Prima di morire i gabbiani agitano freneticamente le ali in una sorta di danza macabra. Montalbano
si lascia incantare dal gabbiano morente dalla finestra della sua casa di Marinella, ma fa presto a dimenticarlo.
Sta infatti per andare in vacanza con Livia che è già giunta a Vigàta. Solo un salto al commissariato per
lasciare tutto in ordine e poi finalmente partire. Giunto in ufficio Montalbano chiama i suoi a raccolta. Manca
solo Fazio, il più fedele e puntuale dei suoi uomini. Non è tornato a casa, il cellulare è muto; il timore diventa
allarme. Il commissario ripercorre le più recenti tracce di Fazio: è stato visto per l'ultima volta al molo. aveva
appuntamento con un vecchio compagno di scuola, un ex ballerino finito nei pasticci. Qualcuno poi l'ha notato
in campagna, in una zona disseminata di pozzi artesiani, forse un cimitero di mafia. E in effetti un primo
cadavere affiora...
Un giallo tutto d’azione, con un Montalbano turbato per la sorte di uno dei suoi, e in corsa contro il tempo. E Livia? Anche il lettore, come Montalbano, sembra essersene dimenticato, ma non è certo uscita di scena...
«Il romanzo
inizia con la scomparsa, nientemeno, che del suo fido ispettore Fazio, che metterà il povero commissario in un gioco
dannato. E poiché è avanzato con gli anni, si lamenta ed è stanco di lavorare, ma non potrà sfuggire al suo destino. Nemmeno
a quello in cui lo induce l'ennesima donna tentatrice. Finché ce la fa».
(Andrea Camilleri, da un'intervista a Gente in edicola il 4.5.2009)
Una bianca fiammata si accende sulla spiaggia di primo mattino. Divampa il battibatti disperato, il frullo convulso di un gabbiano che, strepitando a vuoto, e con torsioni dolorose, di sotto in su si avvita attorno al becco disperatamente puntato sul cielo; e mette in danza, solitaria e terrificante, gli squassi e gli spasimi arrantolati della propria morte. È una prefigurazione sinistra, questa, dell’intonazione lugubre e del ritmo giroscopico del romanzo: che fa perno sulla misteriosa scomparsa dal commissariato di Vigàta dell’ispettore Fazio; su cadaveri restituiti dai vortici ciechi di pozzi trivellati in terre aspre e desolate; su esistenze nascoste e ambigue, passioni tristi, seduzioni basse e chiacchiere da cuscino; su binocoli e cannocchiali, voyeurismi pericolosi e cleptomanie gaglioffe; su un traffico di armi chimiche con contorno di canaglie politiche; e su una sedia vuota, in una chiusa stanza, tra impropri e vergognosi strumenti di tortura, schizzi di sangue rappresi, tanfi di morte e torbidumi, e segni sparsi di una danza di costrizione, irrituale e atrocemente scomposta. L’orrore si riverbera sulla coscienza offesa del commissario Montalbano. Intride la trama del romanzo. E mentre Montalbano ricolloca le tante tessere di una scompaginata storia criminale, non può sottrarsi alla sensazione che tutto si avvolga in calce allo sconcerto suscitatogli dalla sarabanda di un gabbiano in agonia: nessuno fa caso all’allarme di un gabbiano che all’improvviso stramazza, all’avvilimento di uccelli marini che disertano le battigie per contendere ai topi le discariche, al mare che perde i suoi aromi pur sotto un cielo che sa ancora recensire stupendi notturni leopardiani. La storia è dura. Ma l’indagine è sottilmente umoristica. Montalbano contrasta le false evidenze con le sue false negligenze; inscena teatri, e mette in campo furfanterie e giochi d’astuzia. Lo aiutano anche le smarronate di Catarella, le insubordinazioni, le inadempienze burocratiche; e persino una passione amorosa, un po’ recitata e un po’ malinconicamente sofferta. Con Livia, il commissario abita tempi che non si toccano. Gli orologi molli sono i suoi nemici. O sono forse gli alibi che gli servono. Montalbano è come un personaggio di Cervantes. Deve tener testa all’attore Zingaretti, che lo interpreta e gli fa concorrenza in una fortunata serie televisiva. Deve badare al patronaggio dello scrittore Andrea Camilleri, che incontentabile esige da lui storie già pronte per diventare romanzi. Deve badare ai baccalari della critica, che al giallo preferiscono il rosa. Lui, Montalbano, ha cinquantasette anni. Si attribuisce qualche sfaglio. Ma sa come consolarsi.
