I fratelli Gregorio e Caterina Palmisano, settantini, presi da manie sacre si sono asserragliati
in casa e accolgono i poliziotti che si presentano alla loro porta a colpi di pistola. Ma non è
la sola sorpresa: la casa fa spavento per lo stato d’abbandono e per la selva di crocifissi
mentre sul letto di Gregorio viene trovata una bambola gonfiabile, lacera, quasi senza capelli
e priva di un occhio. Dopo qualche giorno un’altra bambola di gomma viene rinvenuta in un
cassonetto di Vigàta. Montalbano è un po’ perplesso, e mentre si porta le due pupe a casa
per ragionarci sopra – con l’inevitabile commedia degli equivoci che la loro presenza
genera in Adelina e Ingrid – comincia a ricevere delle strane lettere anonime. Si tratta
delle istruzioni per una caccia al tesoro: indovinelli, prove da superare, luoghi da
raggiungere. Il commissario è inquieto, qualcosa non gli quadra ma decide di stare al gioco:
risolve gli enigmi, le sciarade e l’aneddoto cifrato che lo conduce in una campagna un po’
sperduta. A risolvere i rompicapi lo aiuta Aurelio Pennisi, un giovane che gli ha presentato
Ingrid, interessato ai suoi metodi di indagine. La situazione però si fa tesa quando insieme
a una delle lettere della caccia al tesoro viene recapitata a Montalbano una testa d’agnello
sanguinante. Il commissario avverte una sensazione di disagio e capisce che dietro a quella
burla si cela qualcosa di oscuro e che non è più ora di giocare. Nel frattempo a Vigàta scompare
Ninetta Bommarito, una diciottenne che non ha mai dato problemi in famiglia, le sue tracce si
perdono in periferia su una strada che conduce a un luogo un po’ misterioso, il Lago di Dio,
mentre arriva l’ennesima lettera:
Con te mi scuso caro Montalbano
Ma il tuo aspettare vedrai non sarà invano...
I versi questa volta hanno qualcosa di laido e non c’è più tempo da perdere.
La caccia al tesoro è una storia inquietante, cruenta, con un commissario più incline alla riflessione
e che questa volta rischia davvero grosso.
Un torpore inerte ha invaso il commissariato di Vigàta: un tedio strascicato. Ammortisce pure il trallerallera di Catarella, che adesso incespica tra rebus e cruciverba. Montalbano legge un romanzo di Simenon, e distratto va sfogliando una vecchia annata della «Domenica del Corriere»: al telefono continua il dài e ridài querulo e molesto della suscettibile fidanzata, lontana sempre, lontanissima. Eppure un diversivo c’era stato. Due anziani bigotti, fratello e sorella, a furia di preterìe e giaculatorie, avevano rincappellato pazzia sopra pazzia. La loro demenza era arrivata al fanatismo delle armi. E la sceriffata santa aveva lasciato sul campo uno strumento di passioni tristi e appassite: una bambola gonfiabile, disfatta dall’uso; una di quelle pupazze maritabili che (diceva Gadda) tu le «basci, e ci piangi sopra, e speri icchè tu voi. E, fornito il bascio, te tu la disenfi e riforbisci e ripieghi e riponi, come una camiscia stirata». Un’altra bambola gemella, ugualmente disfatta, ma data per cadavere di giovane seviziata, era stata trovata poi in un cassonetto della spazzatura, in via Brancati. Sembrò una stravaganza. Non ci si fece caso più di tanto. Tornò l’assopimento, vellicato appena dalla curiosità per delle anonime ed enigmistiche lettere in versi che invitavano il commissario Montalbano a una caccia al tesoro. La posta in gioco risultava misteriosa. Richiedeva comunque un’indagine, una pista da seguire, delle tracce da decifrare. Era qualcosa, in mancanza d’altro: nell’ozio forzato, nell’assenza di un delitto. Montalbano decide allora di aggiungere gioco a gioco. Associa alla caccia, in qualità di aiutante da mettere alla prova, uno