«Ho consegnato a Sellerio 5 mesi fa un nuovo romanzo di Montalbano,
"L'età del dubbio", dove il commissario consiglia a una ragazza di leggere
"La solitudine dei numeri primi" di Paolo Giordano». (Andrea Camilleri, da un'intervista a
Sky TG24, luglio 2008)
Nel corso di questo nuovo caso - la più marina delle indagini di Montalbano l'ha definita Camilleri - che si svolge tutto nel porto di Vigàta, tra yacht e cruiser, il lettore resterà colpito dal cambiamento che si è verificato nel commissario, come se Camilleri avesse voluto scavare più intensamente dentro i sentimenti del suo beniamino.
Una mattina viene trovato nel porto di Vigàta un canotto, all'interno il cadavere sfigurato di un uomo. L'ha riportato a riva un'imbarcazione di lusso, 26 metri, abitata da una disinvolta cinquantenne e da un equipaggio con qualche ombra. Proprietaria e marinai devono trattenersi a Vigàta fino alla fine dell'inchiesta sul morto (ammazzato col veleno stabilisce l'autopsia), ma intanto è proprio su di loro che Montalbano vuole indagare. Le carte di bordo parlano di continui spostamenti da un porto all'altro di mezzo mondo, e il potente motoscafo ormeggiato al suo fianco, "L'asso di cuori", non si è mosso di meno.
A leggere carte nautiche e libretti di bordo collabora il tenente della capitaneria Laura Belladonna. Qualcosa di più del suo cognome, non bella, ma bellissima, di gran simpatia, allegra, la risata come una cascata di perle. Montalbano si accorge allora che questa persona potrebbe cambiare tutta la sua vita, ma per fare questo bisognerebbe mandare "via la coscienza, via ogni dubbio, via la ragione".
Questa volta il commissario - e come lui il tenente Belladonna - ha la sensazione di essere a una svolta della propria esistenza e questa consapevolezza lo spinge a leggere dentro di sé come non ha mai fatto, con onestà e una sorta di spietatezza.
Montalbano è un notturnista. Scava il buio della notte. Vi apre un labirinto di specchi. E si sperde nei meandri, mentre insegue il proprio riflesso: le premonizioni e gli ammonimenti della sua buona e della sua cattiva coscienza. Il contatto cieco con gli incubi costringe Montalbano a stare in allarme, e a tenersi costantemente d’occhio: ora attore, ora spettatore della propria vita; sgomento sempre, per quell’alitargli addosso della notte; per quell’emanazione di morte, che sulla trama della vita incide come astuzia atrocemente giocosa che rovescia le false evidenze della realtà e riporta a dritto ciò che i sogni hanno acceso a rovescio. C’è un di più, in questo romanzo, rispetto agli altri di Montalbano. L’untuosità fanatica del dottor Lattes si fa più assillante; assesta colpi di bontà, che imprevedibilmente esplodono come mine. I fragorosi passi d’entrata e le chicchiriate di Catarella, del trafelato fante degli sfondoni e dei capitomboli linguistici, risuonano ora con più allucinata selvatichezza. Livia è sempre più lontana e irritabile. E con lei, al telefono, Montalbano è costretto a masticare un segreto che gli brucia le labbra. Si è incrinato l’autocontrollo del commissario. Montalbano vive il «dolce error» che fu di Petrarca. Una nuova Laura, «bella donna» anch’essa, come quella del poeta, ma in divisa di ufficiale di marina, lo fa petrarcheggiare: a ricalco, persino nell’«invidia». Se quello di Petrarca fu «giovenile errore», quello di Montalbano è quasi, però, di terza età. Il commissario e il tenente Laura collaborano alla stessa inchiesta che, in un intrigo internazionale, e con concorso di agenti segreti che al Kimberley Process fanno riferimento per il controllo del traffico di diamanti, convoglia, attorno a un cadavere sfigurato e a un passaporto falso, gli equipaggi di uno yacht e di un motoscafo. L’amore è un fantasma. Ma quel fantasma è la verità che manda a fuoco il commissario. E gli suggerisce un azzardo d’azione, alla James Bond. Il commissario trionfa, con la sua azione. Ma l’uomo Montalbano è sempre più solo. Prostrato, si piega su se stesso: sulle proprie ferite. Salvatore Silvano Nigro
Aviva appena pigliato sonno doppo ’na nuttata che pejo d’accussì nella sò vita ne aviva avute rare, quanno l’arrisbigliò di colpo un trono che fu come ’na cannonata sparata a cinco centilimetri dal sò oricchio. Satò susuto a mezzo del letto, santianno. E accapì che il sonno non sarebbi cchiù tornato, inutili ristarisinni corcato.
