Un romanzo ironico e irriverente che ha l’andamento di un giallo, basato su un avvenimento storico reale.
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«I lettori non sanno che in Palizzolo, tra alcuni preti degenerati, indegni del ministero sacerdotale e del nome di uomini, esiste una setta, detta per irrisione angelica. Questi settari, abusando del Sacramento della Confessione, inducono alcune penitenti ad atti ignominiosi… Questa setta è circondata dal massimo mistero, i preti-settari fanno le viste di persone di orazione e le beghine sono le più assidue alle lunghe (troppo lunghe) pratiche di pietà in chiesa. Il fatto che questi preti siano stati deferiti all’Autorità giudiziaria per corruzione di minorenni ha svelato la turpissima setta di Palizzolo e ha fatto conoscere il suo segreto statuto» (Don Luigi Sturzo, Il Sole del Mezzogiorno, 15 luglio 1901).
Uno scandalo nella Sicilia del 1901. L’avvocato Matteo Teresi scopre che nel suo paese esiste una setta segretissima. Composta da preti e da alcuni notabili, la «setta degli angeli» organizzava esercizi spirituali per vergini devote o giovani donne in procinto di maritarsi per prepararle alla vita coniugale. Gli esercizi, che si svolgevano in sacrestia nelle ore in cui le chiese erano chiuse ai fedeli, dovevano portare le ragazze «alla comunicazione con la grazia divina e all’elevazione a gradi sublimi di perfezione». In realtà, com’è facile intuire, gli esercizi consistevano in «atti ignominiosi» e «contro natura» ai quali le giovani venivano indotte dai preti e dai pochissimi eletti che però agivano incappucciati. Scoppiato lo scandalo a livello nazionale grazie a Teresi, proprio per lui cominciano i guai.
Camilleri imbastisce su una traccia storica la trama del romanzo - protagonista l’avvocato-giornalista Teresi - che ha l’andamento di un giallo, illuminato dalla consueta ironia dello scrittore e da un sarcasmo irriverente. Circoli di nobili, salotti di paese, sacrestie, tribunali, sono il teatro in cui si muovono preti e benpensanti, moralisti e dame di carità, personaggi di una commedia amara imbastita su un canovaccio di prepotenza e di ingiustizia in cui si conferma il «vecchio vizio italiano: quello di trasformare il denunziante in denunziato, l’innocente in colpevole, il giudice in reo».
Tutto d’invenzione è il rustico paesotto: il paesaggio remoto, le otto chiese (sette per gli abbienti, una per i contadini), il Circolo litigioso e scalmanato, nel quale i soci di surreale e sgarbata scimunitaggine siedono male sui propri glutei come in una stampa di Hogarth; le scivolose segretezze, le vacanterie escandescenti di angusti e scaduti puntigli, le aggressioni sbagliate fatte in nome dell’onore, la foia atroce di un brigante dal nome biblico, l’astio e le divisioni tra bassa aristocrazia di campagna, professionisti borghesi, massari, campieri, nullatenenti. Assolutamente vera è invece la faccenda, testimoniata da Filippo Turati e da Don Luigi Sturzo. E personaggio storico è il protagonista Matteo Teresi, avvocato dei poveri e dei deboli; e giornalista, che la sua animosa attività di denuncia nutre di socialismo umanitario.
Un fremito, un rimbombo, un intollerabile fracasso investe il villaggio. Si teme un’epidemia di colera. Corre l’anno 1901. Per un susseguirsi sbrigliato di equivoci, si crede al contagio. A un’invasione del Maligno. Nelle chiese, divenute eccezionalmente democratiche, si raccolgono e si mescolano le classi sociali. I preti, tutti, tranne quello della parrocchia dei poveri, svampano dai pulpiti sulle teste dei fedeli spauriti. Colgono l’occasione e infamano Teresi. Lo accusano di essere un sovversivo: in lega con il diavolo, nelle sue battaglie laiche. Viene indetta una crociata d’espiazione contro «il diavolo sotto forma dell’avvocato», che attenta all’ordine sociale e all’unità sacra delle famiglie per dar luogo a una nuova Sodoma e a un’altra Gomorra.
