Traduzione di Fiorella Cagnoni e Silvie Coyaud
Prefazione di Andrea Camilleri
Torna in una nuova edizione, arricchita da una prefazione inedita di Andrea Camilleri, il manuale di scrittura giallistica di Patricia Highsmith.
Come si scrive un giallo è un vero e proprio vademecum del thriller, che insegna a tessere la trama di una storia da
brivido, ma è anche un manuale di scrittura di più ampia portata, capace di condurci per mano nell’officina di uno scrittore.
«Spero che tra i lettori di questo libro», scrive l’autrice nella prefazione, «ce ne siano alcuni che non hanno intenzione di
diventare scrittori di gialli ma semplicemente scrittori, perché penso che molte delle cose che ho detto riguardino la scrittura
in generale, o quanto meno la narrativa».
La grande giallista americana ci svela come è strutturato un thriller e ce ne mostra gli strumenti creativi attraverso
saggi sul metodo di scrittura e la costruzione del plot, sulla capacità di osservare e appuntare particolari per poi richiamarli
alla memoria, e ci guida perfino passo passo nell’analisi di uno dei suoi stessi romanzi, L’alibi di cristallo.
Ecco come la Highsmith mi fa morire di paura...
di Andrea Camilleri
Della trentina e passa tra romanzi e raccolte di racconti della statunitense Patricia Highsmith pubblicati in Italia credo che me ne manchino due o tre per fare tombola.
Di giorno, non so perché, non riesco a leggere libri di fiction, come la chiamiamo oggi, preferisco piuttosto dedicarmi a qualche bel saggio storico o politico, dei romanzi attacco la lettura solo quando vado a letto e sono capace di fare nottata, se il libro vale la perdita del sonno.
Invece i romanzi e i racconti della Highsmith fanno eccezione a questa mia regola: dopo averne incautamente letto il primo alla luce proveniente dalla lampada sul comodino, da allora in poi mi sono ben guardato di attaccare la prima pagina di un qualcosa scritto dalla Highsmith se non ero protetto e tranquillizzato dalla luce del giorno.
Tante volte, prima dell’incontro con questa grandissima, m’era capitato d’affrontare romanzi gialli che recavano sulla fascetta di copertina l’inquietante avvertenza questo romanzo non vi farà dormire, e invece, dopo una ventina di pagine, spegnevo senza rimorsi la luce e mi trovavo immediatamente, ronfando, a esplorare il paese del sonno, come lo chiamava Dylan Thomas.
E non perché i romanzi della Highsmith grondassero sangue di efferati delitti, eccedessero in orripilanti descrizioni di squartamenti a scopo d’uccisione o d’autopsia, ci andassero giù pesante con sadismi, torture, violenze, mutilazioni, riti macabri e via di questo passo. No, niente di tutto questo. Eppure, ricordo benissimo che, durante quell’unica lettura notturna, stavo a provare tanta sottile angoscia, tanto spiazzante disagio come mai mi era capitato.
Perché? Cercherò di spiegare meglio il fenomeno portando le pezze d’appoggio di scrittori assaissimo più autorevoli di me.
Scrive Leonardo Sciascia nella sua “Breve storia del romanzo poliziesco”, analizzando la posizione psicologica del lettore di questi romanzi, che il modo migliore che il lettore ha di godersi la lettura è quello di mettersi in condizioni di assoluto riposo intellettuale e interamente “affidarsi all’investigatore; alla sua eccezionale capacità di ricostruire un crimine e di raggiungerne l’autore”.
E se l’autore invece fa tutto il possibile, riuscendoci, perché il lettore non
si venga mai a trovare nella condizione di assoluto riposo intellettuale?
Continua Sciascia: “nel romanzo poliziesco il lettore /…/ accetta a priori, per pregiudizio, per convenzione, un ruolo di inferiorità e di passività
intellettuale”.
E se l’autore ti obbliga a cambiare ruolo? E se dalla passività intellettuale ti porta contro la tua volontà a un totale coinvolgimento?
Allora succede quello che ha scritto Graham Greene, che di queste cose se ne intendeva, a proposito della Highsmith:
“E’ una scrittrice che ha creato un proprio mondo- un mondo claustrofobico e irrazionale nel quale ogni volta entriamo con una sensazione di pericolo personale, con il capo mezzo girato all’indietro, persino con una certa riluttanza”…
E concludeva ringraziando l’autrice per la brevità dei suoi romanzi e dei suoi racconti, brevità che non consentiva al lettore, alla fine, di essere completamente, e per sempre, assorbito da quel mondo.
Greene fa uso di una parola, irrazionale, che proprio a proposito della Highsmith va presa e intesa cum grano salis.
La normale terribilità (lo so, è un ossimoro, ma non mi vengono altre parole) di questa autrice è che tutti i suoi racconti iniziano mostrando un quadretto rassicurante, quotidiano, usuale, persino banale, dove i gesti sono consueti, abitudinari, addirittura diventati un po’ meccanici e a un tratto qualcosa, un niente, un nonnulla, un inciampo, incrina quel quadretto rassicurante, lo fa in mille pezzi, lo ricompone in una dimensione appunto irrazionale, metafisica, totalmente spiazzante.
E lo fa con una tale abilità narrativa che tu, lettore, che stavi tranquillamente (e passivamente) a goderti quella scenetta così simile a una delle tante alle quali anche tu hai moltissime volte partecipato nella vita (che so, una cenetta tra amici, un viaggio in treno con uno sconosciuto davanti a te che attacca discorso) ti trovi a un tratto trasportato, assieme ai personaggi del racconto, in un mondo nel quale non vorresti mai essere entrato.
