Il solito delitto di mafia, misterioso e intricato, a Vigata, cittadina fantastica e metaforica in terra di Sicilia, dove Camilleri ambienta il suo secondo romanzo giallo, con protagonista il commissario Montalbano. Occhio e intelletto di giustizia, Montalbano risolve le sue inchieste, si direbbe, per affinita' ambientale: e' cosi' perfettamente siciliano che ogni indizio per lui si trasforma in univoco messaggio di un codice conosciuto, da decrittare simbolo per simbolo, come una lingua arcaica che continua a parlare in forme nuove. Ma stavolta, in coda al delitto di mafia, se ne trova un altro, piu' conturbante e rituale: due cadaveri di giovani amanti abbracciati, nel doppio fondo di una grotta, sorvegliati da un enorme cane di terracotta. Un omicidio di cinquant'anni prima. E montalbano indaga, con l'aiuto di una compagnia volenterosa di vecchietti: "un'indagine in pantofole, in case d'altri tempi, davanti a una tazza di caffe'". La Sicilia e' terra che da sempre si presta al genere giallo e poliziesco, cui fornisce il suo teatro di contrasti e di arcaismi. Camilleri, pero', del giallo siciliano e' in senso proprio, un innovatore. Ujna grazia particolare di raccontare, una lingua che si modula senza sforzo e fastidi sul dialetto, una potenza di comicita', ma soprattutto vi aggiunge l'intuizione completa dei nuovi scenari, quel miscuglio di culture millenarie con cio' che i sociologi denominano "modernizzazione senza sviluppo".
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In coda ad un delitto di mafia se ne trova un altro, rituale e più conturbante: due cadaveri di giovani amanti abbracciati, nel doppio fondo di una grotta, sorvegliati da un enorme cane di terracotta.
«Nella storia che avete tra le mani, la terra si fa fisicamente protagonista. In essa si apre una caverna che è un passaggio nel ventre, un ingresso nella passione. Una caverna che è un deposito di armi, un arsenale dell’esercito irregolare che comanda il respiro degli abitanti di un’isola meravigliosa e disgraziata, ma che è anche stanza da letto per innamorati poveri e felici. E che è tomba di un antico amore, che ancora respira e ancora racconta la propria storia disperata a cinquant’anni di distanza».
M.d.G.
«A stimare da come l’alba stava appresentandosi, la iurnata s’annunziava certamente smèusa, fatta cioè ora di botte di sole incaniato, ora di gelidi stizzichii di pioggia, il tutto condito da alzate improvvise di vento. Una di quelle iurnate in cui chi è soggetto al brusco cangiamento di tempo, e nel sangue e nel ciriveddro lo patisce, capace che si mette a svariare continuamente di opinione e di direzione, come fanno quei pezzi di lattone, tagliati a forma di bannèra o di gallo, che sui tetti ruotano in ogni senso ad ogni minima passata di vento.
Il commissario Salvo Montalbano apparteneva da sempre a quest’infelice categoria umana e la cosa gli era stata trasmessa per parte di matre, che era cagionevole assai e spesso si serrava nella càmmara di letto, allo scuro, per il malo di testa e allora non bisognava fare rumorata casa casa, camminare a pedi lèggio. Suo patre invece, timpesta o bonazza, sempre la stessa salute manteneva, sempre del medesimo intìfico pinsèro se ne restava, pioggia o sole che fosse.
Magari questa volta il commissario non smentì la natura della sua nascita: aveva appena fermato l’auto al decimo chilometro della provinciale Vigàta-Fela, come gli era stato detto di fare, che subito gli venne gana di rimettere in moto e tornarsene in paese, mandando a patrasso l’operazione. Arriniscì a controllarsi, accostò meglio la macchina al ciglio della strata, raprì il cassetto del cruscotto per pigliare la pistola che abitualmente non portava addosso. Però la mano gli restò a mezz’aria: immobile, affatato, continuò a taliare l’arma.
«Madonna santa! È vero!» pensò».
Maurizio de Giovanni e il genio di Camilleri
Lo sappiamo bene, noi. Noi che facciamo parte di questa piccola società segreta; che ci scambiamo frasi in codice («hai visto? È uscito. È uscito, ti dico: l’ho visto coi miei occhi, stamattina, sullo scaffale!»), che ci incontriamo con un mezzo fugace sorriso nei nostri posti silenziosi raggiunti facendo incongrue deviazioni di percorso, perdendo autobus e metropolitane per pochi minuti ma senza rimpianti.
Noi che amiamo il profumo della carta nuova che aspiriamo a occhi chiusi per qualche secondo, prima di percorrere avidi con lo sguardo i mille colori delle copertine alla ricerca di una nuova fascinazione.