Teresi viene spalleggiato da un integerrimo capitano piemontese. Porta avanti il consueto lavoro di giornalista. Tra intimidazioni varie, e sostenendosi con il Don Chisciotte che tiene sempre sul comodino, conduce un’azzardata inchiesta. E sul suo giornale denuncia la vera epidemia: l’impostura grande e invasiva di una «setta» di preti che, con un’unica orgia, riescono a mettere incinte più vergini minorenni, e una vedova; e convincono le innocenti malcapitate che l’evento è (come nelle quattrocentesche novelle del sulfureo Masuccio Salernitano) di specie celeste, dovuto alla discesa e alla liquefazione del Creator Spiritus. La scena gira attorno a Teresi. Si capovolge. Si abbatte sulla verità. Interviene il grilletto di un mafioso. Trionfa il solidarismo ipocrita. La cronaca di Camilleri, il suo realismo grottesco e sgomento, la sua scrittura urticante, è qui in costante trattativa con la letteratura: dalle cronache novellistiche, che seguono al Decameron, ai romanzi di Sciascia.
Salvatore Silvano Nigro
Capitolo primo
La questione delle palline
«Se i signori soci vogliono prestare un momento d’attenzione» fici don Liborio Spartà, presidenti del circolo «Onore & Famiglia», «vorrei aprire l’urna e procedere al conteggio delle palline».
Nel saloni, il chiacchiario tra i soci s’astutò a picca a picca fino a un relativo silenzio. Relativo pirchì don Anselmo Buttafava si era come al solito addrummisciuto supra alla pultruna addamascata nella quali s’assittava da trent’anni e passa e runfuliava accussì forti che i vitra del balcuni che aviva davanti trimoliavano a leggio. Macari quanno, ’na decina d’anni avanti, avivano cangiato tutto il mobilio del circolo, quella pultruna avivano dovuto lassarla a esclusivo uso e consumo di don Anselmo, non c’era stato verso.
«Ma che è ’sto feto d’abbrusciato?» spiò a voci àvuta il commendatore Padalino quanno il presidenti aviva finuto allura allura di raprire l’urna.
«Lo senti macari lei?» spiò a sua vota il colonnello in pinsioni Petrosillo al commendatore.
«Macari io!» fici il profissori Malatesta.
«Fettivamenti, ’u feto c’è!» convennero in molti.
Mentre tutti arrizzavano le nasche e voltavano le teste a dritta e a manca per accapire da indove viniva il feto d’abbrusciato, don Serafino Labianca fici ’na vociata:
«Don Anselmo fumo fa!».
Tutti taliaro a don Anselmo Buttafava che continuava a runfuliare, la testa calata supra al petto. E vittiro infatti ’na colonnina di fumo, fina fina, che si partiva dalla pultruna e si livava in alto verso il tetto, affriscato («Che manco la cappella Sistina!» era stato il giudizio del sinnaco Nicolò Calandro) dal pittori di carretti Angelino Vasalicò, gloria locali.
Il primo a capiri la scascione del finomino del fumo fu don Stapino Vassallo, forsi pirchì era il più picciotto dei prisenti ed era di bona vista, datosi che aviva sulo quarantadù anni, mentri l’età media dell’autri era torno torno alla sissantina:
«Il sicarro!» sclamò.
E currì verso la pultruna addamascata.
Il sicarro di don Anselmo Buttafava era sciddricato infatti dalla sò mano addrummisciuta ed era annato a posariglisi supra ai cazùna, esattamenti nel punto nel quali vengono di solito assistimate le vrigogne mascoline. Il foco aviva già consumato la grossa stoffa ’nglisa dei cazùna e ora stava attaccanno la lana spissa delle mutanne.
Mentri don Stapino s’apprecipitava verso il tavolino della presidenza supra al quali ci stava ’na caraffa d’acqua, il colonnello Petrosillo, omo d’azione, subitamenti acculatosi tra le gammi di don Anselmo, con la mano mancina affirrò il sicarro ghittannolo ’n terra e con quella dritta desi ’na gran manata supra alla parti minazzata dal foco.
