Questa volta Mimì Augello se la vede brutta: nella casa dell'amata di turno rientra inaspettatamente il marito; cosi Mimì è costretto a calarsi dalla finestra per salvare pelle e reputazione. Da un pericolo all'altro: nell'appartamento del piano di sotto dove ha cercato riparo, nel buio intravede un corpo steso sul letto, completamente vestito e irrigidito dal gelo della morte. Di un morto ammazzato ritrovato sul letto viene informata la polizia, solo che non si tratta di quel morto, perché è in tutt'altra casa, anche lui con l'abito buono. Come può essere accaduto? E che ne è stato dell'altro cadavere? Perché tutta la scena del crimine ha qualcosa di strano che sa di teatro?
Parte da questo groviglio la nuova indagine di Salvo Montalbano, ed è proprio il teatro il protagonista del romanzo; la vittima, Carmelo Catalanotti. aveva una vera passione per le scene e dedicava tutto il proprio tempo alla regia di drammi borghesi. Si era anche inventato un metodo personalissimo per mettere gli attori in condizione di recitare: affrancarli dai loro complessi, aiutarli a liberare le emozioni, una vera e propria operazione di scavo nelle coscienze. Catalanotti conservava scrupolosamente annotazioni e commenti su tutti i potenziali attori con cui veniva in contatto, oltre che appunti di regia e strani quaderni pieni di cifre e di date e di nomi... Il commissario Montalbano spulcia tutti i dossier di Catalanotti, i testi teatrali ai quali lavorava, le note sui personaggi e soprattutto il dramma che stava per mettere in scena Svolta pericolosa. Poco a poco si lascia coinvolgere dall'indagine e dalla nuova responsabile della scientifica, Antonia, che sul commissario ha l'effetto di una calamita. Sarà proprio il teatro a fargli trovare la soluzione del doppio cadavere.
Mai come in questo libro Camilleri inventa storie e personaggi e li fa recitare fra le quinte di un teatro di cui è lui il regista. E noi assistiamo alla messinscena che è dramma e commedia insieme.
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Il commissario Montalbano crede di muoversi dentro una storia. Si accorge di essere finito in una storia diversa. E si ritrova alla fine in un altro romanzo, ingegnosamente apparentato con le storie dentro le quali si è trovato prima a peregrinare. E un gioco di specchi che si rifrange sulla trama di un giallo, improbabile in apparenza e invece esatto: poco incline ad accomodarsi nella gabbia del genere, dati i diversi e collaborativi gradi di responsabilità, di chi muore e di chi uccide, in una situazione imponderabile e squisitamente ironica. Tutto accade in una Vigàta, che non è risparmiata dai drammi familiari della disoccupazione; e dalle violenze domestiche. La passione civile avvampa di sdegno il commissario, che ricorre a una «farfantaria» per togliere dai guai una giovane coppia di disoccupati colpevoli solo di voler metter su una famiglia. Per quanto impegnato in più fronti, Montalbano tiene tutto sotto controllo. Le indagini lo portano a occuparsi dell'attività esaltante di una compagnia di teatro amatoriale che, fra i componenti del direttorio, annovera Carmelo Catalanotti: figura complessa, e segreta, di artista e di usuraio insieme; e in quanto regista, sperimentatore di un metodo di recitazione traumatico, fondato non sulla mimèsi delle azioni sceniche, ma sull'identificazione delle passioni più oscure degli attori con il similvero della recita. Catalanotti ha una sua cultura teatrale aggiornata sulle avanguardie del Novecento. E convinto del primato del testo. E della necessità di lavorare sull'attore, indotto a confrontarsi con le sue verità più profonde ed estreme. Il romanzo intreccia racconto e passione teatrale. Nel corso delle indagini, Montalbano ha la rivelazione di un amore improvviso, che gli scatena una dolcezza irrequieta di vita: un recupero di giovinezza negli anni tardi. Livia è lontana, assente. Sulla bella malinconia del commissario si chiude questo possente romanzo dedicato alla passione per il teatro (che è quella stessa dell'autore) e alla passione amorosa. Un romanzo, tecnicamente suggestivo, che una relazione dirompente racconta in modo da farle raggiungere il più alto grado di combustione nei versi di una personale antologia di poeti; e, all'interno della sua storia, traspone i racconti dei personaggi in colonne visive messe in moviola perché il commissario possa farle scorrere e rallentare a suo piacimento.
Salvatore Silvano Nigro
Intervista ad Andrea Camilleri
In occasione dell’uscita de Il metodo Catalanotti
il Camilleri Fans Club intervista Andrea Camilleri
L'intervista è stata pubblicata sul sito della Sellerio
1. In questo libro il teatro è in primissimo piano, come forse mai era successo prima. Come mai ha sentito solo ora l’esigenza di fare un omaggio alla più grande passione della sua vita?
Non credo sia stato il teatro la più grande passione della mia vita.
