Storia siciliana del giallo e del noir
Ci sarebbero una piazza “silenziosa nel grigio
dell’alba”, un venditore di panelle, il bigliettaio che chiude lo sportello
dell’autobus, due colpi squarciati, a lupara e un uomo vestito di scuro, che
per un attimo rimane sospeso, “come tirato su per i capelli da una mano
invisibile”, all’origine del giallo siciliano contemporaneo. Stiamo parlando
dell’inconfondibile incipit de Il giorno
della civetta, il romanzo di Leonardo Sciascia che ha sicuramente riscosso
più successo di pubblico.
Siamo
nel 1961 e lo scrittore di Racalmuto, d’un colpo, legittima il romanzo
poliziesco come vero e proprio genere della letteratura. E lo fa scompaginando
ereticamente le regole, e dimostrando che il giallo può ancora essere un
dispositivo narrativo che provoca diletto, sano godimento nel lettore, anche se
diventa una sofferta indagine storica, un’inquietante ricognizione delle anime
umane. Il poliziesco, dunque, come esplorazione problematica, e come inchiesta
metafisica: ecco gli ingredienti che pian piano faranno dei romanzi di Sciascia
libri attualissimi e palpitanti, nel cui imo
sarà facile scorgere la biologia dell’Italia intera.
Per dirla in breve, dopo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, il poliziesco anarchico
e maccheronico di Gadda, forse eccessivamente aperto per rientrare nella
categoria, è in terra siciliana che avviene lo sdoganamento ufficiale della detective story. E sempre nell’isola,
grazie alla competenza di Sciascia, si assiste alla ripubblicazione di molti ottimi
giallisti: Rex Stout, Holiday Hall, Collins, Hammett, Glauser e tanti altri. La
Sicilia, dunque, diventa quasi per vocazione la capitale del thriller.
In realtà, le cose non stanno proprio così: la storia
del giallo siciliano va necessariamente retrodatata, dal momento che già prima
di Sciascia l’isola era stata la culla non tanto del poliziesco, quanto del
noir. E proprio a questo proposito, occorre fare una comunicazione di servizio:
usati impropriamente come sinonimi, giallo e noir sono due generi differenti.
Tanto il primo è rassicurante, con il lieto fine che per lo più ristabilisce
l’ordine inizialmente violato, quanto il secondo non sopporta l’happy end, improntato com’è a un
nichilismo anarcoide e assoluto. In poche parole, il giallo, anche se problematico,
ammette uno spiraglio di salvezza; il noir, invece, trascina il lettore in una
spirale di sfiducia e pessimismo, quasi cosmico. Spesso però capita che giallo
e noir si contaminino, sfumando l’uno nell’altro: basti pensare allo Sciascia
del Contesto e di Todo modo. Uno Sciascia sempre più cupo,
quasi noir, come recita il titolo di uno dei suoi più bei libri, Nero su nero appunto: la nera scrittura
sulla nera pagina della realtà.
E allora, per ricostruire con più rigore la storia del
giallo e del noir siciliani, occorre fare un salto all’indietro e, dal 1961,
anno di pubblicazione del Giorno della
civetta, spostarsi all’inizio del secolo scorso, e precisamente al 1900,
quando vede la luce per la prima volta Il
marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana, in appendice al quotidiano
“L’Ora” di Palermo. In volume, il romanzo uscirà nella primavera dell’anno
successivo, per i tipi di Treves. Si tratta probabilmente del primo noir siciliano, ambientato a
Spaccaforno, e messo in moto da un omicidio perpetrato dal marchese del titolo
ai danni di un suo sottoposto, dopo che questi aveva acconsentito a sposare la
contadina Agrippina Solmo, per anni concubina del nobile. Il romanzo di
Capuana, quanto mai contiguo, per atmosfera, a Delitto e castigo di Dostoevskij, racconta non tanto l’uccisione
del contadino, quanto la discesa agli inferi del marchese, la sua follia per il
rimorso e soprattutto per aver fatto condannare un innocente, incriminato al
suo posto. La Sicilia contadina e feudale fa da sfondo a una vicenda torbida,
di gelosia accecante, di passioni estreme, di asfissianti sensi di colpa. E non
può essere ignorata la vicinanza del capolavoro di Luigi Capuana a Il cappello del prete (1887) di Emilio
De Marchi, il vero antenato di tutti i giallisti italiani a venire, il quale
nel suo romanzo racconta la discesa libera nel baratro della follia del barone
Santafusca. Questi infatti, dopo aver ammazzato un prete usuraio, don Cirillo,
perde lentamente la lucidità, annebbiato dalla coscienza dell’assassinio da lui
compiuto.
Stando così le cose, si può senz’altro dire che il
noir in Sicilia fa la sua apparizione sul versante orientale, in quella parte
dell’isola “babba”, ingenua per dirla con Gesualdo Bufalino.
Ma per assistere all’entrata in scena, in Sicilia, del
primo giallista di razza e di professione, occorre attendere il 1936, data di
pubblicazione della prima detective story
dell’agrigentino Ezio d’Errico, intitolata Qualcuno
ha bussato alla porta. Autore di una ventina di romanzi polizieschi, di
racconti, radiodrammi e opere teatrali, tra i primi pittori astrattisti in
Italia, d’Errico nasce ad Agrigento nel 1892 da una famiglia metà lombarda e
metà pugliese. I suoi gialli, pubblicati da Mondadori e ambientati in Francia,
in una Parigi fredda, nebbiosa, fanno subito pensare a Simenon. C’è da dire, a
questo proposito, che nel 1936 lo scrittore agrigentino dà alle stampe, per i
tipi della Rattero, il libro Torino,
guida per gli oziosi e i vagabondi, che contiene alcune pagine dedicate
alle misteriose atmosfere del creatore di Maigret, significativo preludio alla
sua imminente produzione poliziesca, al centro della quale troviamo il
commissario Emilio Richard, capo della Seconda Brigata Mobile della Sureté. Col
suo cranio possente e completamente calvo, due piccoli occhi grigi, un viso
largo e il corpo di piccolo pachiderma, Richard dà inizio alle sue
investigazioni proprio quando l’eroe di Simenon va in pensione: viene da
pensare a un’immaginaria consegna del testimone. E di conseguenza, le pagine di
d’Errico sono tutte quante affollate da boulevards, bistrots, anguste
trattorie, immerse in un’atmosfera autunnale, quasi crepuscolare, con tanto di
bruma e di nebbia e viali alberati ricoperti di foglie secche.