Si susì, annò alla finestra, taliò fora. Era un timporali con tutte le carti in regola, celo uniformementi pittato di nìvuro, lampi agghiazzanti, cavalloni quattro metri d’altizza, che s’avvintavano scotenno la granni criniera bianca. La mariggiata si era mangiata la pilaja, l’acqua arrivava sutta alla verandina. Taliò il ralogio, erano appena le sei del matino.
Annò in cucina, si priparò il cafè e, aspittanno che passasse, s’assittò. A picca a picca gli assumò alla memoria il sogno che aviva fatto. Che grannissima camurria che gli era pigliata da qualichi anno! Pirchì gli era vinuta questa, d’arricordarisi di tutte le minchiate che sognava? Per quanto ne sapiva, non tutti, arrisbigliannosi, si portavano appresso la memoria dei sogni. Raprivano l’occhi e tutto quello che gli era capitato in sonno, sonno, piacevoli o spiacevoli, scompariva. Lui inveci, no. E il pejo era che si trattava di sogni problematici, che gli facivano nasciri dintra ’na gran quantità di dimanne alla maggior parti delle quali non sapiva dari risposta. E accussì finiva coll’essiri pigliato dal nirbùso.
La sira avanti si era annato a corcare di umori bono. Da ’na simanata in commissariato non capitava nenti d’importanti e lui aviva ’n menti di approfittarisinni per fari ’na sorpresa a Livia comparennole all’improvviso davanti a Boccadasse. Astutò la luci, si stinnicchiò nella posizione del sonno e s’addrummiscì squasi subito. E immediato accomenzò a sognari.
«Catarè, stasera vado a Boccadasse» diciva trasenno in commissariato.
«Vengo anch’io!».
«No, tu no».
«Ma perché?».
«Perché no!».
A questo punto ’ntirviniva Fazio.
«Dottore, mi scusasse, ma taliasse che vossia non può andare a Boccadasse».
«Perché?».
Fazio pariva tanticchia restio.
«Ma dottore, se lo scordò?».
«Che cosa?».
«Che vossia è morto aieri matino alle 7 e un quarto pricise».
E tirava fora dalla sacchetta un pizzino.
«Vossia è Montalbano Salvo fu...».
«Lassa perdiri l’anagrafe! Davero morsi?! E come fu?».
«Ci vinni un colpo apoplettico».
«E indove?».
«Qua in commissariato».
«E quanno?».
«Mentri parlava al tilefono col signori e guistori» precisava Catarella.
Si vede che quel grannissimo cornuto di Bonetti-Alderighi l’aviva fatto arraggiare al punto tale da...
«Se vuole viniri a vedersi...» diciva Fazio. «La camera ardente è stata allestita nel suo ufficio».
Avivano fatto largo tra le muntagne di carte che c’erano supra alla scrivania e ci avivano posato la cascia aperta. Si taliò. Non aviva l’aspetto di un morto. Ma di subito si faciva persuaso che il catafero dintra alla cascia era il sò.
«Avete avvertito Livia?».
«Sì» diciva Mimì Augello, avvicinannoglisi.
Po’ l’abbrazzava forti e gli faciva, chiangenno: «Condoglianze vivissime».
E ’na speci di coro arripitiva:
«Condoglianze vivissime». Il coro era formato da Bonetti-Alderighi, dal sò capo di gabinetto, il dottor Lattes, da Jacomuzzi, dal preside Burgio, e da dù beccamorti.
«Grazie» diciva.
