«Dopo la storia della donna sirena raccontata in "Maruzza Musumeci", ho pensato ad una donna che tenta
di trasformarsi in albero. Il titolo del libro sarà “Il casellante”. La storia partirà dagli anni '40 del Novecento,
proprio dove si concludeva la storia precedente di Maruzza. In questo caso, i protagonisti dovrebbero essere
un casellante dei treni ed una donna che tenta di trasformarsi in albero. Parlo di tentativo di metamorfosi, perché
queste possono anche fallire o riuscire a metà. Con questo secondo romanzo ed un terzo del quale però è
prematuro fare anticipazioni, voglio realizzare una trilogia delle metamorfosi».
(Andrea Camilleri, da un'intervista
a l'Unità, 4.3.2008)
Come in "Maruzza Musumeci", mito e storia si intrecciano anche in questo romanzo di Camilleri.
Siamo in Sicilia, tra Vigàta e Castelvetrano negli ultimi anni del fascismo. Lungo la linea ferroviaria che collega i paesi della costa fare il casellante è un privilegio non da poco: una casa, il pozzo, uno stipendio sicuro, ma la zona, alla vigilia dello sbarco alleato, si va animando di un via vai di militari e i fascisti, quasi presagendo la fine imminente, si fanno più sfrontati.
A Nino Zarcuto, «trentino, beddro picciotto» rimasto privo di due dita per un incidente sul lavoro, è toccato un casello stretto tra la spiaggia e la linea ferrata. Si è sposato con Minica e aspettano, finalmente, un figlio. Il lavoro è poco e c´è tempo per l´orto, per andare ogni tanto in paese e Nino, appassionato di mandolino, può anche dilettarsi con l´amico Totò in qualche serenata improvvisata. Un giorno dei soldati iniziano dei lavori vicino al casello per approntare una linea di difesa dal mare. E mentre scavano a ridosso del pozzo provocano una frana. Nino, rimasto senz´acqua, deve correre ai ripari, ma scendendo nelle profondità della terra si imbatte in una grotta. Solida, asciutta, un rifugio perfetto. Un segreto da custodire gelosamente.
Poi una notte, mentre Nino è in carcere, colpevole di avere ridotto le canzoni fasciste a marce e mazurche con chitarra e mandolino, Minica viene aggredita e violentata, perde il bambino, la memoria, la ragione.
Chi è stato? Uno dei militari di passaggio, o un amico che ha approfittato della sua assenza? Nino arriverà alla verità e alla vendetta, ma non riacquisterà la pace perché Minica ha perduto il senno. Vuole essere piantata come un albero, e come un albero generare: il suo corpo comincia a trasformarsi: i capelli in fronde leggere, le braccia verso il cielo come flessibili rami; il corpo si ricopre di corteccia; i piedi in radici.
Ma siamo già nel luglio ´43, viene l´ora di utilizzare il rifugio, sbarcano gli americani, i bombardamenti si susseguono. È dalla devastazione che Minica,
novella Dafne, troverà la forza e le risorse per ricominciare a vivere.
Raccontano, le cronache dell'antichità mitica, di metamorfosi varie. E di Niobe, madre superba dapprima, e poi dolorosissima. Gli dèi le uccisero i figli, per vendetta. Ne ebbero pietà alla fine. E la trasformarono in pietra. Ma da quel sasso, da quella roccia insensibile, sgorgò una sorgente di lacrime. Anche a Vigàta accadono fatti da far girare le sante cose, i cosiddetti cabasisi, nell'anno di grazia 1942: mentre guasconeggiano marronate fascistissime, e svampano i primi fuochi che scommuovono l'aria e preludono allo sbarco degli alleati. Non ci sono dèi a Vigàta. Ma regolarità abitudinarie. Treni che vanno e vengono strasciconi. Concertini domenicali. Rispetti e convenevoli. Prodigi d'ingegno anche, di brava gente e di uomini d'onore. E arcaici istinti, primitività animale, e violenza selvaggia nell'ombra. La mostruosità è dentro, negli interstizi della feriale convivenza. Cospira. E quando esplode, feroce e distruttiva, è la provvidenza del dolore a intervenire. Con il ritorno delle antiche metamorfosi. Con la pietrificazione. O con la regressione vegetale, che è tentativo disperato di riaccedere al ciclo vitale della natura. Camilleri è il cronista, il favolista e il mitografo della comunità vigatese. Racconta di Minica e di suo marito, il casellante Nino Zarcuto. Della loro modesta vita nella solitaria casetta gialla, accanto a un pozzo e a un ulivo saraceno: in mezzo a un paesaggio arcigno, blandito dal vicino mare e dalla luce. Vogliono la grazia di un figlio, i due casellanti. Si prodigano. Ma la violenza è un gorgo voraginoso, che risucchia i due coniugi. Il dolore è atroce, straziante. Pietrifica. Minica è una Niobe, ora in un'umile mitologia rusticale. Ha per occhi due laghi traboccanti. Vuole essere madre tuttavia. È ostinata. Una fantasticheria vegetale le fa credere di poter diventare albero. Di mettere radici e di dar frutti, dopo essere stata innestata. Il marito l'asseconda, amoroso e sollecito. Il figlio arriva infine, come arrivano i miracoli: donato dagli scrolloni della morte e della guerra. Camilleri si apposta negli svolti della tragedia. E vi aspetta il lettore, con una candela accesa in mano.
