Aspetta che il respiro torni lentamente normale, odora le goggiole di sudore
che ha sulle braccia e che sanno di muschio, se le lecca a una a una.
Non ha la forza di alzarsi, il languore ora l'assale a ondate di risacca.
Poi finalmente riesce a tirarsi in piedi, indossa il bikini, piglia il
cellulare, ripiega il lettino, lo tiene sottobraccio, apre la porta della
cabina, esce sulla spiaggia.
Arianna ha appena compiuto trentatré anni, ma il suo temperamento è ancora deliziosamente infantile.
Quando Giulio la incontra, in un giorno triste per entrambi, è subito conquistato da questa creatura smarrita, selvatica come una bimba abbandonata eppure bellissima e sensuale. Arianna entra nella sua vita con una naturalezza che lo strega, e dal giorno in cui la sposa Giulio cerca di restituirle la luce che lei gli ha portato offrendole tutto ciò che potrebbe desiderare: anche quello che lui, a causa di un grave incidente, non può più darle... Così della loro routine entrano presto a far parte gli appuntamenti del giovedì, meticolosamente organizzati da Giulio in persona: in un pied-à-terre appartato o in una cabina sulla spiaggia, secondo la stagione, gli uomini destinati a incontrare Arianna sono tenuti a rispettare poche regole inviolabili.
Nella vita di questa coppia, dunque, segreti non ce ne sono. Ogni tanto, però, Giulio è attraversato dalla consapevolezza che qualcosa gli sfugge: "Tu non mi hai detto tutto di te" le sussurra mentre non riesce a fare a meno di viziarla. È così. Di segreti Arianna ne ha molti, e brucianti - tanto che forse nemmeno lei ne conserva un ricordo nitido. Ma quello che custodisce più gelosamente è il "tuttomio": una "tana" tutta sua, ricavata in un angolo del solaio, come la piccola caverna dove si rifugiava da bambina, in campagna. Ed è lì, nel tuttomio, che Arianna si confida con la sua unica vera amica, Stefania.
I giochi di Arianna e Giulio sono troppo torbidi e coinvolgenti per non farsi, con il passare del tempo, pericolosi. Tanto più perché lei, come ogni bambina, non ha chiaro il confine che separa il gioco dalla realtà. E può bastare lo sguardo di un ragazzino ingenuo e focoso, a cui è difficile dire di no, perché le regole rischino di essere infrante e un vento sinistro porti scompiglio nella casa di bambola che Giulio ha costruito.
Ispirato alla scandalosa vicenda dei marchesi Casati Stampa, ma anche percorso da una fitta trama di rimandi a grandi classici come Santuario di Faulkner e L'amante di Lady Chatterley di Lawrence, questo romanzo mette in scena una protagonista femminile straordinaria: inquietante nel suo candore, splendente di una luce nerissima. Quando abbandona la lingua mescidata dei suoi romanzi siciliani, Camilleri dispiega una scrittura magistralmente essenziale, limpidissima - verrebbe da dire spietata - eppure priva di inibizioni. Un gioco raffinato e colmo di ironia, con il quale trascina i lettori attraverso il labirinto dell'eros, al cuore dell'amore e della perdizione, là dove - come nel mito di Arianna - il Minotauro vive nutrendosi dei desideri più oscuri e inconfessabili. Un romanzo che si legge d'un fiato, terribile e sorprendente.
-o-
Giulio la sveglia sfiorandole appena un orecchio con le labbra e le sussurra:
«Ari, ti saluto, devo andare.»
Ha sentito, ha capito, ma non è in condizione di rispondere.
Giulio ripete, credendo di non averla svegliata:
«Ari, ciao, devo...».
«Ma che ore sono?» domanda lei con la voce impastata e gli occhi tenuti ostinatamente chiusi.
«Le sette e mezzo.»
«Dio mio!»
Per un istante continua a rifiutarsi alla coscienza, trincerandosi dietro lo schermo di un buio profondo.
Poi apre gli occhi, solleva un poco la testa.
Gli scuri della finestra sono aperti a metà, lasciano entrare un fiotto di luce assassina.
Lei è costretta a sbattere le palpebre per mettere a fuoco l’immagine della stanza.
Giulio è in piedi accanto al letto, profuma di dopobarba. È completamente vestito, pronto per uscire.
«Come restiamo d’accordo?» le domanda. «Vai avanti da sola o vuoi che passi a prenderti più tardi e andiamo con la mia macchina?»
«Ma tu a che ora pensi di finire in ufficio?»
«Non prima delle dieci, dieci e mezzo.»
«Figurati! Come minimo ti presenteresti qua alle undici. No, faremmo troppo tardi. È meglio se mi ra ggiungi là.»
«A lui a che ora hai detto di venire?»
«Alle undici. Hai avvertito Franco?»
«Gli telefono più tardi, verso le nove.»
«Non è che te ne scordi? Che poi io arrivo là all’improvviso e quello...»
«Tranquilla, l’avverto. Ciao.»