Però l’ho amato molto e l’ho continuato a seguire anche quando ho smesso di fare le mie regie. Nella mia scrittura è stato sempre presente, l’esperienza teatrale ha sicuramente influito e plasmato il mio modo di narrare. Certo in quest’ultimo romanzo ho esplicitato un mondo che ho vissuto e che mi porto dentro su sollecitazione di mia moglie Rosetta, che un giorno mi ha domandato: “ma perché non scrivi qualcosa di Montalbano in teatro?”.
2. È esistito un “metodo Camilleri”? Pur non arrivando all’estremismo di Carmelo Catalanotti, con quali parametri il Camilleri regista sottoponeva a provino gli aspiranti attori?
Non gli aspiranti attori, ma gli aspiranti registi. Io ero professore di regia, quindi non facevo provini, ma lunghi colloqui con i ragazzi che volevano dirigere film o teatro che fosse. Non mi interessava tanto sondare la loro cultura quanto cercare di capirne il carattere, l’intelligenza, la capacità di rapportarsi con gli altri, le intuizioni dopo la lettura comune di un testo e l’idea generale di messinscena di un classico.
3. Le citazioni delle liriche inserite nel testo sono scaturite spontanee, di cuore, sgorgate dal testo stesso
in fieri, oppure si è trattato di un’operazione più “di ricerca”, a supporto della tensione emotiva del brano?
Montalbano ha una sorta di pudore, ed io con lui, nel raccontare l’amore. Figuriamoci la passione. Ho sempre pensato che la poesia possa raggiungere nel minor tempo possibile l’apice dell’emozione, così come appunto la passione. Raccontare come l’amore entra nella vita di un signore di una certa età come Montalbano, esprimere un sentimento di cui ha quasi vergogna non era semplice. I versi di una poesia mi sono parsi il mezzo più appropriato. Ma comunque non è stata una mia idea.
4. Lei ha sempre avuto il gusto della citazione colta, una sorta di dialogo privilegiato con chi era in grado di individuarla. In questo romanzo, invece, le citazioni poetiche sono esplicitate nella
Nota finale. Come mai?
Come lei noterà, non tutte le poesie sono esplicitate con la firma dell’autore nella nota. E questo è un piccolo giallo.
5. È abbastanza evidente negli ultimi romanzi pubblicati un’evoluzione del “vigatese”, a cosa è dovuta?
È un’evoluzione naturale della mia lingua che ho potuto attuare solo grazie ai miei lettori che mi hanno seguito in questa sperimentazione.
6. Soprattutto nelle storie di Montalbano, lei è sempre stato attento alle tematiche sociali attuali.
In quest’ultima lei affronta drammi come la disoccupazione giovanile e l’usura. Sono scelte soltanto funzionali alla trama della storia o vengono dettate anche da situazioni del momento?
Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, pensavo addirittura di ambientarlo nei primi anni ’90. Leggevo quindi notizie di quel periodo e mi sono reso conto che allora, al
Sud, il problema della disoccupazione giovanile era uguale a quello di oggi. Possibile che in trent’anni non sia stato fatto nulla? Possibile che il problema di questo paese siano i migranti che arrivano dalla Siria e non i nostri ragazzi che sono costretti a emigrare e non a migrare?
7. Montalbano è “alla vigilia o squasi” della pensione (anche se in realtà dovrebbe essere parecchio più avanti...), e in questo romanzo l’evoluzione del personaggio subisce un’improvvisa accelerazione, in particolare per il progredire delle “vicchiaglie”. Non le sembra un po’ azzardato averlo dipinto in uno stato di “esuberanza sentimentale” forse un po’ troppo spinto?
Azzardato assolutamente no, credo che Montalbano sia il primo a trovarsi a “disagio” in questa passione. Ma succede, capita. Ed è difficile rinunciare, appunto, agli “ultimi fuochi”.
8. In un recente articolo sulla Lettura, Antonio D’Orrico ha scritto a proposito de
Il metodo Catalanotti: “In questo spettacolare, sorprendente romanzo, Camilleri si riprende Montalbano, lo rimette in gioco, lo inventa daccapo. Una sfida temeraria che il grande scrittore lancia ai suoi lettori, ai suoi personaggi, ma soprattutto a sé stesso” cosa ne pensa di questa analisi del critico del
Corriere della Sera?
Mi ha molto colpito il pezzo di D’Orrico per la sua acutezza. Durante la scrittura mi sono ritrovato più volte ad avere la consapevolezza di voler riappropriarmi del mio personaggio. Potevo farlo solo attraverso un’energia sorprendente e nuova.
9. Nel corso degli anni alcuni lettori hanno contestato qualche atteggiamento del commissario: “Questo non è il ‘mio’ Montalbano, non lo riconosco e non mi piace”. Ma secondo lei, quanto un personaggio appartiene all’Autore, e quanto ai lettori?
Il personaggio lo scrive l’autore, il lettore se lo può interpretare come vuole, ma la paternità resta sempre di chi l’ha concepito, scritto e inventato.