Salvatore Silvano Nigro
Dal romanzo è tratto il film di Rocco Mortelliti Il casellante.
L'incipit del romanzo, pubblicato in anteprima sul
Giornale di Sicilia del 24.6.2008
Il treno a scartamento ridotto che si partiva dalla stazioni nica nica di Vigàta-Cannelle diretto a Castellovitrano, ultimo paìsi sirvuto dalla linea, ci mittiva chiossà di ‘na mezza jornata per arrivari a distinazioni, dato che le firmate previste erano quasi 'na"vintina, a non considerari quelle impreviste dovute a traversamenti di mannare di crape e pecori opuro a qualiche vacca che pinsava bono d'addrummiscirisi 'n mezzo alle rotaie. I treni in servizio erano come a dù frati gemelli: la locomotiva a carbone col tender che trainava tri vitture passiggeri ognuna con una speci di verandina che di stati viniva addotata di tendine laterali colorate a strisce virdi e rosse per arripararisi dal sole. La prima vittura e quella di coda erano di terza classe e avivano i sedili di ligno, la vittura mediana era di prima classe e aviva i sedili 'mbottiti e cummigliati di villuto rosso coi poggiatesta bianchi coll'orlo arraccamato. Non esistiva la secunna classe. Ogni matina alle sei sinni partivano contemporaneamenti, uno da Vigàta e l'altro da Castellovitrano e, doppo essirisi 'ncrociati alla stazioni di Sicudiana, s'appresentavano all'una meno deci ai rispettivi arrivi. Alle tri del doppopranzo ogni treno ripigliava la strata del ritorno verso il posto da indove sinni era partutu la matina. Lentissimi erano. Tanto che di stati, prima che le locomotive pigliassero l'acchianata nelle vicinanze della Scala dei Turchi, spisso i passiggeri cchiù picciotti avivano il tempo di spogliarisi, il costumi l'avivano già mittuto al posto delle mutanne, farisi un bagno viloce a mari e riagguantare novamenti il treno, che faticava ancora a mezza costa col sciato grosso, ristannosinni ad asciucare nella verandina.
Pirchì i binari, fatta cizzione di un tratto di 'na decina di chilometri che traversavano la campagna, per tutto il percorso corrivano squasi a ripa di mari. E macari nel tratto campagnolo i cchiù picciotti scinnivano a rifornirisi di frutti e virdure di stascione, ora ciciri virdi, ora fave frische, ora arance e limoni, ora nespole, racina, vircoca. I propietari dei tirreni ogni tanto s'arraggiavano e facivano riacchianare 'n treno i picciottazzi sparanno fucilate in aria.
I passiggeri erano squasi sempre li stissi, commercianti, 'mpiegati, maestri e maestre, studenti e parenti di carzarati. Le ultime dù categorie scinnivano a Vigàta per pigliare la correra o un altro treno che li avrebbi portati a Montelusa indove ci stavano le scole superiori e il granni càrzaro di San Vito. C'erano macari viddrani e viddrane che pigliavano il treno con sacchi e panara per annare a vinniri nei paìsi cchiù grossi ova, ricotta, cacio e macari qualichi gaddrina o coniglio.
S'accanoscivano tutti tra di loro e tutti accanoscivano ai machinisti e ai capotreno che facivano macari da controllori.
Certe volti i treni portavano in partenza liggeri ritardi pirchì qualichi passiggero bituali non era stato puntuali e il capotreno non aviva dato il signale di partenza aspittanno il ritardatario. Tanto che era addivintata di bona creanza avvirtiri il capotreno se uno, il jorno appresso, non sarebbi potuto partiri. Che non l'aspittassero a vacante.
