«Penso che il caso sia unico nella storia giudiziaria italiana pur così pesante di capitoli sciagurati»
(Umberto Terracini)
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Raffadali, provincia di Agrigento, anni Venti del Novecento. I fratelli Sacco sono passati dalla miseria nera a una vita dignitosa di contadini con quattro salme di terra. Sono uomini liberi, di idee socialiste, hanno il senso dello Stato, si sono fatti da sé seguendo l’esempio del padre Luigi che li ha allevati nella cultura del lavoro e del rispetto degli altri e che ha costruito la sua fortuna con l’arte di innestare i pistacchi. La vita cambia quando una mattina il capofamiglia riceve una lettera anonima, poi un’altra, poi subisce un tentativo di furto. Luigi Sacco non ha esitazioni e denunzia le richieste estortive ai carabinieri, che però si trovano disorientati: nessuno in paese ha mai osato denunziare la mafia, tutti preferiscono accettare e tacere. Da quel momento i Sacco dovranno difendersi. Dalla mafia e dalle forze dell’ordine, dai paesani complici, dai traditori, dai maggiorenti del paese tra tentativi di omicidio, accuse false, testimonianze bugiarde. Osteggiati dai carabinieri che li privano del porto d’armi e non li difendono, i fratelli Sacco diventano latitanti. Fronteggiano la mafia mostrando un coraggio e una coscienza civile straordinari per quegli anni, liberando di fatto Raffadali dall’oppressione mafiosa. Poi arriva Mori, il fascismo vuole battere Cosa Nostra, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Ma perché dare la caccia ai Sacco che non solo non sono stati mai mafiosi, ma anzi ne sono vittime e proprio alla mafia hanno dichiarato guerra? Ecco allora che per giustificare la gigantesca, spietata caccia all’uomo che Mori scatena, i fratelli Sacco devono diventare una vera e propria banda: madre, sorelle, cognati, cugini, amici, ex sindaci socialisti, tutti vengono arrestati. Poi tocca ai fratelli che circondati da duecento carabinieri vengono feriti, arrestati, torturati. «La giustizia otterrà quello che vuole ottenere»; ai Sacco vengono addebitati quattro omicidi. Condannati all’ergastolo Vanni, Salvatore e Alfonso, girano tutte le carceri, e in alcune fanno degli incontri straordinari: Umberto Terracini e Antonio Gramsci, fra i tanti. Caduto il fascismo i Sacco non ottengono la revisione del processo e passeranno ancora decenni prima che, su sollecitazione di Umberto Terracini, i fratelli Sacco ottengano la grazia. Siamo nel 1962.
Di questa storia, un caso politico oltre che giudiziario, Andrea Camilleri ha consultato tutte le carte, documenti ufficiali, scritti familiari, atti del processo. E ha raccontato, «attraverso questo “western di cose nostre”, per usare un titolo di Sciascia, come la mafia non solo ammazzi, ma sia anche in grado di condizionare e di stravolgere irreparabilmente la vita delle persone».
«Ma c’era la mafia» – «Eccome, se c’era!»: a chiusura di capitolo e, a seguire, subito dopo, ad apertura di capitolo, come in una ntruccatura, in una concatenazione tra ottave siciliane. La sensazione è quella di una voce che racconta, sgraffiando le parole nell’aria e modulandole alla maniera di un cantastorie che, sul prospetto di un cartellone dipinto, va narrativizzando, riquadro dopo riquadro, la declamazione larga e sonora della vicenda. Ed è dentro questa simulazione di un genere popolare che si aggiorna il modello giudiziario della manzoniana Storia della Colonna Infame, con il suo andar contro le inchiostrature del romanzesco e porsi dietro il dorso delle cose, mescolando racconto e riflessione, dettagli e postille critiche: sempre stringendosi ai fatti, interrogando le contraddizioni dei «documenti», siano essi forniti dalle confessioni estorte con i ricatti e le violenze, dalle deposizioni dei presunti testimoni, da un memoriale, o dai risultati processuali; nella convinzione che la verità sfugge dietro l’angolo e viene affatturata dagli accusati che si fanno accusatori, dai causidici, dai metodi d’indagine talvolta barbarici, dal disporsi della giustizia da una parte e della politica dalla parte opposta.
