Un marinaio tunisino colpito a morte su un peschereccio e un commerciante accoltellato nell’ascensore. Due omicidi senza nessuna apparente connessione. Fra servizi segreti, un libretto di banca, un bambino affamato e una vecchia signora immobilizzata, il commissario alle prese con la sua terza indagine.
«Mai come in questo libro Montalbano rivela se stesso, la propria infanzia, la sofferenza per la morte della madre, la resistenza a formare una famiglia con Livia, la donna che ama, forse tanto quanto ama il suo lavoro».
S.A.H.
S’arrisbigliò malamente: i linzòla, nel sudatizzo del sonno agitato per via del chilo e mezzo di sarde a beccafico che la sera avanti si era sbafàto, gli si erano strettamente arravugliate torno torno il corpo, gli parse d’essere addiventato una mummia. Si susì, andò in cucina, raprì il frigorifero, si scolò mezza bottiglia d’acqua aggilàta. Mentre beveva, taliò fòra dalla finestra spalancata. La luce dell’alba prometteva giornata bona, il mare una tavola, il cielo chiaro senza nuvole. Montalbano, soggetto com’era al tempo che faceva, si sentì rassicurato circa l’umore che avrebbe avuto nelle ore a venire. Era ancora troppo presto, si ricurcò, si predispose ad altre due ore di dormitina tirandosi il linzòlo sopra la testa. Pensò, come sempre faceva prima d’addormentarsi, a Livia nel suo letto di Boccadasse, Genova: era una prisenza propiziatrice a ogni viaggio, lungo o breve che fosse, in «the country sleep», come faceva una poesia di Dylan Thomas che gli era piaciuta assà.
Il viaggio era appena principiato che venne subito interrotto dallo squillo del telefono. Gli parse che quel suono gli trasisse, come una virrìna, dentro un orecchio per nèsciri dall’altro, trapanandogli il cervello.
«Pronto!».
«Con chi è che io sto parlando?».
«Dimmi prima chi sei».
«Catarella sono».
«Che c’è?».
«Mi scusasse, ma non avevo arraccanosciuta la voce sua di lei, dottori. Capace che lei stava dormendo».
«Capace di sì, alle cinco di matina! Mi vuoi dire che c’è senza stare ulteriormente a scassarmi la minchia?».
«Ci fu un morto accìso a Mazàra del Vallo».
«E che me ne fotte a me? Io a Vigàta sto».
«Ma guardi, dottori, che il morto...».
Riagganciò, staccò la spina. Prima di chiudere gli occhi si disse che forse era stato il suo amico Valente, vicequestore di Mazàra, a cercarlo. Gli avrebbe telefonato più tardi, dal suo ufficio.
Leggendo Montalbano riconobbi il genio di Camilleri
Natale 1997, a Mosè, Agrigento. «Tieni!», mamma mi porgeva un libro impacchettato nella carta dell'anno precedente stirata a perfezione, come il nastro di raso. «È bellissimo, ti piacerà, come gli altri ».
Il ladro di merendine era il terzo libro di Andrea Camilleri che lei mi regalava, dopo
La bolla di componenda, gioiello di garbo e ironia, e Il birraio di Preston, romanzo corposo scritto con sapiente leggerezza.
Il ladro di merendine mi confermò che Camilleri era un gigante della letteratura italiana, un pari di Pirandello e Sciascia, anche loro originari della provincia di Agrigento. Con quelli condivide l'ampia cultura letteraria, il rigore intellettuale e l'amore per la propria terra. Se ne differenzia in due aspetti: la presenza del dialetto siciliano nella sua scrittura e l'assenza del pessimismo che prevale nel pensiero e nelle opere sia di Sciascia che di Pirandello.
L'atteggiamento verso la vita di Camilleri, la sua onestà intellettuale e autenticità personale, la denuncia dei mali del paese, la voglia di godere e di condividere i piaceri della vita con il lettore, l'ironia, la generosità di se stesso, e la profonda sensibilità verso i deboli e gli svantaggiati che permea tutta la sua opera, gli hanno garantito l'indiscusso affetto di milioni di lettori in Italia e nel mondo, e lo rendono ulteriormente diverso da tutti gli altri scrittori italiani viventi.