Salvatore Silvano Nigro
Fu verso le cinco e mezza del matino che non ce la fici cchiù a ristarisinni corcato coll’occhi sbarracati a taliare il soffitto.
Era ’na cosa che gli era principiata con le vicchiaglie: di solito, passata la mezzanotti, si stinnicchiava a letto, liggiva ’na mezzorata, appena che la vista accomenzava a fargli pupi pupi chiuiva il libro, astutava le luci del commodino, pigliava la posizioni giusta, che era di corcarisi supra al scianco destro, le ghinocchia piegate, la mano dritta aperta a palmo in su supra al cuscino e la guancia appuiata alla mano, ’nsirrava l’occhi e di colpo s’addrummisciva.
Spisso per fortuna annava avanti col sonno fino a matino, capace che se lo faciva in una sula tirata, ma inveci certi nuttate, come chista appena passata, fatte sì e no un dù orate di durmuta, s’arrisbigliava senza nisciun motivo e non c’era cchiù verso d’arrinesciri a ripigliari sonno.
Una volta, junto allo stremo della disperazioni, si era susuto e sinni era ghiuto a vivirisi mezza buttiglia di whisky, nella spiranza che gli faciva calare sonno. La conseguenzia era stata che s’era appresentato in commissariato all’alba e completamenti ’mbriaco.
Si susì, annò a rapriri la porta-finestra della verandina.
La jornata che s’appresentava ’na vera billizza, tutta tirata a lucito, pariva un quatro ancora frisco di colore.
La risacca assaccava però tanticchia cchiù forte del solito.
Niscì fora ed ebbe un addrizzuni di friddo. Si era a mità majo e in altri tempi già ci sarebbi stato un cavudo squasi estivo, invece la jornata pariva ancora marzulina.
Forsi si sarebbi guastata verso la fine della matinata. A mano dritta, da monte Russello, arrancava già qualchi nuvola nìvura.
Trasì, annò in cucina e si priparò il cafè. Si vippi la prima tazza e si chiuì in bagno. Quanno niscì, vistuto, pigliò la secunna tazza di cafè e se l’anno a viviri assittato nella verandina.
«Matutino è stamattina, commissario!».
Isò ’na mano in signo di saluto.
Era il signor Puccio che ammuttava la varca in acqua, ci acchianava, principiava a remare puntanno al largo.
Da quanti anni era che gli vidiva sempre fari gli stissi movimenti? Po’ si perse a taliare il volo d’un gabbiano.
Oramà gabbiani sinni vidivano picca, va a sapiri pirchì avivano traslocato in paisi. Ma macari a Montelusa, a deci chilometri dalla costa, ci nn’erano a centinara, era come se l’aceddri si fossero stuffati del mari e sinni stissiro alla larga dalle onde. Pirchì si erano arridotti a circare il loro mangiari nella munnizza citatina invici di annari a piscarisi pisci frisco? Pirchì si erano degradati fino a dovirisi sciarriari coi surci per una testa di pisci putrefatto? Ma si erano volutamente arridotti accussì o era cangiato qualichi cosa nell’ordine della natura?
Tutto ìnzemmula il gabbiano chiuì l’ali e accomenzò a picchiare verso la spiaggia. Che aviva visto? Ma quanno arrivò a toccare col becco la pilaja invece di risollevarsi in aria con la preda, s’afflosciò addivintò un immobili mucchietto di pinni cataminate a leggio dal vinticeddro di prima matina. Forse gli avivano sparato, a malgrado che il comissario non aviva sintuto nisciun colpo di fucile. Ma chi era l’imbecille che potiva mittirisi a sparare a un gabbiano?
L’aceddro, che distava ’na trentina di passi dalla verandina, di certo era morto. Ma po’, mentri che Montalbano lo stava a taliare, ebbi come un fremito, si rizzò faticanno sulle zampe, s’inclinò tutto da un lato, raprì una sula ala, quella cchiù vicina alla rina, e si mise a firriare su se stesso, mentre la punta dell’ala gli addisignava un circolo torno torno e il becco stava isato verso il cielo in una posa innaturale che gli faciva il collo tutto storto. Ma che stava facenno, abballava? Abballava e cantava. Anzi no, non cantava, il sono che gli nisciva fora dal becco era roco, dispirato, pariva che addimannava aiuto. E ogni tanto, sempri firrianno, addrizzava il collo tendendolo in alto fino all’inverosimili e col becco ora faciva avanti e narrè, parivano un vrazzo e ’na mano che volivano posari qualichi cosa in àvuto e non ci arriniscivano.