Don Anselmo Buttafava, arrisbigliato di colpo dalla botta supra ai cabasisi e videnno al colonnello ’n mezzo alle sò gammi, equivocò. Da tempo ’n paìsi currivano voci maligne circa la troppa cunfidenza che Amasio Petrosillo, il quali mai si era maritato, dava a Ciccino, figlio vintino del sò camperi. ’Stintivamenti perciò don Anselmo, dato un forti ammuttuni ’n facci al colonnello che cadì narrè, si susì e currì verso il tavolo della presidenza facenno voci come un pazzo:
«L’aviva sempri saputo io che Petrosillo era un grannissimo diginerato! Fora da questo circolo!».
Il presidenti Spartà circò di chiariri:
«Don Anselmo, errori c’è! Guardi che il colonnello… ».
Ma don Anselmo, al quali abbastava picca e nenti pirchì addrumasse come un surfareddro, oramà si era arraggiato forti e non stava a sintiri a nisciuno.
«O fora lui o fora io!».
«Ma don Anselmo, se mi vuole ascoltare un momento… ».
«Allura minni vaio io!».
Detti ’na gran manata all’urna che, essenno stata aperta, cadì ’n terra facenno arrutuliari fora le palline e, santianno come un turco, sinni annò a chiuirisi nel retrè.
Tra ’na cosa e l’autra, il colonnello che sbraitava e pirdiva sangue, dato che l’ammuttuni gli aviva scugnato il naso, il presidenti che voliva presentari immediate dimissioni, il segretario che annava coglienno le palline d’in terra, un principio d’azzuffatina tra chi dava raggiuni a don Anselmo e chi gli dava torto, doppo ’na mezzorata abbunnanti la calma finalmenti tornò.
«Bisogna rifare la votazione. I signori soci devono votare per l’ammissione al circolo dell’avvocato Matteo Teresi. Pallina nera significa no, pallina bianca significa sì. I soci presenti sono ventinove, dato che il barone Lo Mascolo ha mandato a dire che non poteva intervenire, che lo stesso ha fatto il dottor Bellanca e che don Anselmo Buttafava è…».
«… è prisenti. Epperciò i votanti sono trenta» fici don Anselmo comparenno da ’na porta secunnaria del saloni.
Il colonnello Petrosillo, che si tiniva ancora un fazzoletto vagnato sul naso, si susì e disse:
«Mando a Lola».
Tutti s’azzittero, ’mparpagliati, spiannosi chi era ’sta Lola e indove e pirchì la voliva mannare il colonnello. L’unico a capiri la situazioni fu, al solito, don Stapino Vassallo.
«Colonnello, per favore, scosti il fazzoletto e ripeta».
Il colonnello bidì.
«Domando la parola».
«Parli pure» concesse il presidenti.
«Intendo pubblicamente dichiarare che don Anselmo Buttafava deve ritenersi da me schiaffeggiato e quindi sfidato a duello. Pertanto designo quali miei padrini… ».
«Vogliamo parlarne dopo?» spiò il presidenti.
«Vabbeni» fici il colonnello.
Votaro.
E dall’urna vinniro fora vintinovi palline nìvure che assignificavano vintinovi no e ’na pallina bianca che assignificava un sì. Non c’era ’nanimità epperciò abbisognava che la facenna fosse novamenti discussa e po’ rivotata, in quanto ogni decisioni che arriguardava un novo socio annava pigliata alla ’nanimità.
Don Liborio Spartà addecise d’interviniri.
«Signori soci, essenno duminica, tra mizzora ci sunno le misse di mezzojorno. E tutti ci dobbiamo annare. Propongo perciò una deroga al regolamento che abbrevia la procedura. Siete d’accordo?».
«Sì, sì» ficiro parecchie voci.
«Signori, com’è noto, ogni candidatura di un nuovo socio dev’essere per statuto presentata da due soci del circolo con oltre cinque anni d’appartenenza. Nel caso specifico, i presentatori dell’avvocato Matteo Teresi sono stati il barone Lo Mascolo, assente, e il qui presente marchese don Filadelfo Cammarata. Chiaramente la pallina bianca non può essere stata messa nell’urna che dal signor marchese Cammarata al quale io cortesemente chiedo…».
«Chiaramente ’na minchia!» fici il marchisi arraggiato.
Era un cinquantino sicco come un chiovo, maritato e patre di otto figlie fìmmine tutte brave picciotte chiesastre, sempri agitato, sempri ’n discussioni con chiunque e dalla parolazza facili. Macari quann’era sulo lo si vidiva gesticolare animatamenti: stava discutenno con se stisso.