studente di filosofia, un aspirante epistemologo, un maghetto alla Harry Potter interessato a studiare la mente investigativa del commissario di Vigàta. L’ozio sbandato s’infosca, all’improvviso. Si carica di trepidazioni e di malessere. Il gioco si fa tenebroso. Sprofonda in abissi cupi e sordidi. Si stringe attorno a una demenza erotomane, a una psicopatia: a una fantocciata rorida di sangue, a un’operazione alchemica che trasmuta vero e falso. Si arriva al terrore gorgonico. Montalbano si ritrova inavvertitamente invischiato in un noir degno di Hannibal Lecter. Si era lasciato sviare, all’inizio, dall’indicazione di una strada di periferia. La via Brancati l’aveva portato al Don Giovanni in Sicilia, all’onesto libertinismo inscenato davanti a una bambola di gomma portata da Parigi. Una diversa letteratura lavorava invece la realtà, all’insaputa di Montalbano. Quest’altra strada portava alla «moglie» di pezza e stoppa decapitata dal pittore Oskar Kokoschka e buttata nella spazzatura; alla «moglie» di spessa gomma che Gogol’ uccide in un racconto di Landolfi; alle bambole perturbanti, manomesse dal sadismo, di artisti quali Hans Bellmer e Cindy Sherman.
Salvatore Silvano Nigro
Che Gregorio Palmisano e so' soro Caterina erano pirsone chiesastre fin dalla prima gioventu', era cosa cognita in tutto il pai'si. Non si pirdivano 'na funzioni matutina o sirali, 'na santa missa, un vespiro, e certi volte annavano in chiesa macari senza un pirchi', sulo che ne avivano gana. Il liggero profumo di 'ncenso che stagnava nell'aria doppo la missa e l'aduri della cira delle cannile era per i Palmisano meglio del sciauro del ragu' per uno che non mangiava da deci jorni.
Sempri agginocchiati al primo banconi, non calavano la testa nella prighera, la tinivano isata, con l'occhi bene aperti, ma non taliavano pero' ne' verso il granni crocifisso supra all'altaro maggiori ne' verso la Madonna che stava addulurata ai so' pedi, no, non staccavano manco per un attimo la taliata dal parrino, di quello che faciva, di come si cataminava, di come girava le pagine del Vangelo, di come binidiciva, di come moviva le vrazza quanno diciva domino vobisco e po' finiva con ite, missa est.
La vera virita' era che avrebbiro voluto essiri parrini tutti e du', mittirisi cotte, stole, paramenti, rapriri la porticeddra del tabernacolo, tiniri 'n mano il calice d'argento, comunicare i divoti. Tutti e du', macari Caterina.
La quali, quanno aviva ditto a so' matre Matilde cosa avrebbi voluto fari da granni, quella l'aviva risolutamente corriggiuta:
«Vuoi diri la monaca».
«No, mama', il parrino».
«Ce'! E pirchi' vuoi fari il parrino e la monaca no?» aviva spiato arridenno la signura Matilde.
«Pirchi' il parrino dice la missa e la monaca no».
E inveci erano stati obbligati ad aiutari il patre che faciva il grossista di alimentari che tiniva stipati in tri granni magazzini uno appresso all'altro.
Alla morti dei genitori, Gregorio e Caterina avivano cangiato merci, al posto di pasta, buatte di conserva di pommodoro, stoccafisso salato, si erano mittuti a vinniri cose d'antiquariato. Era Gregorio che procurava la robba firriannosi le chiesi cchiu' vecchie dei pai'si vicini e i palazzi mezzo sdirrupati di nobili un tempo ricchi e ora addivintati morti di fame. Uno dei tri magazzini era chino chino di crocifissi, a principiare da quelli da tiniri appinnuti al collo con una catenella a finiri a quelli a grannizza naturale. E c'erano macari tri o quattro croci nude, in facsimile, enormi, pesantissime, destinate a essiri portate d'incoddro a un penitenti nelle processioni della simana santa, mentri i tinti centurioni romani gli davano scuriate.