Montalbano in un vidiri e svidiri scinnì supra la pilaja e gli arrivò a un passo. Il gabbiano manco fici ’nzinga di averlo viduto, ma subito appresso il sò firriare principiò a farisi incerto, sempre cchiù traballiante e alla fine l’aceddro, doppo un sono altissimo che parse umano, perso l’appojo dell’ala, s’accasciò di lato e morì.
«Ha abballato la so morti» pinsò il commissario, ’mpressionato da quello che aviva appena viduto.
Ma non voliva lassarlo ai cani, alle formicole. L’agguantò per le ali e se lo portò nella verandina. Anno in cucina e pigliò un sacchetto di plastica. Ci mise dintra l’aceddro e lo zavorrò con dù petre firrigne che tiniva ’n casa per billizza, si levò scarpe, pantaloni e cammisa, trasì a mare in mutanne, arrivò all’acqua al collo, fici roteare forti forti il sacchetto e lo lanciò più lontano che potè.
Torno a la casa ad asciucarisi che era ’mbarsamato dal friddo. Per quadiadirisi, si fici un’altra cafittera e si vippi il cafè bollente.
Mentre era in machina verso Punta Raisi, il pinsero gli tornò al gabbiano che aviva viduto abballari e moriri. Va a sapiri pirchì, aviva la ’mpressioni che l’aceddri erano eterni e quanno gli era capitato di vidirinni a qualcuno morto era stato sempri pigliato da ’na liggera maraviglia, come si prova davanti a qualichi cosa che non si pinsava che potissi succidiri mai. Era squasi certo che al gabbiano che aviva viduto moriri non gli avivano sparato. Squasi certo, pirchì forse l’avivano pigliato con un solo pallino che non gli aviva fatto nesciri manco ’na guccia di sangue, ma era stato bastevole ad ammazzarlo. Morivano tutti accussì, i gabbiani, facenno quella speci di balletto straziante? La scena di quella morti non se la potiva livari dalla testa.
Appena ghiunto all’aeroporto, talianno il quatro elettronico dell’arrivi, ebbe la bella e prevedibile notizia che il volo che aspittava portava un’orata e passa di ritardo.
E come ti sbagliavi? C’era ’na cosa che fusse ’na cosa che in Italia partiva o arrivava nell’orario stabilito?
I treni portavano ritardo, l’aerei macari, i traghetti ci voliva la mano di Dio a farli salpare, la posta non ne parlamo, l’autobus addirittura si pirdivano nel trafico, l’opiri pubbliche sgarravano di cinco- deci anni, ’na liggi qualisisiasi arritardava anni a essiri approvata, i processi ritardavano, persino i pogrammi televisivi accomenzavano sempri con una mezzorata di ritardo sul previsto...
Quanno principiava a raggiunari supra a ’sti cosi a Montalbano il sangue ci addivintava ’na pesta. Ma non aviva nisciuna gana d’ammostrarisi di malo umore a Livia quanno sarebbi arrivata. Abbisognava passari quell’orata sbariannosi.
Il viaggio matutino gli aviva fatto smorcare tanticchia di pititto. Cosa stramma, datosi che non faciva mai colazioni. Annò al bar che c’era ’na fila da ufficio postali il jorno di pagamento delle pinsioni. Po’ finalmenti attoccò a lui.
«Un cafè e un cornetto».
«Cornetti niente».
«Sono finiti?».
«No. Stamattina hanno tardato a portarceli, li avremo tra ’na mezzorata».
Macari i cornetti portavano ritardo!
Si vippi di malavoglia il cafè, s'accattò un giornali, s'assittò, principiò a
leggiri. Tutte chiacchiere e tabaccheri di ligno.
Il governo faciva chiacchiere, l’opposizioni faciva chiacchiere, la chiesa faciva chiacchiere, la confinnustria faciva chiacchiere, i sinnacati facivano chiacchiere, e po’ si facivano chiacchiere supra a ’na coppia ’mportanti che si era separata, supra a un fotografo che fotografava quello che non doviva, supra all’omo cchià ricco e potenti del paìsi al quali sò moglieri aviva pubblicamente scrivuto per rimproverarlo di certe paroli dette a un’altra fìmmina, si chiacchiariva e si richiacchiariava supra i muratori che cadivano come pira mature dall’impalcature, supra ai clandestini che murivano affucati in mari, supra ai pinsionati arridotti con le pezze al culo, supra ai picciliddri violentati...