Costante è, in questo racconto reale, il paesaggio di una Sicilia rurale: le pietraie, le fratte rocciose, i pascoli; la magia botanica dei pistacchieti con i loro fiori unisessuali, le promesse di notti arabe del sambuco che tra le foglie nasconde le cantaridi, le cantilene degli stagionali che hanno già attraversato le scene «campestri» di Pirandello. All’inizio, nel secondo Ottocento, c’è il patriarca Luigi Sacco, bracciante d’ingegno e passione. Vengono poi i discendenti, grandi lavoratori tutti, e socialisti, tra emigrazione transoceanica e chiamata alle armi nella Grande Guerra, malversazioni e canaglierie di rozzi capimafia con alle spalle pupari altolocati, che prosperano nella latitanza dello Stato e sanno come avvantaggiarsi nella tragica notte del fascismo, nonostante il pugno di ferro del prefetto Mori (e grazie ad esso, anzi) che seppe abbattersi anche sui comuni oppositori politici. I cinque fratelli Sacco conoscono la disperazione a vivere in un regime di mafia. Si danno alla latitanza. Si sentono investiti di un ruolo di supplenza nella lotta (armata) contro i persecutori mafiosi. Diventano giustizieri solitari, nel silenzio ottuso dell’omertà: cittadini eslègi di uno Stato che non ha saputo garantirli. Vengono arrestati, processati, e inventati come «banditi» e predoni d’assalto. In carcere conoscono l’antifascismo. Incontrano Umberto Terracini e incrociano Gramsci.
Il succo della storia, di questo western nostrano di onest’uomini indotti e costretti a farsi vendicatori, è di declinazione manzoniana: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi».
Salvatore Silvano Nigro
A forza d’acchiappari muschi e d’innestare, Luigi in picca tempo si può accattare, sulla parola, un gran bel pezzo di terra, quattro sarme, che però è tutta da arare e d’azzappare, sono anni e anni che quel tirreno non accanosce la cura jornaliera dell’omo.
Ha potuto accattarisilla sulla parola, pirchì il propietario ha una grannissima fiducia nell’onestà di Luigi.
«Quanno che hai il dinaro, mi paghi la rata». Dal matrimonio intanto sono nati cinque figli mascoli e una fiminina. Nell’ordine: Vincenzo, Salvatore, Giovanni, Girolamo, Filomena e Alfonso.
Via via che addiventano granni, i figli, che certo non si risparmiano, dotati come sunno di una gran gana di travagliare e di farisi avanti nella vita, si mettono ad aiutare il patre.
Ora il tirreno, coltivato bono, ha un vigneto, l’immancabile pistacchera e un mandorleto.
Luigi accatta dù scecchi e ‘na mula.
La casuzza è stata ingrandita assà, ora ci sono macari un magazzino e ‘na staddra per le vestie.
Po’ Salvatore, per aiutare il patre a pagare le rate del tirreno e a affrancarisi il prima possibili dal debito, sinni parte emigrante negli Stati Uniti che è ancora squasi un picciliddro e ci resta per novi anni.
Travaglia come uno schiavo e manna sempri dinaro a casa.
Doppo picca, macari Vincenzo parte per l’Argentina indove sinni starà per otto anni.
E puro lui, seguendo l’esempio di so frati Salvatore, manda a casa cchù dinaro che può.
Ad aiutare il patre nel travaglio dei campi restano Giovanni, ‘ntiso «Vanni», e Girolamo.
Alfonso è ancora troppo nicareddro per tiniri la pisanti zappa in mano.
E po’, per lui, il patre avi ‘n testa un diverso distino. Ambiziosissimo, per quei tempi.