«Ciao. Ah, per favore, di’ a Elena...»
«Va bene.»
Arianna riappoggia la testa sul cuscino, tira su il lenzuolo stropicciato sino a coprirsi la faccia, chiude gli occhi.
Trattiene un poco il respiro per continuare a immaginarsi morta dentro la bara del sonno. Ma è un tentativo inutile, è stata irrevocabilmente richiamata in vita.
E quindi deve fare le cose che fanno i vivi.
Inspira profondamente, si riempie i polmoni dell’odore notturno di se stessa che il lenzuolo ha trattenuto.
Deve avere sudato molto per il caldo e lei ama il suo sudore.
Ha scoperto di avere due tipi di sudore, ognuno dei quali ha un odore diverso.
Il sudore dovuto al caldo odora di colonia d’erbe e ha un colore verde smeraldino, quello dovuto all’amore ha invece un odore forte di muschio e un colore verde scuro.
Solleva un braccio sino a che l’ascella viene a trovarsi all’altezza del naso, lo lascia così per un poco, respirandosi.
Ora è tornata a essere compiutamente viva.
Sente il cuore che pulsa forte e ritmico – FUNF FUNF FUNF – e risuona dentro alle sue orecchie come la caldaia di una locomotiva in sosta.
Piega e raddrizza ripetutamente le dita del piede sinistro.
«Ciao, piede, come stai?»
Fa lo stesso con l’altro.
«E tu?»
Ora una mano scende a carezzare il polpaccio sinistro.
«Ciao, polpaccio.»
Da adolescente aveva la fissazione che i suoi polpacci fossero troppo grossi, come quelli di quasi tutte le contadine delle sue parti, e ogni volta, appena sveglia, passava almeno una mezzoretta a lisciarseli nella speranza di riuscire ad affusolarli.
E prima aveva patito la paura che le venissero tette troppo grandi. Di nascosto da nonna se le fasciava strette strette con un fazzolettone che a momenti non le riusciva più di respirare. Per strada camminava con le spalle curve nel tentativo di farle sporgere di meno.
A convincerla che aveva delle gambe splendide e delle tette da antologia era stato il professore di filosofia, al terzo liceo, quello col nome buffo, Adelchi, che spesso interrompeva la ripetizione e la faceva mettere nuda davanti allo specchio.
Quando Elena bussa discretamente alla porta, lei è riuscita a dare il buongiorno al suo corpo fino alla gola.
«Entra.»
«Dormito bene, signora?»
Non risponde.
Parlare senza prima avere bevuto il caffè le è praticamente impossibile. Già rispondere a Giulio è stata una fatica improba.
Elena poggia il vassoio con la tazzina sul comodino.
«Le apro di più la finestra?»
«No.»
«Le preparo il bagno?»
«Sì.»
Appena Elena è uscita, riprende la cerimonia dei saluti.
«Ciao, mento.»
Quando finisce di salutarsi anche i capelli, si tira su a mezzo, sistema meglio i due cuscini dietro la schiena, prende la tazzina di caffè amaro, se la porta alle labbra.
Dopo si accende la prima sigaretta della giornata.
Aspira lentamente, distanziando una boccata dall’altra e trattenendo dentro di sé il fumo il più a lungo possibile.
«Il bagno è pronto, signora.»
Spegne la sigaretta, scende dal letto, attraversa lo spogliatoio, entra nel bagno che ha tutte le luci accese.
Si leva la corta camicia da notte trasparente, si guarda nello specchio grande quanto mezza parete.
Niente male, proprio niente male per una che ha compiuto 33 anni quattro giorni prima.
Flette i muscoli delle gambe, fa delle mezze torsioni, piega ripetutamente il busto avanti e indietro, ma non sta facendo ginnastica, non l’ha mai fatta, è una sorta di controllo generale del suo corpo.
È soddisfatta, si sente snodata, flessuosa, sciolta, un meccanismo di precisione ben costruito e ben tenuto, pronto a mettersi in moto appena lei lo chiede.
Va a sedersi sulla tazza. Tutte le sue funzioni si attivano alla perfezione.
Canticchia.
In vita sua, non ha mai saputo tenere a memoria il motivo di una canzone.
E dire che ha passato notti intere a ballare, ascoltando e riascoltando la stessa musica.
Conosce un solo motivo, lo sentì una volta alla radio, poteva avere una dozzina d’anni o poco meno, non se l’è mai più scordato, ed è quello che sempre canticchia a bassa voce quand’è sola, è un suo segreto, lo cucina in tutte le salse, anche in salsa jazz, tanto si presta benissimo, le parole fanno pressappoco così:
Dies irae, dies illa,
solvet saeclum in favilla...
Poi va a infilarsi dentro alla Jacuzzi. Vi si allunga con un sospiro di felicità.
(
L'incipit riportato sopra è stato pubblicato su
La Stampa - Tuttolibri il
5.1.2013 e
Il Centro il 20.1.2013)