Quello che subito colpisce, nei romanzi di d’Errico, è l’irruzione dell’inquietudine e della malinconia: l’atmosfera nelle storie del crimine cambia radicalmente, dal momento che a dominare è d’ora in poi un’anarchia metodologica che mette in crisi l’eccessiva fiducia nel positivismo razionalistico alla Conan Doyle. La soluzione degli intrecci spesso è affidata al caso, e non certo ai cortocircuiti logico-deduttivi dell’investigatore. Per farsi un’idea del metodo investigativo di Richard, basti leggere questo passo, tratto dal romanzo intitolato La famiglia Morel (Mondadori, 1938): “Il metodo di Richard, di abbandonare i quesiti polizieschi ai margini, e di imbeversi lentamente dell’ambiente, fino a saturarsene per poi avvicinarsi al nocciolo della questione, richiedeva oltre che una lunga abitudine nel vagliare gli indizi, anche una comprensione umana che era la qualità più preziosa e forse più inconscia posseduta da quell’omaccione dall’apparenza un po’ tonta”. Imbeversi dell’ambiente, dunque, è la prima mossa di Richard, commissario dalla profonda comprensione umana e con in testa una bizzarra teoria investigativa, quella delle “nebulose”. “Le nebulose – dice il commissario – sono quelle zone di sospetto che si formano qua e là sul teatro degli avvenimenti. So benissimo che spaventano i funzionari novellini, ma io dico invece che dovrebbero essere benedette, perché se il paesaggio continuasse a mantenersi perfettamente limpido come quello di una cartolina in cromolitografia, a che cosa dovrebbe mai appigliarsi l’incaricato di un’inchiesta? Per conto mio saluto con gioia l’apparire delle nebulose e aggiungo che in un primo tempo ho quasi timore di ficcarvi dentro lo sguardo, per tema che svaniscono troppo presto”. Nebulose di cui Richard si accorge grazie al suo “sesto senso” che lo apparenta, scrive d’Errico, a certi animali notturni.
E se è vero che nei polizieschi di d’Errico non trova posto il metodo investigativo rigorosamente scientifico e viene meno la fiducia nel positivismo razionalistico (tanto che potremmo definire lo scrittore agrigentino una sorta di anti-Conan Doyle), è pure vero che le indagini di Richard, più che ricomporre l’armonia venuta meno, lasciano sempre qualcosa di insoluto, di irrisolto, consegnando al lettore un senso di inquietudine tipico del giallo problematico. I gialli di d’Errico dunque, assieme a quelli di Augusto De Angelis, il creatore del commissario De Vincenzi, aprono le porte al nuovo poliziesco, ambientato in contesti metropolitani, rispettivamente in una Parigi “fredda ma popolare e sanguigna”, e in una Milano nebbiosa e notturna. I protagonisti delle storie narrate da entrambi gli autori ereditano certamente alcune peculiarità della figura del detective tradizionale: ma quello che più conta è che a prevalere è una diversa sensibilità e un modo eterodosso di approccio al crimine. Senza d’Errico e De Angelis non sarebbe stata possibile la comparsa della nuova schiera di autori di romanzi polizieschi; sono loro che aprono le porte alle opere di Carlo Emilio Gadda e di Leonardo Sciascia, i quali sembrano ereditare da d’Errico e da De Angelis lo schema del giallo già logoro, consumato, al quale daranno il colpo di grazia. A questo proposito, va detto che sarà proprio De Angelis il primo degli italiani a lasciare insoluti due casi: infatti, sia ne Il canotto insanguinato che ne Il candeliere a sette fiamme il commissario De Vincenzi non riuscirà a sbrogliare il bandolo della matassa delle indagini. Già prima delle opere di Gadda e di Sciascia, ecco due gialli che non concludono.
Dai polizieschi di d’Errico, dunque, che di siciliano
però hanno poco, si passa a quelli di Franco Cannarozzo, prolifico scrittore della
Sicilia orientale, nato a Enna nel 1921, figlio di un maresciallo dei
carabinieri e noto giallista, nonché drammaturgo, poeta e apprezzato scrittore
di racconti di fantascienza. Cannarozzo era solito firmare i suoi libri con lo
pseudonimo di Franco Enna, suggeritogli dall’amico Alberto Tedeschi, vero
esperto del genere e già allora direttore della collana dei “Gialli Mondadori”,
impegnato nello sforzo di tentare in quegli stessi anni un rilancio del
thriller italiano.
Preludio alla
tomba
(Milano, Mondadori 1955) segna l’uscita in pubblico di Enna che, lavorando
anche come direttore dell’ufficio stampa dei periodici Mondadori, pubblica
soprattutto tra gli anni Cinquanta e Sessanta un numero cospicuo di gialli,
arrivando addirittura a sfornare un romanzo ogni quindici giorni per due anni
di seguito, tanto da scrivere complessivamente quasi centocinquanta opere.
All’attività di giallista e di autore di racconti di fantascienza e di romanzi
per ragazzi, Enna affianca anche quella di giornalista, traduttore, soggettista
e sceneggiatore televisivo; una sorta di Camilleri ante litteram, che ha lavorato a diverse trasposizioni
cinematografiche di alcuni suoi romanzi, a radiodrammi e a sceneggiati
televisivi di argomento poliziesco (creando tra l’altro la figura del delegato
di polizia Bianchi) trasmessi dalla RAI e dalla TSI in Svizzera, dove nel 1948
Cannarozzo si era trasferito. Va detto a questo punto che, a differenza di Ezio
d’Errico, Enna in diversi suoi romanzi opta per l’ambientazione siciliana,
quasi mai scenografica o edulcorata, ma riprodotta ora con l’intento di
svelarne, attraverso una particolare vicenda, la vera natura e mettere a nudo
le piaghe che da tempo l’avviliscono, ora come unico scenario possibile per le
passioni e gli intrighi delle storie narrate; come accade, ad esempio, ne Il volto delle favole (1963), in cui il
protagonista, Alberto, dopo vent’anni di assenza, ritorna nella sua città
natale, Palermo, per indagare sulla misteriosa scomparsa del fratello. Se poi
si pensa che uno degli eroi più famosi creati da Enna è il commissario Federico
Sartori, un siciliano affetto da inguaribile nostalgia che non si sottrae mai
all’avventura e all’amore e attorno al quale l’autore ha creato un fortunato
ciclo romanzesco, allora è chiaro come occorra ripensare la storia e
soprattutto la geografia del giallo siciliano. Certo, pur non difettando né la
capacità inventiva di Franco Enna, né la sapienza del racconto, va però detto
che lo scrittore siciliano in un certo senso sottostimava le qualità della
scrittura; a lui non interessava tanto la ricerca di uno stile per raccontare
lo splendido fatto che gli era venuto in mente.
