Parole e canzoni
Paolo Conte nel traffico della vita
Autore | A cura di Vinenzo Mollica |
Prezzo | E. 20 |
Pagine | pp. 118 |
Data di pubblicazione | 2003 |
Editore | Einaudi |
Collana | Stile libero Video |
Note | Contributi di Andrea Camilleri e Nicola Piovani |
Un video inedito con le canzoni e le parole del Conte piú intimo che racconta
la propria inconfondibile arte musicale. Un libro con un'antologia di testi
commentati dall'autore e altri scritti.
Francesco Màndica
Il libro. Si sbagliava da professionisti è un'antologia personale dei testi delle
canzoni di Paolo Conte, uniti a un commento in cui l'autore spazia
tra geografia, memoria, metrica e sonorità alla ricerca delle radici
della propria ispirazione. Con molti scritti inediti, tra cui un poema
scherzoso e la lectio doctoralis tenuta in occasione del conferimento della
laurea in Lettere moderne honoris causa. «Vincenzo Cerami, Roberto Benigni,
Milo Manara, Guido Crepax, Altan, Sergio Staino, Hugo Pratt completano -
come scrive Mollica nella nota iniziale - questo ritratto imperfetto,
volutamente imperfetto, l'unico possibile per sua maestà Paolo Conte».
A cura di Vincenzo Mollica e Valentina Pattavina.
Parole e musica Nota al libro “Si sbagliava da professionisti”, allegato al video “Parole e canzoni” di Paolo Conte Paolo Conte ha più volte dichiarato che l'impulso primario di ogni sua canzone è sempre musicale; è un gruppo di note, un tema, un motivo, chiamatelo come volete, a proporsi prima come grumo sonoro e quindi via via a definirsi, ordinarsi, compiutamente comporsi. In altri termini, in principio per lui è la Musica, appresso viene il Verbo. E questo a me, assolutamente digiuno e incompetente di musica, è sembrato del tutto naturale, ovvio direi, essendo Paolo Conte un compositore. Questa dichiarazione mi è apparsa in una luce diversa quando, in seguito, mi è capitato di leggere che per la maggior parte degli autori di canzoni - alcuni dei quali di considerevole valore - vale l'inverso: in loro l'input, la pulsione musicale nascerebbe da una suggestione, come dire, di secondo grado, posteriore cioè a una prima necessità che è di natura essenzialmente poetica. Vale a dire che per loro in principio è il Verbo, la Parola, appresso viene la Musica. La musica sarebbe come il vestito adatto a quelle parole. Ho cominciato a ragionarci sopra. La prima cosa che mi è venuta in mente è stato il procedimento abituale nella creazione di un'opera lirica. Un autore scrive un libretto, originale o meno, per lo più in versi, successivamente il libretto passa nelle mani di un compositore, il quale mette in musica quei versi. A questo punto però l'elemento musicale passa in primo piano, assume un valore fondante e autonomo, e il libretto si ridimensiona a una sorta di supporto poetico. Senonché mi sono accorto subito che il paragone, a volerlo spingere fino in fondo, non reggeva. Allora mi ricordai dei «trovatori», i poeti-musici-cantanti che operarono all'incirca nei primi due secoli dell'anno 1000. Andiamo a finire così lontano nel tempo? Non so che farci, non ho sottomano altri esempi più recenti. Dunque, questi trovatori erano essenzialmente poeti d'amore che mettevano in musica i loro versi e se ne andavano in giro di corte in corte a cantarli. Mentre sui loro versi, spesso stupendi, che si possono leggere nei vari codici, non ci piove, invece diluvia sulla loro musica, in quanto i suddetti codici riportano sì duecentocinquanta melodie, ma indicano solo l'altezza dei suoni, non la loro durata. Da qui una serie infinita di interpretazioni. Ma una cosa è certa, come ha affermato il maggiore studioso della materia: «Il ritmo musicale obbedisce esclusivamente alle leggi della ritmica sillabica, la melodia risponde strettamente alla struttura poetica». E qui mi pare che alla fine ci siamo. Gli autori di canzoni che partono dalla parola sono esattamente, o quasi, come i trovatori. Ma chi invece parte dalla musica e da essa si lascia suggerire le parole, a quale categoria appartiene? E a ben considerare, che necessità c'è di inquadrare in qualche modo un artista, iscrivendolo arbitrariamente a una qualsiasi categoria? Però, la parola «necessità» mi fa nascere un altro piccolissimo problema. Ogni poeta sceglie per i suoi versi - comunque nascano e qualunque sia la loro destinazione, anche musicale - le parole assolutamente necessarie. Quelle e non altre. Eppure ci capita non di rado, per gioco, per distrazione, per un vuoto di memoria, per motivi di traduzione, di canticchiare un motivo cambiandone, in tutto o in parte, le parole. E allora dove va a finire la necessità? E se questo avviene per gli autori di canzoni che mettono al principio il Verbo, figurarsi quali stravolgimento può, pur non volendolo, autorizzare chi mette al principio la Musica. E invece, nel caso di Paolo Conte, questo non avviene e non può avvenire. Perché in lui le parole scaturite dalla musica hanno contemporaneamente una totale autonomia poetica e una totale intrinsecità con la musica stessa. Le parole sono figlie della musica, portate nel ventre della musica, il loro Dna è lo stesso. Non sono un vestito di stoffa, ma pelle viva. «Dicono che quei cieli siano adatti | ai cavalli e che le strade | siano polvere di palcoscenico»: questo folgorante attacco della canzone intitolata Novecento uno se lo può godere come poesia in sé, ma se lo gode meglio, e meglio lo capisce, se lo sente cantato dalla voce di Conte. Ora provatevi a fare il giochetto della sostituzione non vi riesce, è praticamente impossibile. Le parole di Conte, di volta in volta ironiche, malinconiche, insinuanti, sorprendenti, inattese o volutamente consuete, e sempre governate da un gusto sapiente, sorvegliato e colto, costituiscono un corpo unico e inscindibile dalla sua musica. E il fatto che all'inizio ci sia il Verbo o la Musica, nel caso di Paolo Conte, finisce con l'essere semplicemente una curiosità, che è quella di conoscere come lavora un Artista. Andrea Camilleri |
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Wednesday, July, 13, 2011
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