Addivintati lui sittantino e lei sissantottina, avivano svinnuto
i tri magazzini, ma una certa quantità di robba se l’erano portata
di notte nella loro casa, all’ul-timo piano di un palazzo allato
al municipio. Era ‘na casa di sei càmmare spaziose e con
un terrazzo, nel quale i dù non annavano mai, troppo granni
per un frati e ‘na soro che non si erano mai voluti maritare e
non avivano manco nipoti.
La loro fissazioni religiosa aumentò col fatto che non avivano
cchiù nenti chiffare, niscivano sulo per annare in chiesa,
affiancati, passi rapidi, testa calata, senza arrispunniri ai saluti
e po’ tornavano a ‘nserrarsi ‘n casa, le persiane sempre chiuse,
come se erano eternamente a lutto.
La spisa gliela faciva ‘na fìmmina che avivano avuto per puliziare
i magazzini, ma non le pirmittivano mai di trasire ‘n casa.
Alla matina la fìmmina trovava supra alla porta un pizzino tinuto
da ‘na puntina da disigno nel quali Caterina aviva scrivuto
quello che le abbisognava e sutta allo zerbino ci stavano
ammucciati i soldi nicissarii.
Quanno tornava, appuiava ‘n terra i sacchetti, tuppiava, e avvirtiva,
prima di ghirisinni: «La spisa!».
Non avivano televisioni e quanno facivano ancora l’antiquari,
nisciuno mai li vitti leggiri un libro o un giornali, sulo il
breviario, come fanno i parrini.
Passati ‘na decina d’anni, qualichi cosa cangiò. I Palmisano
non niscero cchiù da casa, non frequentarono cchiù la chiesa,
non s’affacciarono mai a un balcuni, manco quanno passava
la processioni del patrono del paìsi.
L’unico contatto a voci e a pizzini col mondo di fora era
quello con la fìmmina che faciva la spisa.
‘Na matina i vigàtisi si addunaro che tra il primo e il secunno
balcuni dei Palmisano era comparso un granni striscione bian -
co con supra scritto a stampatello: «PECCATORI, PENTITEVI!».
‘Na simanata appresso, tra il secunno e il terzo balcuni, ne
spuntò un altro: «PECCATORI, VI PUNIREMO!!».
La simana doppo ne comparse un terzo, questo però cummigliava
per intero la balaustra del terrazzo ed era il cchiù
granni di tutti:
«VI FAREMO PAGARE CON LA VITA I VOSTRI PECCATI!!!».
Montalbano, visto il terzo striscione, s’apprioccupò.
«Ma non mi fari ridere!» gli disse Mimì Augello. «Sono due
poveri vecchi svaniti, affetti da mania religiosa!»
«Mah!».
«Cos’è che non ti persuade?».
«I punti esclamativi. Da uno sunno addivintati tri».
«Embè?».
«Signo che hanno ‘ntiso dari delle scadenze ai peccatori. E
questo è l’ultimo avviso».
«Ma chi sarebbero poi ‘sti peccatori?».
«Tutti siamo peccatori, Mimì. Te lo sei scordato? Sai se Gregorio
Palmisano ha il porto d’armi?».
«Vado a controllare».
Tornò squasi subito, tanticchia scuruso ‘n facci.
«Ce l’ha il porto d’armi. L’ha addimannato quanno faciva
l’antiquario e gli è stato dato. Un revolver. Ma ha denunziato
macari dù fucili da caccia e ‘na pistola che erano appartinuti
a sò patre».
«Senti, domani ti fai diri da Fazio in quale chiesa annavano
e po’ vai a parlari col parroco».
«Ma quello è tenuto al segreto del confessionale!».
«E tu non gli devi spiare i segreti, gli devi sulo addimannare
a che punto di cottura secondo lui può essiri arrivata la loro
pazzia e se la ritiene pericolosa o no. Intanto io telefono al
sinnaco».
«Per fari che?».
«Voglio che mandi ‘na guardia dai Palmisano perché levino
questi striscioni».
(L'incipit qui riportato è stato pubblicato su
La Stampa del 21.5.2010 e
Mondellolido News del 5/6.2010)