Relativamente alla struttura
dei romanzi, invece, Enna riscatta ampiamente la letteratura thrilling italiana
da quegli elementi di debolezza che fin dal suo sorgere, negli anni Trenta,
avevano compromesso il successo di tanti autori. Ossia la tendenza del giallo
italiano ad essere avventuroso, picaresco per certi tratti, e a far sue le
sfumature dei romanzi di appendice o di quelli di denuncia sociale: anzi, di
questi fattori di fragilità, Enna fa il punto di forza delle sue opere più
riuscite, dando prova di una notevole professionalità artigianale e riuscendo a
tracciare con precisione ritratti di protagonisti “sempre di carne, di sangue”,
con “un cervello e una mentalità” tutta loro, come nota Tedeschi nella
prefazione a La grande paura (Milano,
Sonzogno, 1977), e perennemente in bilico tra il bene e il male; e riuscendo
anche a far tracimare dalle sue pagine la personalità forte e determinata di
certe figure femminili davvero indimenticabili.
Lo schema del giallo, quindi, come impostazione di
fondo, come una sorta di scenario aprioristico, nel quale possono muoversi
liberamente investigatori istituzionali, ma anche detective per caso, e dove le
grandi passioni, i sentimenti forti muovono i destini degli uomini. “Dove c’è
l’uomo – affermava infatti Cannarozzo –
c’è una problematica che va risolta. E, a ben guardare, ogni romanzo
contiene sempre un intreccio giallo, anche se il colpevole può essere la vita,
può essere Dio, può essere chiunque. In questo senso anche Shakespeare, anche
Dostoevskij sono scrittori di gialli”. Tutto questo è rintracciabile nei
romanzi con al centro la figura del commissario Sartori, da Il caso di Marina Solaris a La bambola di gomma, da Un poliziotto in vendita fino a L’occhio lungo, l’ultimo della serie,
recentemente ripubblicato da Sellerio, nel quale l’autore conferma pienamente
le sue qualità: realismo dell’impianto, ambientazione provinciale, ritmo
veloce, serrato, una lingua dal taglio modernissimo. Al centro della storia
troviamo il commissario Sartori, che presenta non pochi tratti in comune con il
suo creatore; ma si tratta di un autobiografismo che conferisce al personaggio
credibilità e simpatia, facendone un poliziotto in carne e ossa, sensibile al
fascino delle donne, nostalgico e romantico, con moglie e figli a carico, ai
quali sovente va il suo pensiero. Colpisce l’abilità di Enna nel ritrarre
personaggi, nel ricreare le atmosfere grigie e crepuscolari delle nostre
province, nel ricostruire e reinventare fatti di cronaca, nel saper sfumare nel
noir una storia che ci riporta ai
fatidici anni Settanta, funestati da attentati e sequestri. Per non parlare poi
delle avventure del maresciallo Lo Cascio che, a differenza di Sartori che
indaga negli ambienti metropolitani, si muove in un ambito provinciale, e
precisamente nel paese di Mazzara del Vallo.
E tanto più riconoscibile e
meticolosa è l’ambientazione dei gialli di Franco Enna, quanto più è ambigua e
quasi sfuggente è quella dei romanzi polizieschi di Sciascia, come nel caso di A ciascuno il suo, la cui vicenda si
sviluppa in una cittadina siciliana della quale non viene mai specificato il
nome. Tutto questo fa parte della strategia messa in atto dallo scrittore di
Racalmuto nei suoi ultimi gialli, a partire soprattutto dal Contesto (1971): in essi, quasi
inevitabilmente, il particolare si fa sempre più universale, il reale sconfina
continuamente nel metafisico. La Sicilia va pian piano sfumando, pur essendo
mai del tutto assente, come teatro dichiarato delle vicende narrate,
configurandosi invece un diverso orizzonte geografico, tanto che lo scrittore
affermerà, intorno al 1970, che “forse tutta l’Italia va diventando Sicilia”.
Sciascia, “poliziotto di Dio” per dirla con Gesualdo Bufalino, comincia ad
avvicinarsi sempre più a Friedrich Dürenmatt. E a proposito di A ciascuno il suo, vengono alla mente le
parole che Calvino scrisse all’autore di Porte
aperte nel 1965: “Caro Leonardo, ho letto il tuo giallo che non è un
giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento
di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l’impossibilità
del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”. E poco dopo: “Questa Sicilia è la
società meno misteriosa del mondo: ormai in Sicilia tutto è limpido,
cristallino: le più tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologia,
pettegolezzi, delitti, lucidezza, rassegnazione, non hanno più segreti, tutto è
ormai classificato e catalogato… Tanto che speriamo ardentemente che nulla
cambi, che la Sicilia resti perfettamente uguale a se medesima”. Ora, molti
critici si sono interrogati su cosa Calvino avesse voluto dire sostenendo
“l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”. Che si trattasse
di un abbaglio preso dall’autore di Palomar
non siamo affatto convinti. Calvino tutto era, tranne che ingenuo e manicheo. È
più probabile che egli, nel chiosare il libro di Sciascia, si fosse espresso
antifrasticamente, rovesciando alla fine della sua lettera la famigerata
formula contenuta nel Gattopardo
(1958): “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. La
rovescia, provocatoriamente, per dire invece che le cose sono cambiate e che il
tempo è compiuto perché qualcuno cominci di nuovo a classificare, a catalogare
la realtà isolana. Oggi, poi, la vitalità del poliziesco dimostra quanto
quell’invito antifrastico di Calvino sia stato accolto e recepito.