10. Com'è nato Montalbano? Aveva già in mente un personaggio seriale?
Dopo aver scritto Il birraio di Preston, con la sua struttura apparentemente "disordinata", volevo verificare se riuscivo a scrivere all'interno della "gabbia" del giallo. Scrissi così
La forma dell'acqua. Il secondo romanzo, Il cane di terracotta, venne fuori perché volevo "completare" il personaggio del commissario, che nel primo era più una "funzione" che un "personaggio"; e per me era finita lì. Però il successo che ebbero i
due romanzi portò Elvira Sellerio a spingere perché ne continuassi a scrivere, e il resto è storia.
Foto Sellerio
S'attrovava in una radura davanti a un boschetto di castagni, il tirreno era tutto cummigliato da 'na specialità di margherite russe e gialle che lui non aviva viduto mai ma dalle quali nisciva fora un profumo che 'mbarsamava l'aria. Gli vinni gana di caminare a pedi nudi e si stava calanno per slacciarisi le scarpi quanno dal boschetto sintì arrivari un forti sono di ciancianeddri. Si firmò ad ascutari e vitti nesciri 'na mannara di crapuzzi bianche e marrò, ognuna delle quali aviva un collarino di cianciani. Mentri che le vestie gli s'avvicinavano, il ciancianiddrìo divinni un sono unico, 'nsistenti, 'nterminabili, acuto. E criscì tanto di volumi da darigli 'na sensazioni di fastiddio alle recchie.
Fu quel fastiddio che l'arrisbigliò e si fici pirsuaso che quel sono, che ancora continuava da vigliante, autro non era che quella grannissima camurria del tilefono. Accapì che doviva susirisi e annare ad arrispunniri, ma non ce la faciva, era troppo 'ntordonuto dal sonno, aviva la vucca 'mpastata. Allungò un vrazzo, addrumò la luci, taliò il ralogio: le tri del matino.
E chi potiva essiri a quell'ura?
Lo squillo 'nsistiva, non gli dava un momento di abento.
Si susì, anno nella càmmara di mangiari, sollivò la cornetta:
«Rontooo schi alla?».
Chisto era quello che gli era nisciuto dalla vucca.
Ci fu un momento di silenzio, po' la voci di chi l'aviva acchiamato fici:
«Ma è casa Montalbano?».
«Sì».
«Mimì sono!».
«Che minchia?...».
«Per favori, per favori, Salvo. Rapri che staio arrivanno».
«Che devo rapriri?».
«La porta».
«Aspetta» fici.
Si cataminò a scatti, a lento a lento, come a un pupo atomatico. Raggiungì la porta, la raprì.
Taliò fora.
Non c'era nisciuno.
«Mimì, ma dove minchia sei?» vociò nella notti.
Silenzio.
Chiuì la porta.
Vuoi vidiri che se l'era 'nsognato?
Tornò 'n càmmara di letto, si rincuponò.
Stava per pigliari sonno quanno il campanello di casa sonò.
No, non se l'era 'nsognato.
Montalbano arrivò alla porta, la raprì.
Mimì da fora l'ammuttò con forza, il commissario da dintra non ebbi il tempo di scansarisi e vinni cummigliato dall'anta che lo pigliò in pieno facennolo sbattiri contra al muro.
E siccome non ebbi sciato per santiare, Mimì non si capacitò di indove s'attrovassi e l'acchiamò:
«Salvo, dove sei?».
Montalbano richiuì con un càvucio la porta per cui Mimì ristò novamenti fora dalla casa.
Si misi a fari voci:
«La vuoi rapriri 'sta porta o no?».
Montalbano raprì e si scansò fulmineo, fermo a taliare a Mimì che trasiva con l'occhi che gli mannavano lampi di foco. Po', quello, che accanosciva bono la casa, gli passò davanti di cursa, s'appricipitò 'n càmmara di mangiari, raprì lo sportello della cridenza e si pigliò 'na buttiglia di whisky e un bicchieri. Appresso crollò supra a 'na seggia e accomenzò a viviri.
Fino a 'sto momento Montalbano non aviva rapruto vucca e sempre senza rapriri vucca si nni anno 'n cucina e si priparò la solita cicaronata di cafè. Aviva accaputo, talianno la facci di Mimì, che la facenna di cui voliva parlarigli portava un carrico pisanti.
Mimì lo raggiungì 'n cucina ricrollanno supra a 'n'autra seggia:
«Ti vorrei dire...» principiò, e po' si firmò, pirchì sulo allura vitti che il commissario era nudo.
E macari Montalbano stisso sulo allura si nni addunò e corri 'n càmmara per pigliarisi un paro di jeans.
Mentri che se li stava 'nfilanno, s'addimannò se non era il caso di mittirisi macari 'na canottera. Po' addicidì che Mimì non se la meritava.
(L'incipit qui riportato è stato pubblicato su
La Repubblica del 26.5.2018)