«Signor marchese, la logica mi porta…».
«Io minni sbatto i cabasisi di dove la porta la logica » ribattì il marchisi susennosi addritta «io dico che ho votato, tanto la prima quanto la secunna vota, pallina nìvura!».
Tutti ’ngiarmaro.
«Ma come?! Se è stato lei a presentarlo!».
«E appresso ho cangiato pinioni, vabbeni? Uno non è libero di cangiare pinioni?».
«Lo so io perché lei ha cambiato opinione!» fici con un sorriseddro allusivo don Serafino Labianca che s’attrovava nella parti opposta del saloni.
Era cosa cognita che i dù non si facivano sangue. Libbirali e massonico don Serafino, papalino e chiesastro il marchisi, erano addivisi macari da ’na causa per il posesso di un àrbolo di cirase che durava da vint’anni.
Di colpo, la facci del marchisi, da russa che era, addivintò virdi. All’ebica non esistivano ancora i semafori, masannò la simiglianza sarebbi stata perfetta.
«Cosa intende insinuare lei, Serafino di nome e diavulo cornuto di fatto?».
«Per carità, signori!» ’mplorò il presidenti.
Don Serafino non se la pigliò.
«Io non insinuo niente. Lei ha fatto causa a padre Raccuglia sostenendo che si era impossessato di un pezzo di terra sua, preciso come lei usa fare con gli àrboli di cirase degli altri, e si è rivolto perciò all’avvocato Teresi, che i parrini se li mangerebbi arrustuti, fritti, col suco… È vero o no?».
«Vero è! E con ciò? Che minchiate va dicendo? Non è che uno, quando si rivolge a un avvocato ne deve macari abbracciare le idee politiche!».
«Mi lasci finire. L’avvocato ha accettato la causa, ma le ha domandato d’appoggiare la sua candidatura al circolo. E lei l’ha fatto».
«Non potevo esimermi d’usare una cortesia…».
«Ma quale cortesia e cortesia! L’avvocato le ha detto che se lei l’avesse appoggiato non le avrebbe fatto pagare una lira per la causa. E a lei che malgrado le ricchezze è avaro come un sciumi sicco, non le è parso vero!».
«E allora perché ho votato contro, me lo spiega?».
«Certo che glielo spiego. A causa manco principiata, padre Raccuglia si è fatto convincere, da una certa persona che lei ha messo ’n mezzo, a riconoscere d’avere torto e la causa non c’è stata. Di conseguenzia lei, che si era rivolto all’avvocato Teresi, unico ’n paìsi ad aviri la sfaccialaggini di fari causa a un parrino, gli ha votato ’mmediato le spalle. Come vede, non ho insinuato niente».
«No, lei sta insinuando che io avrei messo in mezzo a una certa persona! Per prima cosa, ne faccia il nome!».
«Ennò! Niente nomi! Finiamola! Basta! È tardi!» ficiro diverse voci.
Quel nome non annava assolutissimamente fatto. La discussioni stava piglianno ’na strata perigliosa. Il nome che non si doviva fari era quello di ’u zù Carmineddru, il capomafia del paìsi, omo di rispetto e di conseguenzia.
«Allora, signori, dopo la dichiarazione del signor marchese, sono costretto a rivolgermi all’ignoto socio che…».
«E po’ comu si spiega che dù nobili, il barone Lo Mascolo e il marchese Cammarata, si siano rivolti proprio all’avvocato Teresi che è accanosciuto come noto sobillatore?».
Aprofittanno dell’attimo di silenzio, don Serafino, sempri col solito surriseddro, era arrinisciuto a piazzare la sò dimanna che per la virità tutti si erano posti.
«Io, privo di Dio, a lei le rompo l’ossa!» sclamò il marchisi susennosi di scatto dalla seggia e apprecipitannosi verso l’avvirsario.
Non arriniscì a raggiungirlo pirchì lo firmaro in tri. Facenno scumazza dalla vucca comu a un toro ’nferocito, il marchisi abbannunò la riunioni.
«Signori, per favore, facciamo una cosa svelta. La messa è già suonata. Ora io mi rivolgo all’ignoto…».
«E del duello quando ne parliamo?» spiò il colonnello Petrosillo al quale il sangue dal naso non attagnava epperciò s’infurentiva chiossà a ogni minuto che passava.