Dal canto suo, la Sicilia,
da sempre terra di tormentose passioni, di oscuri interessi, di delitti
inspiegabili e di secolari rassegnazioni, in questi ultimi anni ha dimostrato
di essere una delle regioni più misteriose, indecifrabili e oscure dell’Italia
intera. È vero, come ha scritto Calvino nella sua lettera, che sull’isola
esiste un “bagaglio d’informazioni adeguatamente ricco e aggiornato”: un
bagaglio che però funge spesso da lente deformante, in grado di sfocare le
cose, di deturparle quasi. Per fortuna che si può sempre fare ricorso al
prezioso correttivo dei gialli di Sciascia, ad esempio. Ma non solo: c’è
infatti un intensissimo noir scritto
dal pittore e scultore Ugo Attardi, L’erede
selvaggio edito nel 1970 da Grafica editoriale (Roma,) che sulla Sicilia,
sulle passioni della sua gente, sulla mafia e sugli uomini d’onore ci dice di
più di tante inchieste e di inutili indagini. Si tratta di un romanzo di
formazione rovesciato, in cui è narrata la storia della genesi di un delitto,
quello del padre del protagonista, e della vendetta che quest’ultimo cova: “Mio
padre era stato trovato, un mese dopo il suo arresto, nel fondo di un fossone,
verso Salemi. Era tutto coperto di sassi. Quelli che l’avevano portato via non
erano sbirri; s’erano finti tali; in realtà erano infami sicari”. L’uscita di
scena del padre è la causa scatenante di tutte le disavventure del
protagonista, che andrà via di casa, vagando in preda a una sorta di
allucinazione. La storia è ambientata in una Palermo riconoscibilissima: da una
parte c’è monte Pellegrino, dall’altra la Marina e le ville liberty ai lati di
via Libertà. A un certo punto, però, i luoghi che fanno da teatro alla vicenda
sembrano quasi trasformasi, sotto la spinta espressionistica della scrittura di
Attardi, in un universo beffardo e stravolto, in cui i protagonisti sono
sconvolti e lacerati dalla stessa carica di odio e brutalità di cui sono
portatori. Come don Totò, ad esempio, una sorta di blasfemo Onnipotente, dalle
cui decisioni dipendono il lavoro e l’avvenire di tanti sottomessi. Alla fine,
in un’atmosfera visionaria e sempre più inquietante, si staglia l’immagine del
corpo stanco e provato del protagonista, accerchiato da crudeli boia pronti a
bastonarlo e a tormentarlo.
Negli
anni Settanta vedono la luce anche i polizieschi di Enzo Russo, ambientati in
una Roma corrotta, città delle “caste intoccabili” e culla del malaffare e
della criminalità. Uno dei suoi romanzi migliori si intitola Il caso Montecristo (Mondadori, 1976),
al centro del quale troviamo il commissario Raciti, un siciliano tenace e
malinconico, alle prese con una serie di lettere anonime, minacciose e
ricattatorie, indirizzate a un potente uomo politico e ad alcuni suoi amici
poco raccomandabili. Raciti, nel tentativo di vederci chiaro, si imbatte in
dubbi suicidi e in omicidi veri: l’atmosfera diventa sempre più greve e il
discrimine che separa l’onestà dalla corruzione si assottiglia fino quasi a
scomparire. Lo stesso dicasi per romanzi come La tana degli ermellini (1977) e I martedì del diavolo (1979): alla fine a prevalere sarà il male,
in un sistema politico e sociale dannato alla immoralità e al disfacimento. E a
proposito dei Martedì del diavolo,
ambientato in una casa religiosa, popolato da inquietanti gesuiti e segnato da
una sorta di pessimismo assoluto circa la natura del potere, non può non venire
in mente Todo modo di Leonardo
Sciascia.
Le storie narrate da Russo
sono sempre ben congegnate, solide e avvincenti; ottimi, poi, i suoi affondi
parodici ed espressionistici. Peccato però che un eccesso di “virtuosismo
intellettualistico”, per dirla con Rodolfo Wilcock, complichi un po’ le cose: a
volte Russo pecca di eccessiva abilità e intelligenza. Con Uomo di rispetto (1988) e Nato
in Sicilia (1992), l’autore passa all’ambientazione siciliana, prendendo di
mira il nodo gordiano di mafia e politica.
Alla fine degli anni Ottanta viene pubblicato il noir di Silvana La
Spina intitolato Morte a Palermo
(Baldini&Castoldi, 1987). Si tratta di un romanzo sciasciano e insieme
borgesiano: all’interno del palazzo Chiaramonte, sul lato orientale di piazza
Marina, a Palermo, nel corso di un convegno universitario, l’emerito professor
Costanzo viene ucciso e poi infilato in una delle cisterne poste accanto alle
betoniere, all’interno della corte. All’origine dell’omicidio, uno scomodo
libro del professore che, una volta pubblicato, avrebbe sicuramente indotto la
sovrintendenza a porre sotto custodia una certa zona della periferia della
città, sulla quale aveva concentrato i suoi loschi interessi uno spregiudicato
architetto editore. A fare da contorno alla storia, un gesuita disincantato e
ambiguo, uno scrittore argentino guarda caso cieco, e un’untrice accattona.
Nelle pagine della La Spina si respira un’atmosfera sinistra: l’empito barocco
della sua scrittura fa di questo romanzo un noir spagnolesco, quasi secentesco,
in cui è Palermo, coi suoi segreti inconfessabili e i suoi morti, a essere la
vera protagonista. Come del resto accade nel romanzo di Domenico Campana L’isola delle Femmine (Einaudi 1991):
siamo ai primi anni del Regno d’Italia. Il cadavere del questore di Palermo
viene rinvenuto in una casa di piacere. Incidente o omicidio? Il delegato di
polizia, giunto da Roma per avviare le indagini, propende per la seconda
possibilità. E non si sbaglia. Intanto i cadaveri si moltiplicano e il mistero
si infittisce, in uno scenario ambiguo, quasi indecifrabile, in cui si muovono
principesse sfrenate e prepotenti, nobili senza scrupoli, maghe pericolose. Al
centro della storia, c’è un principe a metà strada tra don Fabrizio Salina e
don Corleone, recluso in un osservatorio astronomico all’Isola delle femmine,
il quale parla con la moglie morta. Campana, con una scrittura morbida, ha dato
corpo a un giallo anomalo, dove ogni cosa sembra capovolgersi nel suo
contrario.