C’è niente di più consueto, ovvio, di una cena dove alcune persone attorno a un tavolo gustano le portate e chiacchierano del più e del meno?
E che ci può essere di strano se, a un certo punto, un normalissimo gatto di
casa, entra nella camera da pranzo?
E non è più che normale che qualcuno dei presenti si domandi che cosa abbia in bocca il gatto? E se si scopre che il gatto ha in bocca qualcosa che non dovrebbe assolutamente avere?
E’ così che l’ingranaggio della normalità s’inceppa di colpo.
E’ come se, camminando per una quasiasi piazza italiana, mille volte attraversata, all’improvviso i palazzi, le strade, le statue, per un accidenti minimo, un cambio di luce, il passaggio di una nuvola, si componessero in una piazza dechirichiana.
Con quale brivido, con quale paura, con quale tremore continueremmo a camminare in una dimensione metafisica?
Certamente è stato per questo modo di rappresentare il vertiginoso passaggio dalla realtà quotidiana a una stravolgente realtà “altra” che
la Highsmith è stata così tanto apprezzata e usata da Hitchcock (per non parlare de “L’Amico americano” di Wim Wenders).
Con questo “Plotting and Writing Suspense Fiction”, la Highsmith ci svela i segreti del mestiere.
Del suo mestiere, naturalmente, e non della sua arte, perché di essa credo che nemmeno lei sarebbe stata capace di capirne e svelarne il magistero.
E quindi questo libretto va preso mettendosi nella stessa disposizione di spirito con la quale una volta quelli che volevano fare i pittori andavano “a bottega” da un maestro di fama consacrata: lì imparavano la tecnica, il mestiere appunto. Poi se erano bravi e dotati, dopo aver seguito per un po’ le orme del maestro, pigliavano la loro strada personale.
A me questo libretto è particolarmente piaciuto, tra l’altro, per due motivi. Il primo è che l’autrice non intende dare lezioni, ma vuole soltanto, e intelligentemente, dare consigli. Il secondo consiste in una frase che riporto integralmente:
“Spero che tra i lettori di questo libro ce ne siano alcuni che non hanno intenzione di diventare scrittori di gialli, ma semplicemente scrittori, perché penso che molte delle cose che ho detto riguardino la scrittura in generale, o quanto meno la narrativa”.
Implicitamente dunque la Highsmith elimina quegli stupidi paletti che in tutto il mondo vengono posti, dagli accademici miopi e imparruccati fino
ai recensori da strapazzo, per fare un gesuitico distinguo tra romanzo giallo e romanzo letterario.
La buona letteratura è sempre buona letteratura al di là dell’argomento trattato. O forse che Hammet o Chandler o Simenon o Durrenmatt non sono classificabili come straordinari scrittori tout court solo perché hanno scritto dei romanzi dove ci scappava il morto? E non voglio impantanarmi in questioni locali citando Gadda o Sciascia.
A me frequentemente capita che qualcuno dei miei lettori mi domandi
come si fa a diventare scrittori.
O meglio, quali esercizi, quali studi, cosa leggere, quali trattati, quali scuole, per imparare a scrivere narrativa.
La mia immancabile risposta è quella appunto di “andare a bottega”.
In una scuola di scrittura creativa? No, a bottega da uno scrittore. Quale? Quello che ti piace di più. Ma è morto! Non ha importanza, puoi andarci a bottega lo stesso. E come? Pigli un libro qualsiasi del tuo autore preferito, leggi la prima frase che ti capita sotto agli occhi. Ricopiala. Cerca di capire perché ha usato una data parola e non un suo sinonimo, perché ha messo un aggettivo prima o dopo un sostantivo, perché ha usato quel dato verbo e non un altro, perché quella virgola è sistemata proprio lì. Insomma, fagli l’autopsia, a quella frase. Poi cerca di ricomporla come l’avresti scritta tu. Ti funziona? No? Riprova da capo.
Secondo me, è proprio la parte pratica del libro della Highsmith quella più utile a tutti, quella che fa bottega.
I capitoli che vanno dal 6 al 9 (“La prima stesura”, “Gli intoppi”,”La seconda stesura”, “Le revisioni”) e soprattutto il decimo, “Anamnesi di un romanzo” (che sarebbe il suo “L’alibi di cristallo”) sono fondamentali per chi vuole imparare il mestiere.
La Highsmith si addentra persino nel conteggio di quante sono le righe che immediatamente seguono alcuni incipit e minutamente le analizza.
Sembra un esercizio inutile e invece non lo è affatto.
Perché quelle righe segnano l’inizio del respiro del romanzo, del suo ritmo, del suo modo di procedere.
Ecco perché dicevo che l’autrice “consiglia”.
Consiglia mettendoti davanti a degli esempi estremamente pratici.
Utilissimi, forse, anche a chi ha già scritto e pubblicato dei romanzi.
Perché tra i tantissimi libri che insegnano a scrivere dovuti anche a penne famose, questo libretto della Highsmith, con la sua civile modestia, col suo tono volutamente sommesso, col suo volersi presentare come un utile “manualetto”, potrebbe tutto sommato dare dei buoni consigli agli scrittori che insegnano a diventare scrittori.
(da Il Venerdì, 11.5.2007)
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