'Na volta, alla cursa delle sei in partenza da Vigàta, non s'appresentò don Jachino Marzo, un sissantino che aviva un nigozio di stoffi a Sicudiana.
Doppo 'na decina di minuti d'aspittata, il capotreno spiò consiglio ai passiggeri: che doviva fari? La maggioranza fu per aspittarlo ancora per tanticchia. Ma don Aitano Fazio, uno dei sette che viaggiavano sempri in prima classi con don Jachino, proponì che qualichiduno annasse a la casa di Marzo, che bitava a quattro passi dalla stazioni, per sintiri che 'ntinzioni aviva. Un volentiroso annò e tornò con la facci seria seria: Jachino Marzo era morto nella nottata, un colpo poplettico. In uno dei vagoni di terza, la maestra Iacolino recitò per tutto il viaggio, 'nzemmula ai presenti, rosari e prighere in suffraggio del frisco difunto. Il jorno del funerali, tra le altre, ci fu 'na corona che portava la scritta: «I passiggeri del treno».
Fatta cizzione degli studenti che s'arripassavano le lezioni e delle maestre e dei maestri che avivano il giornali, gli altri passiggeri non erano gente di lettura e passavano il tempo del viaggio o chiacchiarianno o jocanno a carte, scopa, trissette e briscola.
Per questo i passiggeri si erano tacitamente suddivisi assignannosi posti stabili, in modo pri sempio che i jocatori di carte si potissiro assittare sempri assistimati facci a facci a gruppi di quattro.
C'erano macari dù treni merci che facivano la stissa linea e si comportavano allo stisso modo dei treni passiggeri, sulo che erano composti da 'na locomotiva e cinco vagoni e principiavano il servizio alle quattro del matino.
Alla dominica i treni caminavano squasi vacanti, portavano gente che annava alla fiera di qualichi paìsi oppuro, quanno la stascione era aperta, 'na mezza dozzina di cacciatori che scinnivano tutti alla firmata del Vò Marino che era un posto diserto indove quaglie, conigli e lebbri abbunnavano.
Prima d'arrivari a Sicudiana, vinenno da Vigàta, ci stavano tri stazioni e s'incontravano tri caselli, il primo e il secunno vicini ai rispettivi passaggi a livello e il terzo inveci solitario, che aviva di davanti la massicciata con l'unico binario e po' la pilaja e po' il mari, mentri di darrè aviva l'aperta campagna e, luntana, 'na casuzza. Se l'addetto a questo casello aviva di bisogno di annare a fari la spisa nel paìsi cchiù vicino si sirviva di un carrello a quattro roti e a quattro posti funzionanti a pidali che sinni stava in un binarietto morto. Abbastava azionare lo scambio e il carrello si viniva ad attrovare supra al binario principali. Ogni casello ne aviva uno, sirvivano agli operai per la manutenzioni della linea. Naturalmenti abbisognava stari attenti all'ura nella quali uno si sirviva del carrello per annare e tornare. Non si potiva corriri il periglio d'attrovarisi davanti a un merci o a un passiggeri.
I caselli parivano fatti con lo stampino. Pittati di giallo, erano a un piano. In quello tirreno, c'era la cammara di mangiare, la cucina e il cesso. Oltre alla porta di trasuta, era addotato di 'na finestra laterali. 'Na scala portava al piano di supra indove ci stava la çammara di letto e 'na cammareddra. La finestra di 'sta cammara era a perpendicolo supra alla porta di trasuta. Allato a ogni casello c'era 'na speci di ripostiglio 'n muratura che continiva l'attrezzi per la manutenzioni.
La linea a scartamento ridotto, che era stata fatta a mità dell'8OO, era di 'na compagnia privata, ma al tempo che vinni il fascismo fu d'autorità 'ncorporata nelle Ferrovie dello Stato. E tra le prime cose che il fascismo fici ci fu quella di licinziari a migliara di ferrovieri con l'accusa che erano comunisti o socialisti. 'Na poco di posti di casellanti, che erano quelli indove si travagliava di meno e meno si faticava, vinniro assegnati 'n premio ai manovali o agli operai che si erano addichiarati fascisti dalla prima ora.