Si chiacchiariava sempri e dovunque di qualsisiasi problema, ma sempri a vacante, senza che mai la chiacchira addivintasse un minimo di provvedimento, un fatto concreto...
Montalbano addecise all’istante che annava fatta ’na modifica all’articolo 1 della Costituzione: «L’Italia è una repubblica fondata sullo spaccio della droga, il ritardo sistematico e la chiacchiera a vuoto».
Ghittò ammaraggiato il giornali in un cestino, si susì, niscì dall’aeroporto, s’addrumò ’na sicaretta. E vitti i gabbiani che volanvano squasi a ripa di mari.
Subito gli ritornò a menti il gabbiano che aviva viduto abballari i moriri.
Siccome che ancora mancava ’na mezzorata all’arrivo dell’aereo, rifici a pedi la strata che aviva fatto in machina, fino a quanno arrivò a pochi metri dagli scogli. Ristò accussì, addritta, sintennosi arricriari dall’aduri d’alga e di salino, a taliare l’aceddri che s’assicutavano.
Po’ tornò narrè, l’aereo di Livia era appena attirrato. Se la vitti compariri davanti beddra e ridente. S’abbrazzaro stritti e si vasaro, era da tri misi che non stavano ’nzemmula.
«Andiamo?».
«Devo prendere la valigia».
I bagagli, com’era naturali, vennero cunsignati ai viaggiatori con un’orata di ritardo tra vociate, santioni e proteste. E meno mali che non erano annoti a finiri a Bombay o in Tanzania.
Mentre che caminavano verso Vigàta, Livia disse: «Guarda che ho prenotato per stasera stessa l’albergo a Ragusa».
Il programma che avivano fatto era quello difirriarisi in tri jorni il Val di Noto e i paìsi del barocco siciliano che Livia non acconosciva.
Ma non era stata ’na decisioni facili.
«Senti, Salvo» gli aviva ditto lei al tilefono ’na simanata avanti «che ne diresti, dato che ho quattro giorni liberi, se vengo da te e ce ne stiamo un po’ in pace?».
«Mi faresti felice».
«Avevo pensato che magari ce ne potevamo andare in giro per la Sicilia. In qualche parte che non conosco».
«Mi pare una splendida idea. Oltrettutto per ora in commissariato non ho molto da fare. Sai già dove vorresti andare?».
«Sì, in Val di Noto. Non ci sono mai stata».
Ahi! Pirchì le spirciava di annare proprio là?
«Beh, certo il Val di Noto è incredibile, figurati, ma credimi ci sono altri luoghi che...».
«No, mi piacerebbe proprio andare a Noto, dicono che la cattedrale rimessa su è una meraviglia, e poi fare un salto, che so, a Modica, Ragusa, Scicli...».
«Beh, è un bel programma, non lo metto in dubbio, ma...».
«Non sei d’accordo?».
«Beh, in linea di massima sì, come no, figurati, ma forse converrebbe prima informarsi».
«Di che?».
«Sai, non vorrei che stessero a girare».
«Ma che dici? Che girano?».
«Non vorrei che mentre ci siamo noi girassero lì qualche episodio della serie televisiva... li fanno proprio in quei posti».
«E che te ne frega, scusa?».
«Come, che me ne frega? E se putacaso mi vengo a trovare faccia a faccia con l’attore che fa me stesso... come si chiama... Zingarelli...».
«Si chiama Zingaretti, non fare finta di sbagliare. Lo Zingarelli è un dizionario. Ma torno a ripetere: che te ne frega? Possibile che tu abbia questi complessi infantili all’età che ti ritrovi?».
«Che c’entra l’età, ora?».
«Eppoi nemmeno vi somigliate».
«Questo è vero».
«Lui è assai più giovane di te».
Arrè con ’sta granni e grannissima camurria dell’età! Si era fissata, Livia!
S’arrisentì. Che ci trasivano la gioventù o la vicchiaia?
«E che minchia significa? Se è per questo, lui è totalmente calvo mentre io ho capelli da vendere!».
E accussì, per non azzuffarisi, s’era lassato persuadiri.
(L'incipit qui riportato è stato pubblicato sulle seguenti
testate:
Corriere della sera del 11.12.2007,
Il Messaggero del 28.5.2009,
La Stampa del 28.5.2009,
Il Gazzettino del 28.5.2009)