A questo punto si faciva avanti il dottor Pasquano.
«Come sono morto?» gli spiava.
Pasquano s’incazzava.
«Macari da morto mi deve scassare i cabasisi? Aspetti i risultati dell’autopsia!».
«Ma non mi può anticipare niente?».
«Parrebbe un colpo apoplettico fulminante, ma ci sono alcuni elementi che non mi persua...».
«Eh, no!» ’nterviniva il questore. «Il dottor Montalbano non può indagare sulla sua stessa morte!».
«Perché?».
«Non sarebbe corretto. Troppo coinvolto personalmente. E poi una cosa così non è prevista dal regolamento. Mi dispiace. L’indagine è affidata al nuovo capo della mobile!».
A questo punto gli viniva un pinsero e chiamava sparte a Mimì.
«Livia quanno arriva?».
Mimì pariva a disagio.
«Disse che...».
«Beh?».
Mimì si taliava la punta delle scarpi.
«Ha detto che non sa».
«Non sa che cosa?».
«Se fa a tempo a venire per il funerale».
Nisciva arraggiato dalla càmmara, annava in cortili, indove c’erano ’na quantità di corone mortuarie e il carro funebre pronto, tirava fora il cellulare.
«Pronto, Livia? Salvo sono».
«Ciao, come stai? Ah, scusa, non volevo...».
«Cos’è ’sta storia che non sai se fai a tempo a...».
«Salvo, senti. Se tu fossi vissuto, io avrei cercato in tutti i modi di continuare a stare con te. Forse ti avrei anche sposato. D’altra parte, alla mia età e dopo aver perso la vita dietro di te, che altro avrei potuto fare? Ma dato che mi si presenta all’improvviso quest’occasione unica, tu capisci bene che...».
Astutava il cellulare e tornava dintra. Attrovava che avivano già mittuto il coperchio alla cascia e che il corteo principiava a cataminarisi.
«Lei viene?» gli spiava Bonetti-Alderighi.
«Beh, sì» arrispunniva. Ma appena arrivati nel cortile, uno dei portatori cadiva e la cascia annava a sbattiri ’n terra con un botto che l’arrisbigliò.
(Incipit pubblicato da La Stampa e
Giornale di Sicilia, 23.10.2008)
Laura gli era piaciuta assà a prima vista, aviva riprovato con emozioni, squasi con commozioni, qualichi cosa che gli era capitata sulo negli anni della picciottanza.
Ma questa non doviva essiri ’na cosa successa sulo a lui. Probabilmenti succidiva a ’na gran quantità d’òmini che avivano da un pezzo passata la cinquantina. Che era? Era un dispirato, e inutili, tentativo di risintirisi picciotto, come se quel sentimento potissi scancillari gli anni.
Ed era proprio questo che confonniva le acque, pirchì uno non arrinisciva cchiù a distinguiri se questo sentimento era vero, autentico o se era fàvuso, artificiali, pirchì nasciva appunto dall’illusioni di potiri tornari narrè nel tempo. Non gli era capitata la stissa ’ntifica cosa con la cavallerizza? Lui, con Laura, non aviva avuto modo di chiaririsi le idee. Si stava lassanno trascinari passivamenti dalla correnti che lui stisso aviva creata quanno era successo l’imprevedibile.
E cioè che Laura gli aviva ditto che provava per lui la stissa attrazioni. E come aviva reagito?
Si era a un tempo sintuto scantato e filici.
Filici pirchì la picciotta l’amava o pirchì era arrinisciuto, alla sò età, a fari ’nnamurari ’na picciotta?
C’era ’na gran bella differenza tra le dù cose.
Ed essiri scantato per le conseguenzie, non viniva a significari che l’intensità di quel sentimento era accussì vascia da permettergli ancora di raggiuinari?
In amuri, la ragione o si dimette o va in aspettativa. Se può ancora esistiri, essiri presenti, obbligarti a considerare i lati negativi del rapporto, veni a significari che non si tratta di vero amuri.
O forsi le cose non stavano precisamenti accussì.