L'uso del dialetto, introdotto come parte integrante della scrittura in una commistione minuziosamente "pensata" e superlativamente gestita, ha incontrato il gusto dei lettori di tutta Italia, ma non quello dei letterati, almeno agli inizi. Pirandello, che frequentò l'università in Germania, usava un italiano forbito e, in minima parte, scrisse in dialetto: di lui in siciliano ho letto soltanto il romanzo
Liolà e con una certa difficoltà. Sciascia, contemporaneo di Camilleri, ha uno dei periodi più belli e limpidi della lingua italiana e non credo abbia scritto, se non occasionalmente, in siciliano.
In una intervista del 1998 Camilleri parla dell'uso di parole siciliane nel linguaggio: «Io sono uno che racconta storie. Raccontarle a modo mio mi sembrava più giusto. Dopo diversi tentativi ho capito che l'unica mia voce possibile sarebbe stata quella che io parlavo in famiglia, sia pure con le differenze che ci sono tra il parlare e lo scrivere. Il tessuto base era quello del parlato familiare, un intreccio di dialetto e lingua italiana». E spiega ulteriormente: «I grandi parlavano un misto di italiano e siciliano molto bello. Come si è sempre parlato nelle famiglie. In gran parte della borghesia siciliana si parlava un italiano sicilianizzato che a un certo punto è stato proibito ai bambini. Questa proibizione di parlare il dialetto non è stata soltanto in Sicilia ma in tutta l'Italia ». Chiaramente fa riferimento al fascismo ma non soltanto: dopo l'Unità d'Italia la straordinaria fioritura di scrittori siciliani che scrivevano in italiano può avere influenzato la decadenza del siciliano.
Camilleri rimpiange il fatto che i dialetti sono parlati sempre di meno in tutta l'Italia. «Io penso che la perdita dei dialetti... abbia impoverito l'italiano parlato, già peraltro stremato dal bombardamento omologante della televisione ». E va oltre, parla di imbarbarimento linguistico: «Questa mancanza di struttura dialettale ha talmente impoverito la nostra lingua da ridurla in balia di qualsivoglia lingua straniera. Senza arrivare all'autarchia della lingua voluta dal fascismo, perché mai "killer" invece di "sicario", e "okay" quando esiste "va bene"?».
Sono d'accordo con lui. I figli palermitani dei miei parenti ed amici non parlano correntemente il siciliano; nel loro linguaggio usano termini inglesi o stranieri, con quelli dialettali in diminuzione. I miei figli siculo-inglesi, nati a Londra dove hanno frequentato scuola e università, sono bilingue, ma, a differenza dei parenti palermitani, parlano una mescolanza tra dialetto e lingua italiana, che ho insegnato loro di proposito, non per motivi ideologici o di ricchezza di linguaggio, ma per necessità. Mio padre non conosceva l'inglese e parlava di preferenza in siciliano; dal momento che i bambini trascorrevano tre mesi l'anno in Sicilia, dovevano parlare un misto di italiano e siciliano. «Moviti!», che nel dialetto agrigentino significa «fermati!», «Accura!», «Talè...», una variante dell'ubiquitario verbo
taliari denso di sarcasmo e con un pizzico di disapprovazione, sono rimasti elementi della lingua parlata tra me e i miei figli, a parte l'inglese.
Io scrivo come parlo nelle lingue che uso nel lavoro di avvocato (l'inglese) e in quello di romanziera (l'italiano); adopero parole siciliane quando capita, o quando suonano meglio o sono più efficaci di quelle italiane. Mai di proposito. Mi sembra che le parole siciliane di Camilleri siano il risultato di un accurato lavoro di costruzione del testo e di iniziazione del lettore, un po' come facevo io con i miei bambini, e dunque ho giocato ad analizzare il linguaggio de
Il ladro di merendine sotto questo profilo, scegliendo l'incipit, la pagina finale e altre due, prese a caso.