All’inizio degli anni
Novanta fa poi il suo ingresso sulla scena, partorito dalla fantasia di Andrea
Camilleri, il commissario di polizia Salvo Montalbano, uno degli investigatori
più autentici che la letteratura poliziesca abbia prodotto, protagonista di
romanzi come La forma dell’acqua, Il ladro di merendine, La voce del violino, L’odore della notte, Il giro di boa. Armato di buon senso,
dotato di un ottimo fiuto, Montalbano è uno sbirro di nascita, che ha nel
sangue l’istinto della caccia e che si nutre di “buone, talvolta raffinate
letture”: sa infatti chi è Antonio Pizzuto, come si evince dal racconto
intitolato Miracoli a Trieste (Un mese con Montalbano), divora i libri
di Sciascia, assapora le poesie di Virgilio Giotti, conosce Jan Potocki, autore
del Manoscritto trovato a Saragozza.
È allergico alle armi e alle sirene, e conosce bene la natura dei siciliani e
le contraddizioni della sua terra, una Sicilia con le ferite ancora
sanguinanti, come la mafia, l’abusivismo edilizio, la corruzione politica. A
fare da sfondo a tutto questo, c’è la cittadina di Vigàta, con la sua vocazione
al delitto e all’imbroglio. Eppure, oltre ai cadaveri, alle connivenze, alle
magagne e agli imbrogli con cui Salvo Montalbano, da poliziotto
anti-istituzionale com’è, fuori dalle regole, allergico alle promozioni e
sensibile alle insubordinazioni, deve fare spesso i conti, nelle pagine di
Camilleri trovano spazio il mare che divide la Sicilia dall’Africa, il fascino
dei luoghi, i piatti saporiti preparati da Adelina con religioso raccoglimento,
le abbuffate nelle trattorie tipiche. E poi i membri della squadra del
commissariato di Vigàta, da Fazio ad Augello a Catarella, umanissimi antieroi
dei quali Camilleri esaspera tic e manie, riuscendone a cavare una
notevolissima forza ironica e più spesso comica, senza per questo snaturare la
propria passione civile, di ascendenza indubbiamente sciasciana, o infrangere
del tutto le regole del giallo. Genere, questo, che in un certo senso
caratterizza anche i cosiddetti romanzi storici di Camilleri, dove i meccanismi
del complotto e della macchinazione e gli ingranaggi tipici del poliziesco si
sposano felicemente con la memoria storica. Al centro di essi c’è sempre un
enigma da sciogliere, una sciarada da risolvere. Dal Corso delle cose a La strage
dimenticata, dalla Bolla di
componenda al Birraio di Preston,
dalla Mossa del cavallo a La scomparsa di Patò, Camilleri non ha
fatto altro che preparare il terreno al suo commissario: perché va detto che
tutte le peculiarità caratteriali di Montalbano, la sua idea di giustizia, ad
esempio, l’idiosincrasia nei confronti delle gerarchie, la vocazione civile,
gli derivano dai vari marescialli, tenenti generali, delegati, capitani e
questori, quelli onesti s’intende, che nelle brume dell’Ottocento siciliano si
trovano a dover far luce sugli ambigui rapporti tra mafia e politica. Il tutto,
poi, messo in moto dalla propulsione atomica di una lingua pirotecnica e
abnorme, nata dall’insofferenza nei confronti del vocabolario di tutti i
giorni, e dal recupero della pronuncia natia. Una pronuncia che annulla la
distanza tra il parlare e lo scrivere, e che distilla sapientemente gli umori
più terragni dell’isola, le sfumature e i chiaroscuri, in un concerto
polifonico dove il burocratese dei funzionari e degli impiegati si alterna al
barocco di politici e di ecclesiastici, al vernacolo dei popolani, al gergo
allusivo dei mafiosi.
Così facendo, Camilleri ha
dimostrato come un autore di genere possa nello stesso tempo essere un grande
scrittore: piegando con grande disinvoltura il meccanismo del giallo alle
proprie esigenze, per non restare schiacciato dal peso degli ingranaggi. Basti
pensare a La scomparsa di Patò,
romanzo scritto in forma di dossier, costruito a incastro come un puzzle di informazioni, in cui
documenti, rapporti, lettere, per lo più anonime, scritte murali vengono
mirabilmente collazionati in un impasto narrativo ad alta temperatura
sperimentale; o ancora, all’ultimo giallo di Camilleri, La pazienza del ragno, con il quale l’autore mostra tutta la sua capacità di smontare e rimontare il
congegno romanzesco con grande abilità, ricomponendolo alla fine con un
avvicendamento dei tempi narrativi davvero efficace. Non tanto, dunque, la
progressione, ma l’altalena dei ricordi, il pendolo delle emozioni e delle
paure. Lo scrittore empedoclino è andato però oltre, volendosi cimentate in un
giallo anomalo, senza omicidi. È come se a un direttore di orchestra
togliessero di mano la sua buona bacchetta: ma Camilleri non si intimidisce,
anzi ci mostra fino a dove è lecito spingersi.
E col tempo, il suo successo ha dato la stura a una
splendida fioritura del giallo e del noir in Sicilia, da Santo Piazzese a
Domenico Cacopardo, da Piergiorgio Di Cara a Gaetano Savatteri, da Valentina
Gebbia a Giacomo Cacciatore e Gery Palazzotto.
