettura più giusta. Mi limiterò dunque a dire che la storia è imperniata su un gruppo di vecchi marinai finiti in un ospizio, vessati dalle suore e oltretutto costretti alla questua per il loro stesso mantenimento. Un giorno l'arrivo in porto di un vecchio veliero, destinato ad essere distrutto per farne legna da ardere, accende in loro le non mai sopite speranze di un ritorno alla libertà, rappresentata dalla possibilità di poter salpare e prendere il largo a vele spiegate, andandosene letteralmente a zonzo senza un porto dove attraccare. «Se quel veliero fosse nostro, che importanza avrebbe il posto dove andare?» risponde infatti a suor Pasqualina, una delle suore dell'ospizio, il Capitano, vale a dire Maestrelli Bernardo, comandante di lungo corso, e animatore e 'sobillatore' degli altri ex marinai. Riescono a ricomprarsi quel veliero dal cavalier Pinotti che l'aveva acquistato per farne legna, lo rimettono in sesto e finalmente, una notte di tramontana, smesse le grigie e tristi divise dell'ospizio e indossate le loro vecchie uniformi, salgono sulla nave e salpano agli ordini del Capitano Maestrelli. «La sua voce era ancora fresca e squillante come un tempo, gli parve; più forte della tramontana, che non riuscì a cancellarla. Al suo comando gli uomini si mossero in coperta, e non a fatica, ma sciolti, coi movimenti sicuri e precisi. E presto un'ombra scura calò dall'alto del cassero, col battito di due grandi ali celesti, e l'Assunta prese a vibrare, a staccarsi lentamente con la prora al mare». Si realizza così un sogno di vecchi che è l'equivalente esatto di un sogno di giovani. È il piccolo miracolo di questo libro. Infatti non è un caso che il romanzo sia stato successivamente ripubblicato in collane destinate ai ragazzi. Che significa? Significa semplicemente che l'aspirazione alla fuga verso territori di sconfinata libertà è comune a tutti, è insita nella natura stessa dell'uomo e rappresenta, direi, il senso migliore dell'esistenza. E così Venturi opera il prodigio di raccontarci una fiaba per ottantenni e per quindicenni, una fiaba senza tempo, tant'è vero che mi è successo di rileggerla dopo quarantacinque anni con la stessa emozione della prima lettura. E questo grazie soprattutto a una scrittura di rarissima felicità, e semplicità, espressiva.
È come se quello stesso vento di tramontana che gonfia le vele del vecchio veliero scorresse di continuo da una pagina all'altra del romanzo, facendolo navigare con sicurezza, legegrezza, eleganza, allegrezza. Un flusso ininterrotto, una corrente leggera e costante (tanto per rimanere nei termini marinareschi) fa a tratti quasi volare il romanzo verso una dimensione poetica a un tempo casta e vibrante. Nel 1962, quando apparve per la prima volta, il libro di Venturi non venne da tutti valutato per quel molto che valeva. Anzi ci fu chi gli rimproverò di aver abbandonato 'l'impegno' perseguito in altre sue opere. Io credo che soprattutto non andava giù ad alcuni (re)censori la mirabile leggerezza di quelle pagine. Per loro, l'impegno poteva esprimersi solo attraverso una scrittura penitenziale, problematica, una scrittura a ciglia alzate e a fronte perennemente corrugata. Romanzo disimpegnato? Non si erano accorti che Venturi aveva scritto un romanzo impegnatissimo, che trattava della vita e della morte, del disagio esistenziale del nostro tempo, della possibilità di riscatto che la ricerca della libertà offre all'uomo. Solo che, per dire tutto questo, Venturi aveva scelto un registro originale e, per l'epoca, finalmente inusuale.
Omaggio di Andrea Camilleri a Marcello Venturi
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