- L'incipit del capitolo Uno consiste di circa 200 parole di cui una ventina in dialetto:
s'arrisbigliò, linzòla, sudatizzo, sbafàto, addiventato,
susì, assà, principiato, trasisse, virrìna,
raprì, scolò, aggilàta, taliò, fòra, bona,
prisenza, nèsciri.
- La terza pagina del capitolo Otto consiste di circa 300 parole di cui una decina in dialetto:
assittata, omo, fìmmina, càmmara, macari, susì.
- La prima pagina del capitolo Quindici consiste di circa cento parole di cui sette in dialetto:
assittata, taliasse, chiangìva, assittò, addrumò,
facenna, taliando.
- L'ultima pagina dell'ultimo capitolo, il Venti, consiste di circa 200 parole di cui una decina in dialetto:
taliarlo, assittò, trasì, darrè, taliò, càmmisi,
strammato.
Camilleri lascia poco al caso; il controllo sul lettore inizia dalla prima pagina e continua fino alla fine del romanzo. Nell'incipit ha bombardato il lettore con una dose potente di siciliano per dargli il gusto dell'esperienza che sta per iniziare, costringerlo a voler andare avanti con la lettura e renderlo partecipe.
Il siculo-italiano di Camilleri rende la saggezza del popolo, infonde brio e distacca la prosa da quella piatta ed inerte dei gialli; con l'avanzare del racconto si attenua: il lettore è prigioniero. Ho chiesto ad alcuni italiani che vivono a Londra di leggere l'incipit. Nessuno di loro ha deciso di abbandonare la lettura. Alcuni hanno capito il significato della maggior parte del testo e volevano continuare la lettura. Molti — la maggioranza — hanno dichiarato di "sentire" quello che l'autore vuole trasmettere.
Milioni di lettori si fidano del patto implicito: pagina dopo pagina, il significato delle parole dialettali diventerà più chiaro o sarà assorbito attraverso la lettura quasi per osmosi. E Camilleri mantiene la propria parola. Sempre.
Le storie di Montalbano, come lui spiega, «non nascono come romanzi polizieschi ma bensì si articolano come romanzi polizieschi». Camilleri è uno scrittore di romanzi, e non di gialli.
Il ladro di merendine è definitivamente un romanzo, il romanzo di Salvo Montalbano, personaggio a tutto tondo, goloso, irascibile, malinconico, ironico, sensuale, generoso. «Montalbano è all'80 per cento quello che sono io - ha detto Camilleri - sospeso nel tempo. In una realtà estranea. E cerco di ancorarmi solidamente». Mai come in questo libro Montalbano rivela se stesso: la propria infanzia, la sofferenza per la morte della madre, la resistenza a formare una famiglia con Livia, la donna che ama, forse tanto quanto ama il suo lavoro. Forse... Camilleri dice: «La storia deve essere un fatto fondamentale, io però privilegio più i personaggi. La storia è solo un evento scatenante di reazione dei personaggi stessi, un altro fatto. Tutti sospesi nel tempo e in una realtà estranea».
Camilleri descrive con esattezza storica e in profondità la sofferente società siciliana, a cui non nega la speranza di un futuro migliore. «L'unità d'Italia è una ferita non chiusa... Credo che siano stati commessi nei riguardi del Sud una tale gigantesca quantità di errori che ce la portiamo appresso. È una cosa che non riesco a mandar giù ma che non ha niente a che vedere con idiozie come la secessione...», disse in una intervista nel giugno 1998, e dichiarò di sentirsi «uno scrittore italiano con radici siciliane».
«Tanto dolore viene attutito con l'ironia, è essenziale ai siciliani», dice Camilleri, «altrimenti si viene sopraffatti da una realtà francamente inaccettabile».
«S'arrisbigliò malamente: i linzòla, nel sudatizzo del sonno agitato per via del chilo e mezzo di sarde a beccafico che la sera avanti si era sbafàto, gli si erano strettamente
arravugliate torno torno il corpo...». (...)
Simonetta Agnello Hornby
(I brani sopra riportati sono stati pubblicati su
La Repubblica (ed. di Palermo) del 7.5.2014)
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