Autore di I delitti di via
Medina-Sidonia,
La doppia vita di M. Laurent, Il soffio della valanga, Santo Piazzese
si è imposto all’attenzione dei lettori per l’invenzione di una lingua
ossimorica e ricca di cortocircuiti. Col suo umorismo autoironico e un
citazionismo debordante, Piazzese ha creato un microcosmo romanzesco in cui si
muovono personaggi consapevoli e soprattutto credibili. Al centro dei primi due
romanzi, dal ritmo sincopato come un blues palermitano, troviamo il biologo per
vocazione e detective per necessità Lorenzo La Marca, “ex sessantottino colto,
intelligente, raffinato, ironico, e autoconsapevole”, alle prese con uno strano
suicidio prima, e con un morto ammazzato poi. Sullo sfondo, una Palermo
modernissima, abitata da una borghesia colta, che parla sfoggiando
continuamente citazioni prese dai film di Truffant e di Woody Allen, e dove è
piacevole perdersi nei suoi vicoli, frequentarne le trattorie meno note o bere
qualcosa nei pub che gravitano attorno al centro storico. C’è, in Piazzese, la
piena consapevolezza dei soliti meccanismi, dei congegni che danno forma al
giallo canonico, assieme però alla loro ironica e leggera dissacrazione, come
si può evincere, ad esempio, da questo brano de I delitti di via Medina-Sidonia: “Di solito lo sbirro di turno,
insinua la mano nelle tasche del morto e ne tira fuori carta d’identità,
scatola di cerini con numeri di telefono miracolosi scarabocchiati sopra,
ricevute di deposito bagagli, o biglietti del tram usati, dai quali poi
Filovàns deduce che il morto ha una figliastra zoppa, incinta di un portoricano
miope. Lo dissi a Spotorno. L’ignorò di brutto”. Nell’ultima fatica dello
scrittore palermitano, Il soffio della
valanga, La Marca lascia il posto al suo compare d’anello Vittorio
Spotorno, e Palermo, da città finalmente “dicibile” a prescindere dalla mafia e
mille miglia lontana da stereotipi o quadretti di genere, diventa una metropoli
più violenta e meno assolata. Dalla prima persona, lo scrittore palermitano è
passato alla terza, creando una nuova cifra stilistica e una tattica narrativa
diversa, in forza della quale rinuncia ai monologhi interiori e lascia maggior
spazio per un dispiegamento della trama più rilassato. E lo schema classico del
giallo, inevitabilmente, viene sempre più forzato, per adeguarlo a nuove
urgenze narrative. A tal punto che da poliziesco, Il soffio della valanga diventa un problematico romanzo di
formazione.
Per restare in ambito
palermitano, ci sono poi i noir di Piergiorgio Di Cara e di Valentina Gebbia.
Il primo, dopo la raccolta di racconti
metropolitani intitolata Cammina, stronzo,
pubblica Isola nera, un noir
mediterraneo, claustrofobico. E al taglio rude e secco dei racconti subentra
adesso un’andatura più lenta, riflessiva. Ma il piglio rallentato del nuovo Di
Cara arriva dopo una specie di inseguimento spasmodico: il ritmo ridotto non è
che il risultato finale. La storia prende l’abbrivio da un attentato mafioso in
piena regola, che però non sortisce l’effetto sperato: Salvo Riccobono,
l’ispettore di polizia protagonista della vicenda, preso di mira per aver dato
fastidio a cosa nostra, viene appena ferito. Da lì, il ricovero e la degenza
forzata, da trascorrere a Lipanusa, ossia Linosa, in compagnia del migliore
amico. L’isola, più che una realtà geografica, nelle pagine di Di Cara diventa
una condizione dell’anima, quasi uno spazio metafisico. È una terra ancestrale,
primitiva, esposta alla furia incontenibile degli elementi. Battuta da un vento
così forte che, ogni tanto, sembra un muggito: vento che di solito precede di
due giorni tempeste violentissime. Come quella che sta per scatenarsi in
coincidenza con l’arrivo di Riccobono. E mentre l’isola è battuta da una
pioggia violentissima, si consuma un delitto: Antonio Censuales viene rinvenuto
morto nella sua casa. A tutta prima viene liquidato come un incidente
domestico. Ma Salvo non è convinto. Prende così le mosse l’indagine sui generis portata avanti dal
protagonista, il quale compie una specie di immersione nelle viscere
dell’isola, per impossessarsi di segreti inconfessabili, per far luce sulla
natura degli abitanti di Lipanusa, così chiusi, riservati. Con L’anima in spalla torna l’atmosfera
plumbea e metropolitana dei primi racconti di Di Cara, in una storia di squadra
mobile fatta di appostamenti snervanti, intercettazioni, e l’adrenalina,
presente anche nell’inchiostro, che rende nervosa e guizzante una scrittura al
tritolo.
Dopo
Linosa, dunque, teatro del romanzo di Di Cara, con Valentina Gebbia, autrice
del romanzo Estate di San Martino, è
il turno dell’isola di Ustica, dove l’autrice mette in scena un giallo
divertente e ben costruito, che prende le mosse nel quartiere caotico e
vociante di Borgo Vecchio. L’azione è messa in moto dal rinvenimento di un
cadavere sul ponte della nave che da Palermo salpa per Ustica, e dai sospetti
che sembrano inchiodare il bel Tindaro. A far luce sul mistero ci pensano Terio
e Fana: il primo è un perito nautico a spasso, che odia Palermo per il caos, il
caldo, il traffico. La seconda, sorella di Terio, non fa nulla per nascondere i
suoi chili di troppo, ha i capelli ricci senza forma, le orecchie a sventola.
Però è sveglia, ha una risata travolgente e riesce sempre a mettere nei guai il
fratello. I due dunque, titolari di una fantomatica agenzia investigativa,
partono alla volta dell’isola per risolvere lo strano “busillis. L’indagine
parte a rilento: il caso è quanto mai intricato. Il metodo investigativo di
Fana si avvicina un po’ a quello di Maigret: frequentare i luoghi, conoscere
gli indiziati, comprendere le ragioni del colpevole. Il romanzo fila liscio
sino alla fine: la scrittura è ammiccante; l’ambientazione è quasi impeccabile,
i dialoghi risultano vivaci. E Valentina Gebbia si rivela subito una giallista sui generis, quasi un’anti-Piazzese: per
l’ambientazione popolana del libro; per la sottrazione di fascino cui sono
sottoposti i protagonisti della storia: come dire, ecco l’altra faccia della
medaglia di Palermo, metropoli post-moderna, ricca di pub in cui si suona
musica sofisticata, e città tipicamente meridionale, affollata e caotica. E
ancora in un’isola è ambientato il racconto della Gebbia che fa parte della
raccolta intitolata Le ragazze con la
pistola (Dario Flaccovio): protagonista della storia è Nicoletta, una donna che si innamora
sempre degli uomini sbagliati. Luca è uno di questi, bisognoso di protezione e
soprattutto di soldi per pagare i debiti di gioco.