Luigi voli che questo figlio studi, mantenuto da lui e dagli stessi fratelli, fino a pigliarisi la laurea d’avvocato.
Tutti i Sacco sanno a malappena mittiri la firma, non sanno né leggiri né scriviri bono, però ci patiscino assà a essiri squasi analfabeti.
Scrive Alfonso, nel sò Memoriale, che nella gran massa dei jornatanti del sò paìsi, solo uno, di idee socialiste, era capace di leggiri a lentu a lentu il giornale, e il bello era che i jornatanti pinsavano che era giusto e naturale accussì, cioè che il giornale lo dovivano leggiri e accapiri «solo i signori».
Quanno scoppia la guerra 1915-18, Salvatore (che è appena rientrato dagli Stati Uniti), Giovanni e Girolamo sono chiamati alle armi e partono per il fronte. Di conseguenza, Alfonso è costretto a lassari perdiri lo studio per andare a travagliare col patre restato solo, dato che Vincenzo è ancora in Argentina.
Alla fine della guerra però s’arritrovano tutti, macari Vincenzo. Girolamo è stato firuto, ora avi la qualifica di «grande invalido».
Nel campo, dove il padre e i figli continuano a travagliare scian-co a scianco in perfetta armonia, si fabbricano autre case, l’una addossata all’autra, e nuove stalle.
Tri di ‘ste case sono per Vincenzo, Giovanni e Filomena che intanto si sono maritati.
È stato macari costruito un parmento per fari il vino.
Un granni alveare con 50 arnie.
Sono state accattate n’autra mula, quattro vacche, dù cavalle che generano dù mule l’anno.
Salvatore, con un amico che sa come far caminare il macchinario, impianta un mulino in un magazzino al centro del paìsi che grazii a questa collocazione accomenza a renniri bene.
Vincenzo, oltre che «ricevitore» della cooperativa socialista (i Sacco sono tutti di idee socialiste), è macari un bravo fotografo, ha imparato il misteri in Argentina e come tale guadagna bono, immortalando matrimoni, vattii e funerali.
A Giovanni veni n’idea geniali.
Il collegamento con il capoluogo Girgenti (oggi Agrigento) è praticato da ‘na vecchia diligenza trainata da cavaddri che trasporta posta e passeggeri, facenno il viaggio di andata la matina e quello di ritorno alla sira. Ogni viaggio dura mezza jornata.
Ma ogni jorno tante sono le pirsone obbligate a ristare a terra dato che la diligenza può portari al massimo massimo otto passeggeri.
Allura Giovanni, per non farigli uno sgarbo, si mette in società con lo stisso propietario della diligenza e con autri amici accatta un autobus che nell’arco di ‘na sula jornata è capace di fari dù viaggi di andata e dù di ritorno tra Raffadali e Girgenti.
E siccome che svolge macari servizio postale, la società di Giovanni arricivi un contributo annuo di liri 20.000 da parti dello Stato.
Doppo picca, Giovanni accatta, sempri con la stissa società, un camion per il trasporto merci che fa lo stisso percorso dell’autobus.
Ma quanno veni l’ora della cugliuta, tutti tornano ad essiri contadini.
A mezzojomo e alla sira, la famiglia s’arritrova sempri torno torno allo stisso tavolo di mangiare.
I fratelli maritati assittati con le loro mogliere.
Tutti abitano in case fabbricate l’una allato all’autra supra il tirreno comune.
Mai uno screzio, ‘n’azzuffatina tra loro.
È gente accanosciuta per l’onestà, la serietà, il rispetto assoluto della parola data.
I Sacco hanno ormai raggiunto l’agiatezza.
Se la sono sudata, ma non pensano di godirisilla e basta.
Vanni ha autre idee in testa, vuole accattarisi almeno dù nuovi autobus e pigliarisi autre linee per i paìsi vicini.
Ma c’era la mafia.
(Brano pubblicato sul Giornale
di Sicilia, 17.10.2013)