Epperciò il terzo casello, il meglio, pirchì era quello indove non avevi manco lo scommodo di girare la manovella per isare e abbasciare le stanghe del passaggio a livello ed era macari addotato nel darrè di un pozzo d' acqua potabili, vinni assignato al camerata ex manovratore Concetto Licalzi che si era particolarmente distinto per aviri denunziato alla polizia fascista quattro colleghi che facivano propaganna comunista.
Concetto Licalzi, quanno nel 1930 pigliò posesso del casello, sintì d'essiri arrivato ‘n paradiso.
'Na simanata appresso recintò un pezzo di terra bastevolmenti granni senza addimannari pirmisso al legittimo propietario e accomenzò a farisi un orto che gli avrebbi fatto sparagnare d'annare a spenniri soldi al mercato. Col pozzo,l'acqua non gli ammancava.
Dù anni appresso, 'na ruffiana gli combinò il matrimonio con una beddra picciotta di Montereale, Agata Purpura. L'anno doppo, nascì un figlio mascolo e lo chiamarono Benito. Dù anni doppo ancora, nascì 'na figlia fimmina e le desiro il nome di Rachele.
La vita filici di Concetto Licalzi pativa un liggero offuscamento dù volte al jorno, salvo la dominica, e a orari precisi. Vale a diri alla matimi quanno gli passava davanti il treno che viniva da Castellovitrano e al doppopranzo tardo quanno gli passava davanti il treno che sinni tornava a Castellovitrano.
Affacciato sempri allo stisso finestrino, stati o 'nverno, ci stava un quarantino malo vistuto il quali, appena che lo vidiva davanti al casello, s'impettiva e gli faciva il saluto romano. Ai primi tempi, lui ricambiò il saluto fascista. Po' accomenzò a spiarisi come mai quello non ammancava mai un passaggio senza ripetiri il gesto. Lui manco sapiva chi era.
Accussì un jorno lassò a sò mogliere a guardia del casello, annò alla stazioni di Sicudiana e addimannò 'nformazioni al capotreno. E quello gli disse che il quarantino si chiamava Antonio Schillaci, che piscava ragoste a Fiacca e le annava a vinniri a un ristoranti di Montelusa. Accussì faciva a tempo a ripigliarisi il treno che partiva alle tri da Vigàta.
«Ma 'stu Schillaci havi un frati ferrovieri?».
«Faciva il ferrovieri. È stato ghittato fora dai fascisti».
E allura accapì tutto. Ciccio Schillaci, il frati di Antonio, era uno dei quattro comunisti che lui aviva addenunziato. Si vidi che Antonio aviva saputo che era stato lui epperciò lo salutava fascista apposta, per sfotterlo, per dargli la sconcica.
Non arrispunnì cchiù al saluto. Po' 'na bella matina non arriggì cchiù, pigliò il carrello e annò a denunziare ad Antonio Schillaci al commissario.
Quello, alla fine, lo taliò 'mparpagliato.
«Ma quanno saluta romano fa macari smorfie, dice cose?».
«Nonsi. Saluta romano e basta».
«Ennò, non basta!» fici il commissario.
«Ma sé la sò 'ntinzioni è quella di sconcicarimi!».
«Questo lo dici tu. Ma vallo a provare!».
Concetto Licalzi sinni tornò che ghittava foco dalle nasche, come un toro arraggiato. Quanno il treno ripassò nel doppopranzo, era già pronto col dù botti 'mbracciato. Appena Schillaci salutò, lui sparò. Non lo pigliò e Schillaci l'addenunziò per tintato micidio. Concetto Licalzi s'addifinnì dicenno che gli era scappato il colpo. E il commissario fici na diffida a Schillaci: quanno il treno passava davanti a quel casello aviva l' obbligo d'affacciarisi, se si voliva affacciari, dal finistrino che dava a parti di mari. Accussì, se gli scappava la nicissità di fari il saluto romano, sinni sarebbiro addunati sulo i gabbiani.
Nel misi di giugno del 1940 Mussolini addichiarò la guerra alla Francia. E dù jorni appresso 'na poco d'aeroplani francisi arrivaro dal mari e si misiro a bombardari e a mitragliari costa costa.
Proprio quella matina Concetto aviva pigliato i sò dù figli per portarli a Sicudiana dal medico. Morero tutti e tri, mitragliati da un caccia che aviva pigliato di mira il carrello scangiannolo chissà per chi cosa.
Agata Purpura sinni tornò nella casa di sò patre e di sò matre con una bona pinsioni. Si rimaritò che non era passato manco un anno.