«Doppo, doppo».
Fu ’na speci di coro.
«Allora pregherei l’ignoto socio che ha votato per l’ammissione a spiegarci…» principiò il presidenti.
«Non c’è bisogno di prigari ’na minchia» disse don Anselmo Buttafava. «Fui io a votari sì».
«E pirchì?» spiò il presidenti. «Mi pare che lei più volte in passato avesse espresso il parere che lei qua dintra all’avvocato Teresi non lo voliva vidiri manco morto».
«E ’nfatti nella prima votazioni avivo ditto di no».
«E allora perché ha cambiato idea?».
«Pirchì se in questo circolo ci sta un garruso come il colonnello Petrosillo non vedo per quale motivo non possa starici un bakuniano come all’avvocato Teresi».
«Il ragionamento fila» commentò don Serafino che quella duminica matina pariva avissi la ’ntinzioni di scassare i cabasisi all’universo criato.
Il colonnello Petrosillo si susì addritta giarno come un morto.
«Si ritenga schiaffeggiato anche lei!» fici a don Serafino.
«Io non mi ritengo niente. Se ha coraggio, venga da me e mi schiaffeggi. E dato che lei il culo ce l’avi già rotto, io le rompo la facci, come ha principiato a fare don Anselmo».
Il colonnello raprì la vucca per replicari, ma in quel priciso momento il nirbùso gli fici viniri il firticchio. Attisò che parse un palo, l’occhi gli addivintaro bianchi e cadì narrè. Ogni tanto ne pativa, d’attacchi di pilessia. Ci persiro un quarto d’ura avanti che lo ficiro arripigliare per accompagnarlo alla sò carrozza.
«Signor presidente, mi concede la parola?» spiò il notaro Giallonardo.
«Ne ha facoltà».
«Lei poco fa ci ha detto che i mallevadori dell’avvocato Teresi erano stati il marchese don Filadelfo Cammarata e il barone Lo Mascolo. È così?».
«È così».
«E allora, avendo dichiarato don Filadelfo d’avere votato per ben due volte pallina nera, questo reiterato gesto viene a inficiare sostanzialmente la precedente sua mallevadoria, direi che l’annulla totalmente. Di conseguenza, se le cose stanno così, la candidatura dell’avvocato Teresi risulterebbe avallata da una sola firma, quella del barone Lo Mascolo. Ma, statuto alla mano, un solo mallevadore non è ritenuto bastevole. Ergo, è come se l’avvocato Teresi non avesse mai presentato domanda d’ammissione».
«Minchia, che testa fina!» commentò ammirativo don Stapino Vassallo.
«Mi pare che non fa una piega» disse il presidenti. «I signori soci sono d’accordo con…».
«Sì! Sì!».
Un coro ’nanime.
«Allora la seduta è tolta» fici il presidenti.
E subito fu un fuifui, uno scappa scappa, un ammutta ammutta per nesciri fora e curriri all’ultima missa nelle rispittive chiese.
Paìsi di settimila bitanti, assistimato propio al centro di granni latifondi, nel milli e novicento e uno Palizzolo vantava dù marchisi, quattro baruni, un duca di centodù anni che non nisciva cchiù dal castello e un martiri antiborbonico, l’avvocato Ruggero Colapane, ’mpiccato sulla pubblica piazza per aviri aderito alla Repubblica partenopea.
Ma il vanto maggiore erano le otto chiese, ognuna addotata di campanile e di campane accussì potenti che quanno sonavano tutte ’nzemmula per le case era priciso ’ntifico a ’na passata di terremoto.
La nobiltà e i propietari terrieri setti di quelle otto chiese se l’erano spartute in base a ’ntipatie e simpatie, parentele accettate e parentele arrefutate, vecchi rancori, sciarriatine risalenti ai tempi di Carlo V, cause civili accomenzate all’ebica di Federico II di Svevia e continuate fino a doppo l’Unità d’Italia, odii implacabili e amori variabili.
Accussì, prisempio, nella chiesa dell’Addolorata, mai si sarebbiro attrovati allato ad ascutare la missa, celebrata dal parroco Don Angelo Marrafà, uno come a don Stapino Vassallo e uno come a don Filadelfo Cammarata.