Noi che ci riconosciamo in treno, sbirciando titoli ed espressioni per intuire storie e personaggi, annotando mentalmente il prossimo acquisto; noi che non vediamo l’ora di condividere il piacere solitario, chiacchierando di amori e passioni come se fossero veri, proprio perché sono veri più di quelli veri.
Noi lo sappiamo bene, che un libro altro non è che un biglietto per un viaggio.
Sappiamo che il libro bello è quello che ti porta fin dalla prima pagina in un altro luogo e in un altro tempo, che ti rapisce e ti esclude dal tuo mondo e te ne regala un altro, che ti travolge con una storia di cui tu, lettore, sei protagonista, non testimone. Perché il testimone vede succedere le cose, non prova direttamente tutte le emozioni dei personaggi, non sente il cuore cambiare ritmo e sobbalzare ancora prima dell’evento che leggerà accadere.
È una cosa diversa.
Noi non siamo il popolo dell’immagine; non siamo quelli che hanno bisogno di qualcuno che pensi le scene per noi, che premastichi e predigerisca le storie e ci fornisca colori e facce precostituiti. Noi non siamo i drogati dello streaming, quelli che non ce la fanno ad aspettare che la nuova puntata della nuova serie venga tradotta e inserita in palinsesto. A noi le storie piace immaginarle, costruirle, inventarle. Noi lavoriamo insieme all’autore, lui racconta e noi vediamo.
Il libro che avete tra le mani contiene appunto un viaggio. Perché l’uomo che ha inventato questa storia funziona così: vi trascina via già dalla prima parola.
Se i romanzi belli sono quelli che vi inghiottono come le sabbie mobili, quelli che vi fanno leggere un’ora e poi guardare sorpresi l’orologio perché vi sembrano passati solo cinque minuti, ebbene il signore che ha scritto questa storia sa come fare i romanzi belli. L’ha saputo dall’inizio, e anzi le prime storie (questa che avete in mano è del 1996) hanno la forza della conoscenza in corso del personaggio, qualcosa di cauto e di ansioso che conferisce ulteriore verità, perché il lettore e chi racconta condividono ansia e curiosità e questa condivisione è una gran bella forza motrice.
Se i romanzi belli sono quelli che da un lato vi fanno correre per vedere presto come andrà a finire la storia e dall’altro vi fanno guardare alle pagine che rimangono come un tesoro da centellinare piano, allora il signore che ha scritto questa storia ha il dono di amministrare la vostra frenesia, costringendovi di fatto alla seconda e alla terza lettura per ritrovare, ancora e ancora, la stessa identica atmosfera.
Se i romanzi belli sono quelli che funzionano come un orologio, con un meccanismo perfetto che non lascia dubbi o buchi alla logica del più esperto lettore, ma nel contempo trasudano l’imperfezione e la follia che animano il complesso mondo delle relazioni sentimentali, ebbene il signore che ha scritto questa storia ha l’istintiva misura delle dosi per avvinghiare chi lo ascolta in un abbraccio che non si può sciogliere fino all’ultima parola e all’ultimo doloroso e sorridente sospiro.
Perché, sapete, il signore che ha scritto questa storia ha saputo iniziare una nuova stagione del romanzo nero italiano, e ancora ne traccia la rotta con la forza luminosa di un faro nella nebbia. Non che prima di lui non ci siano stati grandi autori, Gadda e Veraldi, Eco e Fruttero e Lucentini hanno avuto voci enormi e importantissime; ma lui, lui ha reinventato tutto.
Il signore che ha scritto questa storia che avete tra le mani ha parlato con la sua lingua come se stesse davanti a un fuoco d’inverno o d’estate su una terrazza all’ombra, un bicchiere di vino in mano e un piatto davanti, il mare fermo ad ascoltare a pochi metri; con una voce rasposa e senza tempo, un gesto della mano a sottolineare i passaggi, il volto atteggiato a simulare le espressioni. Il signore che ha scritto questa storia parla alle ossa e allo stomaco di chi ascolta, non propone vacui esercizi intellettuali né ritiene di poter spiegare il fine ultimo dell’universo. Racconta storie, e chi sta ad ascoltarlo sa che una storia è una storia, e non la dimostrazione di una tesi; quindi può finire in qualsiasi maniera, ed è questa l’origine della tesa attenzione con cui si leggono i romanzi di questo signore, e quello che avete tra le mani soprattutto, perché tra queste storie è sicuramente una delle più belle.