Ma torniamo di nuovo a Palermo, vera e propria
capitale siciliana del noir, come dimostra il romanzo di Domenico Conoscenti La stanza dei lumini rossi (1997), che
si configura davvero come il “resoconto di un superstite”, come l’allucinato
reportage di un sopravvissuto a una catastrofe. È la storia della genesi di un
omicidio, che si consuma in una casa degli orrori degna dei migliori racconti
di Henry James. Viene subito alla mente il capolavoro di Dostoèvskij Delitto e castigo: Saverio, il
protagonista del noir di Conoscenti, fratello minore di Raskolnikof, spinto
dall’avidità dell’amante, fa fuori la vecchia donna che gli ha dato in affitto
un appartamento. E nel momento in cui compie quel gesto estremo, viene quasi
risucchiato, inghiottito da un’oscurità raccapricciante. Palermo è pure il
teatro infernale delle vicende raccontate da Giosuè Calaciura in Malacarne e in Sgobbo: Palermo come geenna meridionale, come abisso sudista. Entrambi
accomunati dalla forma stilistica del monologo, i due romanzi rappresentano due
discese agli inferi, due viaggi danteschi nelle viscere di Palermo, nel ventre
oscuro di una città mai nominata ma subito riconoscibile. Una città violenta,
raccapricciante, che nel romanzo d’esordio di Calaciura prende corpo dalle
confessioni allucinate di un killer. Una città decrepita e cadente di morti
viventi, stravolta da una carica inarrestabile di violenza, che diventa il
palcoscenico sul quale il “malacarne” del titolo rievoca la sua carriera,
ripercorre le tappe della sua formazione, dalla marginalità del rione d’origine
ai traffici internazionali, alle negoziazioni planetarie di una mafia che
vertiginosamente si espande.
Sempre a Palermo è
ambientato La ferita di Vishinskij di Gaetano Savatteri, romanzo della nemesi,
di quell’ipotetica giustizia che, attraverso determinati eventi, colpisce nei
figli i soprusi perpetrati dai padri. Va subito detto che questo giallo è il
risultato di una felice ibridazione di generi: dal poliziesco al
romanzo-inchiesta, dal feuilleton al
romanzo storico. Al centro della storia narrata troviamo Leonardo Lo Nardo, il
quale è spesso immerso dentro “fantasticherie retroattive”, avendo avuto
inoculato dal giudice Rosario Fanara il tarlo del dubbio sulla morte di
Maddalena Paniamo. E così Leonardo apre, quindici anni dopo, una sua
personalissima indagine sul caso insoluto. Ma si sa che, non appena si dischiude
il vaso di Pandora dei misteri e degli arcani, isolani e non, si scatena subito
una vera baraonda. Lo Nardo, infatti, sulle tracce di Maddalena e del suo
ipotetico assassino, è costretto ad addentrarsi nei meandri della storia
siciliana, e nella fattispecie in quel fitto reticolo di rapporti e soprattutto
di vendette trasversali che da secoli ha visto l’una contro l’altra armate le
due famiglie Pancamo e Pintacorona. E si sa che i misteri, nell’isola, spuntano
come funghi: dalla morte oscura di Maddalena si risale alla congiura delle
Palme, e al fantomatico incontro a Palermo, nel 1943, tra il procuratore di
Stalin, Vishinskij e un esponente comunista siciliano. A intrecciare questi e
altri accadimenti, la leggenda del rapporto tra le due potenti famiglie, due
casate economicamente rilevanti e politicamente contrapposte di un paese
piccolo, Giallonardo; un rapporto continuamente sostanziato dall’odio e
dall’intrigo. A venire fuori dal romanzo, in una sapientissima orchestrazione
di piani temporali, è un amaro apologo sulla storia dell’isola, su quella
scritta e quella che rimane sommersa, e soprattutto sul destino dei siciliani.
Destino che lo stesso Savatteri aveva notomizzato con ironia e pessimismo nel
suo libro d’esordio, La congiura dei
loquaci, racconto esemplare ambientato in una Sicilia sanguinante e
irredimibile.
Ancora Palermo, dunque, con i suoi enigmi insoluti e i
suoi morti ammazzati, nei quali ci si può imbattere persino in un parco, come
racconta Gery Palazzotto nel suo Di nome
faceva Michela, che si apre col ritrovamento del cadavere di uno
spacciatore, e accanto, agonizzante, il prete della vicina parrocchia. Il
destino vuole che un giovane semideficiente assista alla scena. Il caso, quanto
mai complesso, viene affidato al
commissario Giovanni Porzio, coadiuvato dai suoi fidati collaboratori: Anselmo
Faraci, Giulio Chimenti, e il dottor Mazzo, un medico legale appassionato di
hard rock. E mentre Porzio fa le proprie mosse, passando e ripassando al
setaccio del suo ingegno analitico la scena del delitto, nella Palermo arsa da
un’estate caldissima si muovono due donne sole: l’aspirante scrittrice Martina
Ferreri, segregata da mesi nel suo appartamento per propria volontà, e la
segretaria d’azienda Susanna Maggi, amante ufficiale del “capo”. Le loro storie
e i loro destini si intrecciano indissolubilmente, e si collegano a fatti
inquietanti che conducono tutti in quel parco, là dove è stato trovato il
morto. Questo romanzo d’esordio di Palazzotto ha tutte la carte in regola per
essere un noir mediterraneo in piena regola: ottima la tenuta della trama, e
felicissimo l’impasto linguistico, in grado di sostenere un ritmo narrativo che
sembra non perdere un colpo.