Nel 1514 un’antinata di don Stapino, e pricisamente la giovani e beddra Attanasia, era stata maritata, sidicina, con un antinato del marchisi Cammarata, un quarantino di nome Adalgiso. Doppo dù anni di matrimonio, rato ma non consumato per impotentia coeundi dello sposo, Attanasia, che non ci la faciva cchiù a fari la sora di clausura pur essenno maritata, accomenzò a taliarisi torno torno. E talia chi ti talia, s’arritrovò prena, pare di un garzoni di staddra. Adalgiso rimannò la mogliere dai genitori accusannola d’essiri ’na buttana, Attanasia ribattì che sò marito non arrinisciva a fari la cosa datosi che ce l’aviva di ricotta. Da qui, cause, processi e liti onde per cui le dù famiglie non solo manco si salutavano cchiù ma non pirdivano occasioni per farisi mali parti.
L’ottava chiesa, quella del SS. Crocefisso, parrocu il sittantino Don Mariano Dalli Cardillo, non era praticata né dai nobili né dai propietari e manco dai burgisi. Era la chiesa dei viddrani, della povira genti, di chi campava a pani e aria.
«Amati figli» fici Don Alessio Terranova, parrocu della chiesa di San Giovanni, junto alla spiega del Vangelo. «Oggi mi trovo costretto a parlarvi di un fatto grave. Un giornalucolo che un avvocato di qua, e del quale non voglio fare il nome perché mi sporcherei la bocca, dirige e stampa a sue spese e diffonde anche nei paesi a noi vicini, è apparso stamattina con un articolo dove, oltre ai soliti, vergognosi insulti a Santa Madre Chiesa e a noi che indegnamente la rappresentiamo, si irride al sacramento del matrimonio e alla verginità delle fanciulle, si dileggia la castità, la pudicizia, la virtù femminile… Ebbene, io vi esorto, amati figli e soprattutto amate figlie, a non prestare orecchio a siffatte nefandezze con tutta evidenza ispirate dal diavolo. La verginità è il dono supremo che una giovinetta fa al suo legittimo sposo, essa è in tutto simile a un fiore che…».
Patre Raccuglia, parrocu della Chiesa Matrice, la cchiù antica del paìsi, macari lui, alla spiega del Vangelo, dissi che Palizzolo corriva un gravi piricolo, quello di finiri esattamenti come a Sodoma e a Gomorra se si diffonnivano le sacrileghe pinsate di un avvocatuzzo che amava essiri ditto l’avvocato dei poveri e che ’nveci era l’avvocato del diavulo. Quest’omo, se omo potiva dirisi uno senza Dio che disprezzava la famiglia, la religioni, la Patria e ogni cosa biniditta dal Signuri, aviva scrivuto supra al sò giornali che la virginità, il beni supremo delle picciotteddre, era sulo merci di scangio! Era ’na cosa che un mascolo, maritannosi, s’accattava con dinaro contanti! Bistemia ’nfami! La virginità era ’nveci…
Quella duminica il notaro Giallonardo, alla fine del- 20 la missa, si firmò a parlari con don Liborio Spartà davanti alla chiesa di San Cono, patrono di Palizzolo, e della quali era parrocu Don Filiberto Cusa.
«Io non capiscio ’na cosa» fici il notaro. «Pirchì l’avvocato Teresi ha fatto dimanna d’ammissione sapenno che sarebbi stata sicuramenti arrefutata?».
«Secunno mia» disse don Liborio «sinni voli fari vanto ».
«E cu ccù?».
«Con quelli che addifenni. I morti di fami, quelli che non hanno gana di travagliari, i sovversivi, i privi d’onore… Dirà: “Viditi? I nobili, i borgisi, i patruni delle terre non mi vogliono con loro. E chista è la prova provata che io sono dei vostri!”».
«Io a chist’omo non arrinescio a capire che avi ’n testa » fici pinsoso il notaro. «Ha fatto morire di crepacori a sò patre, a don Masino, che fu sempri un’ottima pirsona. Ma come? Hai studiato da farmacista e non sei contento? Nossignore, si laurea macari in legge, rinnega la sò famiglia e il ceto al quali apparteni e si mette a fari quello che fa. Quello, a forza di ’zunzuniari i morti di fame, farà scoppiari la rivoluzione a Palizzolo!».