Forsi lo scanto gli era nasciuto dalla pricisa sinsazioni che aviva provato alle paroli di Laura: di non essiri cioè all’altizza della situazioni. Di non aviri cchiù la forza di reggiri alla violenza di un sentimento autentico.
E quest’ultima considerazioni, forsi la cchiù giusta di tutte, gli fici nasciri un sospetto.
Quanno aviva pinsato di servirsi di lei per mettiri Mimì in contatto con la propietaria dello yacht, non aviva per caso avuto un’altra, inconfessabbili, ’ntinzioni?
Te la senti di dirla chiaramenti, Montalbà?
Non lo sapivi che facenno accanosciri Laura a Mimì tutta la facenna rischiava di pigliari un’altra piega? Non l’avivi calcolato? Opuro, ma cerca di essiri sincero, l’avevi calcolato alla perfezioni? Non avivi la sigreta spiranza che Laura finissi nel letto di Mimì? Non gliel’hai praticamente passata di mano?
A quest’ultima dimanna non seppi dari nisciuna risposta.
Stetti ancora ’na mezzorata corcato, po’ si susì.
Siccome che non mi sendo tanta bona pirchì aio malo di testa non ci pozzo cucinari e mini tonno a la casa mi ascusasse adelina. No, non avrebbi potuto passari quella nuttata speciali a stomaco vacante.
Non sarebbi arrinisciuto a chiuiri occhio. L’unica era rimittirisi in machina e annare a mangiare da Enzo.
«Adelina stasira ci fici tradimento?» gli spiò Enzo vidennolo trasire.
«Non stava beni e non ha potuto priparari. Tu che mi dai?».
«Quello che voli vossia».
Accomenzò con un antipasto di mari. Siccome i nonnati fritti erano veramenti croccanti, sinni fici portari un altro piatteddro a parti. Continuò con un abbunnanti piatto di spachetti al nìvuro di siccia. Concludì con ’na doppia porzioni di triglie e aiole.
Quanno niscì, si fici pirsuaso dell’assoluta nicissità di ’na passiata notturna fino a sutta al faro. Non fici il giro largo per vidiri il cruiser e lo yacht. Il molo era diserto. Ci stavano attraccati dù papori ma erano completamenti allo scuro. Si fici la strata a lento, un pedi leva e l’altro metti.
Era ’na sirata in paci con se stissa. Il mari respirava adascio.
S’assittò supra allo scoglio chiatto, s’addrumò ’na sicaretta.
E concludì amaramenti che se come sbirro era chiuttosto bravo, come omo era ’na mezza quasetta.
Pirchì mentri che s’avvicinava al faro, non aviva fatto altro che pinsari a Laura e come lui aviva reagito alla notizia che non era potuta annare in casa di Mimì. La sò contintizza era finuta di colpo a scascione di un pinsero che gli era vinuto a tradimento: ma tu, Montalbà, che considerazioni hai di quella picciotta? Eri accussì sicuro che lei, la stissa pirsona che il jorno avanti non aviva voluto ristari sula con tia scantata dal sentimento che stava accomenzanno a provari, il jorno appresso sarebbi infallibilmenti caduta tra le vrazza di Mimì! E ti stavi dispiranno!
Ma come facivi a esserne accussì certo? Di sicuro non ti autorizzava l’onesto, leali, comportamento di Laura con tia.
E allura? E allura questa tò convinzioni non nasciva forsi da un tò pregiudizio non sulo verso Laura, ma verso la natura stissa di tutte le fìmmine?
E cioè che in funno basta picca e nenti per convincerle a diri di sì? Non è questo quello che pensi di loro dintra di tia? E non è ’na minchiata sullenne di uno che non accanosce per nenti le fìmmine? Vuoi farne la prova? Conta a Laura che avevi pinsato che sarebbi finuta a letto con Mimì e vedi come reagisce. Come minimo, pigliannoti a pagnittuna ed esigenno le tò scuse.
«Laura, t’addimanno pirdono» disse ad alta voci.
E pigliò l’impegno con se stisso che all’indomani matina le avrebbi tilefonato.
(Brano pubblicato da Il Messaggero, 23.10.2008)