E sempre nel capoluogo siciliano, magari in uno dei
suoi mercati popolari più noti, si può incontrare il brigadiere Vittorio
Cacciamali, diabetico, lesto di pensiero e di lingua, alle prese con uno strano
omicidio commesso a Ballarò. Cacciamali è il protagonista del racconto L’abbaglio di Giacomo Cacciatore,
presente nell’antologia intitolata 14
colpi al cuore. Racconti inediti dei migliori giallisti italiani
(Mondadori). La rappresentazione della vicenda è perfetta, l’interazione dei
personaggi vivace e scoppiettante. E il meccanismo del giallo, nelle mani di
Cacciatore, diventa quanto mai duttile, consentendo all’autore un buon margine
di autonomia rispetto alle regole ingabbianti del genere. Accanto a una trama
ben congegnata, l’autore affianca un linguaggio personalissimo, che concede
poco alla componente folklorica, ma che rispecchia perfettamente i meccanismi
cerebrali dei suoi personaggi. Si chiama invece Basilio il protagonista del
racconto Di che colore è uno sbirro,
che fa parte dell’antologia Duri a morire
(Dario Flaccovio): poliziotto confuso, entrato nell’arma per la legge spietata
del dna. La storia, dal forte taglio plurilinguistico, diventa ben presto un
triste apologo sui rovelli e le ossessioni che disordinatamente affollano
l’encefalo di un piedipiatti. Non troppo lontano da Palermo è ambientato Cuore di madre (Mondadori 2003) di Roberto Alajmo, un noir grottesco, che trascina il
lettore, quasi inavvertitamente, in paurosi vortici di profonda, angosciante
disperazione. I protagonisti della storia sono Cosimo Tumminia, che di
professione fa il biciclettista, sul quale grava la fama di iettatore; la
madre, presenza tirannica, quasi dittatoriale, che farà prendere alla
situazione una piega imprevista, e un bimbo rapito, di cui non si sa nulla,
affidato allo stesso Cosimo da ignoti rapitori. I quali, a differenza di quanto
promesso, non si faranno più vivi: è come se la terra li avesse inghiottiti.
Cosimo è sempre più impaziente, fino a quando, con la complicità della madre,
decide di far fuori il bambino. E il delitto viene consumato in un silenzio
ovattato. Cuore di madre è un romanzo
che sconvolge le viscere, che lascia l’amaro in bocca, il fiele di un’orribile
verità, e la scrittura di Alajmo pina piano diventa una continua, beffarda,
registrazione di un vuoto di suoni, di parole, di sentimenti, di umanità; di un
vuoto che risucchia l’anima.
Con Il caso Chillè di Domenico Cacopardo
(1936), originario di Letojanni, si ritorna dalle parti di Capuana, ossia nella
Sicilia orientale, e precisamente a Messina, nello stesso periodo in cui veniva
pubblicato Il marchese di Roccaverdina.
Alla Mosca, nei pressi del podere del cavaliere Chillè, si consuma il primo
delitto: a restarci secco è il massaro Talio, raggiunto da un colpo di fucile.
Il secondo morto ammazzato non tarda ad arrivare: questa volta è il turno di
Basilio, figliastro di don Liborio Lombardo, freddato a Gallodoro, un piccolo
paese di montagna. La patata bollente delle indagini passa tra le mani del
tenente Ruggeri e del maresciallo Capellaro: i due malcapitati saranno
costretti a misurarsi con storie di corna, infezioni veneree, corruzione
politica e omertà. Il tutto in una Messina del primo Novecento, superbamente
rievocata, tanto da poter considerare il libro quasi un vivace affresco
storico. L’autore fa uso di una lingua controllatissima, dalle movenze secche;
una lingua quasi anatomica, che però è il frutto di un esercizio di
distillazione attentissima. La sua penna, verrebbe da dire, è un depuratore che
mette di lato impurità, scorie, residui ingombranti, per lasciare agire sulla
pagina l’acido corrosivo di un’ironia di derobertiana memoria. Con i romanzi
successivi, da L’endiadi del dottor Agrò
a La mano del Pomarancio, cambia
l’ambientazione delle vicende, che si sposta a Roma, restando però immutata la
pronuncia dell’autore, e soprattutto l’abilità nell’intrecciare gli eventi e di
far interagire i personaggi. A dirimere la matassa di loschi interessi,
collusioni, pericolose connivenze, questa volta sarà il sostituto procuratore
della Repubblica Italo Agrò, di origini siciliane, tenace, sensuale, spiritoso, e col pallino delle
citazioni colte. Un antieroe quasi cinquantenne, dal fisico asciutto e dal viso
angoloso, con due occhi furbi e mobilissimi, e un debole per la buona cucina,
che “macina carte e fascicoli al ritmo di un motore diesel” e che scandisce il
suo lavoro investigativo citando i versi dell’amato Salvatore Quasimodo, come
il capitano Bellodi del Giorno della
civetta. Con
i suoi polizieschi ben calibrati, Cacopardo si è rivelato un ottimo scrittore
politico, capace di mettere sotto gli occhi del lettore vicende decisamente
scottanti, per via dei complotti e delle macchinazioni che coinvolgono
ministeri vari. L’autore, nei suoi libri, parla di cose che ben conosce: il
mondo dei ministeri, l’universo dei burocrati italiani, una sorta di santuario
inesplorato di cui lo scrittore messinese finalmente apre le porte,
spogliandolo dell’aura di impunità assoluta di cui gode da tempo immemorabile.
Alla fine di questo nostro periplo intorno alle opere e ai luoghi siciliani del delitto, va fatta una considerazione: la forza dei libri di cui s’è detto proviene da una felice ibridazione, da una fruttuosa contaminazione di generi diversi: gli autori siciliani sanno bene come montare insieme ingranaggi presi in prestito da meccanismi diversi. Ed è un po’ quello che, a suo modo, un insospettabile lettore di gialli e di noir, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, aveva descritto in una delle sue pagine critiche dedicata alle detective stories e ai thrillers: “Però. Però la letteratura è una foresta. E nella foresta vi sono soltanto querce rigogliose e i pini aggraziati; vi è anche il sottobosco (il giallo, n.d.a.), quel groviglio di ginepri, di lentischi, di felci che danno sì asilo ai ramarri e alle bisce ma che danno anche la possibilità di crescita a delicati fiori. E se si distrugge tutto il sottobosco l’aspetto di quelle stesse querce e di quei medesimi pini sarà differente; essi crescono così vigorosi proprio perché il muschio copre e protegge le loro radici; e viceversa non è detto che non sia stata la caduta e l’imputridirsi di qualche quercia gigante a favorire il germogliare di quelle erbacce neglette. E la costituzione chimica del suolo sarà rivelata più esattamente dallo studio di quel sottobosco che da quello degli alberi d’alto fusto”.
Pubblicato sul catalogo del "Noir in Festival" 2004 di Courmayeur