In questa storia seguirete il protagonista ruvido e sensibile, intelligente e spontaneo lungo le vie intense e semplicissime della sua città. Comincerete a camminare al suo fianco in una mattina smèusa, divisa a metà tra sole e pioggia, il modo migliore per definire l’incertezza di quello che poi succederà.
Dovrete ancora immaginarlo, il protagonista, come l’ha pensato il signore che vi racconta la storia, capelli folti, baffi, vicino ai cinquant’anni e vagamente somigliante al Pietro Germi de Il ferroviere, lontano quindi dal favoloso attore che lo ha interpretato nella scatola magica. Lo immaginerete camminare per strade e sentimenti, al cospetto di criminali migliori dei burocrati e di feroci assassini col sorriso sulle labbra. Lo ascolterete nelle sue difficili conversazioni telefoniche notturne, tese a mantenere in piedi il suo amore imbalsamato dalla distanza. E lo vedrete mangiare con gusto, assorbendo attraverso la bocca e lo stomaco la terra selvatica e stupenda che ama respirare e calpestare.
Attorno a lui va nascendo quel mondo che la nostra società segreta imparerà ad amare forsennatamente, riconoscendo con tenerezza facce e voci e luoghi come quando si torna in vacanza nello stesso posto dopo un anno di lavoro e di tristezza; troverete un Augello insolitamente nervoso e spaventato e il riservato Fazio, il litigioso dottor Pasquano e l’irresistibile Catarella, e capirete rileggendo quanto corpo e quanto sangue vanno assumendo nel cuore del proprio creatore. E Vigàta, aria terra e mare, Vigàta sapore odore e calore, Vigàta di strade e di campagna, di spiaggia e di silenzio.
Proprio nella storia che avete tra le mani, la terra si fa fisicamente protagonista. In essa si apre una caverna che è un passaggio nel ventre, un ingresso nella passione. Una caverna che è un deposito di armi, un arsenale dell’esercito irregolare che comanda il respiro degli abitanti di un’isola meravigliosa e disgraziata, ma che è anche stanza da letto per innamorati poveri e felici. E che è tomba di un antico amore, che ancora respira e ancora racconta la propria storia disperata a cinquant’anni di distanza.
La grandezza del signore che racconta questa storia, sapete, è proprio qui: nella semplicità innocente con cui unisce passato e presente, in una immobile freschezza che è il senso dell’amore. Perché le storie nere, quelle davvero nere, sono fatte soprattutto d’amore. L’amore che devia dal suo corso, impattando in ostacoli come la gelosia, l’ossessione, l’invidia, e prende una strada diversa che spesso sfocia nel sangue.
La telefonata del vecchio compagno di scuola Gegè, l’inquietante incontro col Greco, terribile capomafia e fiero avversario, costituiscono in realtà soltanto la premessa necessaria, la porta d’ingresso attraverso la quale il commissario protagonista, che ha ancora nelle orecchie la recente lettura del suo quasi omonimo autore barcellonese, dovrà imbarcarsi per un viaggio nel tempo. E viaggerà, eccome se viaggerà, alzando veli impolverati che coprono passioni addormentate e feroci.
Un’indagine nel passato può svolgersi solo attraverso il ricordo. Il commissario lo sa e quindi andrà a cercare la memoria dei vecchi, e si metterà a guardare la sospensione tra un passato di sangue e amore e un presente di amore e sangue. Anche il suo stesso sangue, e quello di chi gli è caro.
La storia che avete tra le mani, sappiatelo, non assomiglia a nessun’altra, come le grandi storie debbono fare. Se guarderete bene, troverete colti riferimenti a grandi autori e anche a culture lontane ma vicinissime alla terra da cui nasce, a filosofie antiche e a simbologie mai dimenticate; ma è una ricerca che potrete fare non prima della terza lettura, perché la prima vi trasporterà frenetici alla scoperta dei misteri e la seconda vi avvolgerà nelle morbide spire di un’ambientazione tuttora insuperata nella narrativa italiana.
Il signore che racconta questa storia e il suo protagonista, insomma, danno il meglio nelle pagine che leggerete. Certo, nei tanti romanzi successivi quel mondo lo conoscerete a fondo, in lungo e in largo; ma così nel profondo, accompagnati dall’odore di buio e di terra, non scenderete mai più. Mettetevi comodi e state ad ascoltare il signore che racconta: scoprirete quanto viva può essere la morte, a distanza di più di mezzo secolo, se non riesce a interrompere l’amore; e quanto può essere partecipe e addolorato lo sguardo consapevole di un cane di terracotta.
Maurizio de Giovanni
(Il testo sopra riportato è stato pubblicato su
l'Espresso il 19.5.2014)
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