«Per essiri piricoloso, piricoloso è» fici don Liborio.
«Forsi bisognerebbi pinsarici a tempo» concludì il notaro videnno che Don Filiberto, ’u parrocu, nisciuto dalla chiesa, stava addiriggennosi verso di loro e li salutava agitanno le vrazza in aria.
«Vi ho visto, eh!» disse Don Filiberto. «Siete arrivati tardi alla messa! Come mai?».
«Abbiamo avuto una mattinata dura al circolo» arrispunnì Don Liborio.
«E pirchì?».
«Abbiamo votato la domanda d’ammissione dell’avvocato Teresi» disse il notaro.
«E com’è finita?» spiò ’u parrocu addivintanno di colpo serio da ridanciano che era.
«Non è stata ritenuta valida».
«E meno male! Se l’aveste accettata vi avrei negato i sacramenti! La voliti sapiri ’na cosa? A Teresi, quanno more, manco il diavulo lo vorrà allo ’nfernu!».
Arridero tutti e tri.
Appena nisciuti dalla chiesa del Cori di Gesù, della quali era parrocu Don Alighiero Scurria, il commendatore Padalino e don Serafino Labianca s’addiriggero, come facivano ogni duminica matina, verso il «Gran Caffè Garibaldi» per vivirisi il solito bicchireddro di malvasia prima di ghiri a mangiari. Certo che don Serafino era libberali e massone ma siccome che si scantava che Dio esistiva veramenti, per il sì o per il no, ogni duminica non si pirdiva ’na missa.
S’assittaro a un tavolino e principiaro a parlari. E l’argomento della loro parlata non potiva essiri che Matteo Teresi.
«La domanda di socio l’ha fatta apposta per provocarci » disse il commendatore.
«È evidente» convenne don Serafino.
«Ma sarebbe un errore reagire alle sue provocazioni, non le pare?».
«Sono perfettamente d’accordo con lei».
«D’autra parte, manco si può stari a sopportari in eterno».
«La pacienza ha un limite».
«E io mi scanto che chist’omo un jorno o l’autro finirà col fari danno, danno grosso. Ne conviene?».
«E come no?».
«Lei, don Serafino, al circolo ha fatto ’na dimanna ’ntelligenti ma non ci ha dato la risposta».
«Me la scordai. Qual era?».
«Come mai dù nobili hanno appoggiato la candidatura di Teresi?».
Don Serafino arridì.
«Ma è proprio per quello che lei ha appena finito di dire! Si scantano che l’avvocato a forza di sobillare i morti di fame faccia scoppiare un casino. E loro, per ogni evenienza, vogliono tenerselo amico».
Il cammareri portò i dù bicchireddri di malvasia. Si li vippiro ’n silenzio.
«Forsi» ripigliò don Serafino «di quest’argomento, che mi pari bastevolmente urgenti, abbisognerebbi parlarne con qualichi autro nostro amico. E po’ vidirinni macari a casa mia».
«Mi pari ’na bona pinsata» fici il commendatore.
Il professori Ubaldo Malatesta, direttori delle scoli limentari, le uniche che c’erano a Palizzolo, trasì nella sagristia della chiesa della Santissima Vergine mentri ’u parrocu, Don Libertino Samonà, si stava livanno i paramenti aiutato da un picciliddro.
«Come mai oggi non è venuto a servire messa?» spiò Don Libertino.
Il professori, che era un omo timito, arrussicò per la vrigogna.
«Sono venuto a scusarmi. Ho fatto tardi al circolo e…».
«Come?! Lei viene a dirmi che il vizio del gioco l’ha distolto da…».
«No, padre, stamattina non si giocava. C’era da votare l’ammissione come socio dell’avvocato Teresi».
Patre Samonà era àvuto un metro e ottantacinco e largo un metro e ottantacinco. Puntò un dito che pariva ’na mazza contro al profissori Malatesta e spiò, con una voci da sdilluvio universali:
«E lei come si è comportato?».
«Ho vo… ho votato no».
«Se avesse votato sì, lo sappia, io non sulo non le avrei fatto cchiù sirviri la santa missa, ma l’avrei cacciata dalla chiesa a pidate ’n culu!».
(Il primo capitolo, qui riportato, è stato pubblicato sul
Giornale di Brescia del 20.10.2011)