La testimonianza diretta dei disordini che seguirono lo sbarco in Sicilia dei garibaldini,
da parte del prefetto di Agrigento, esautorato dall'incarico per aver applicato troppo
severamente gli ordini del governo. L'esperienza personale del narratore influenza il
racconto, pur presentandoci una testimonianza della classe dirigente italiana del
periodo. Con prefazione di Andrea Camilleri.
Il primo prefetto di Girgenti
Quando il nuovo Prefetto di Girgenti, cav. Enrico Falconcini, mise
piede, alle 10 di mattina del 13 Agosto 1862, sulla banchina del Molo
di Girgenti (o Porto Empedocle) per pigliare possesso della prefettura
che gli era stata assegnata, c'erano ad aspettarlo i Comandanti
militari, le Autorità, i Notabili e l'immancabile Banda musicale. Il
maestro sollevò la bacchetta per dare il via all'inno nazionale e in
quel preciso momento, sotto gli occhi sbarracati del nuovo venuto,
tutti si lanciarono, gridando in una fuitina generale, lasciando solo
l'esterrefatto Falconcini.
Il quale, non avendo ancora del tutto ricuperato l'equilibrio a causa
della navigazione che non era stata facile, non si rese subito conto
che c'era stata una scossa di "novello tremuoto" come scrissero le
gazzette dell'epoca. Il tremuoto a Girgenti dal 1859 pareva essercisi
affezionato: ogni tanto passava, faceva cadere qualche casa, ma non
procurava né morti né feriti.
Ora bisogna dire che Falconcini era uomo del Nord: perciò pigliò il
tremuoto per quello che era, vale a dire una leggera scossa sismica.
Ma io mi domando e dico: benedetto uomo, come hai fatto a non capire
quello che era subito apparso evidente agli occhi di tutti: che non si
trattava di un semplice tremuoto, ma di un lampante avvertimento? Stare
in questo paese per te non è cosa, diceva il tremuoto, l'unica cosa per
te è risalire a bordo e scappartene il più lontano possibile.
Falconcini, invece, non capì e restò. Bisogna dire che nei cinque mesi
che Falconcini fu prefetto di Girgenti capitò tutto quello che poteva
capitare. Da tempo la situazione in Sicilia era assai tesa.
Garibaldi insisteva col suo “O Roma o morte”, il re protestava contro
l’intenzione del Generalissimo, il partito garibaldino cominciava a
formare campi militari, si armava, reclutava seguaci entusiasti e
violenti un po’ dovunque. Poi c’erano i renitenti alla leva che si
erano dati alla latitanza.
Poi c’erano i briganti sempre più numerosi che mandavano ai ricchi
tante di quelle terrorizzanti lettere di “scrocco” da intasare la
distribuzione della posta. L’8 Agosto, al Molo di Girgenti erano
sbarcati duemila uomini di truppa, il 10 nel capoluogo s’accampava un
battaglione di bersaglieri. Il pomeriggio stesso dell’arrivo del nuovo
prefetto giunge un generale con truppa e artiglieria di campagna. In
serata, la città viene completamente circondata dalle truppe regolari.
Ma numerosi soldati disertano per unirsi ai volontari garibaldini.
Insomma, possiamo essere certi che in quella sua prima nottata
girgentana Falconcini non pigliò sonno. Le cose stavano a questo punto
quando il 21 dello stesso mese Cuggia, prefetto di Palermo con autorità
sugli altri prefetti dell’isola, proclamò lo stato d’assedio.
Scoppiano rivolte, sparatorie, incendi di case.
L’unica buona notizia Falconcini la riceve diciotto giorni appresso il
suo insediamento: Garibaldi, ferito, è stato disfatto in Aspromonte.
Ma la notizia non significa tranquillità, il partito garibaldino
organizza una strepitosa manifestazione contro il governo, Racalmuto
insorge, sbarcano altri cinquecento bersaglieri di rinforzo.
Ma capita anche un fatto inaudito, unico nella storia d’Italia: ben
quarantatre impiegati statali firmano le loro dimissioni come segno di
solidarietà a Garibaldi. Di fronte a un fatto simile (paragonabile
forse all’apparizione di un’Idra a sette teste nella centralissima via
Atenea) e cioè con la Burocrazia girgentana che si schierava a favore
di un rivoluzionario, Falconcini come minimo avrebbe dovuto domandare
asilo politico in Svizzera.
S’arrabattava, povirazzo, spedendo a dritta e a mancina circolari,
proclami, ordini che o cadono nell’indifferenza generale o ricevono
risposte di formale adesione. In più, è un uomo molto riservato, non ha
amicizie locali, non si fa vedere nei due circoli importanti della
città, a molti sta antipatico.
Il deputato Giuseppe Picone gli ha affittato un appartamento al quarto
piano del suo villino. Ebbene, un giorno Picone riceve una lettera
anonima che recita testualmente “Si prepara una combinazione, che
sembra infernale, la quale se verrà ad effetto, la vostra casa andrà in
fumo. Ciò non si fa per colpire voi, ma il prefetto”. Per il sì o per
il no, il deputato spedisce d’urgenza moglie e figli in campagna.
Sempre più frequenti compaiono scritte sui muri: ”Abbasso Falconcini!”.
Il quale intanto dimostra ogni giorno che è un uomo che non “sa
vivere”. Si mette contro i preti per una questione di decime, allontana
dalla prefettura e dagli uffici i faccendieri, desidera l’applicazione
rigorosa di un’ordinanza del famigerato Eberhardt che proibisce la
detenzione di armi pena la fucilazione sul posto. E gli capita tra capo
e collo, il 26 ottobre, lo stivale di Garibaldi. Stivale insanguinato
portato a Girgenti dall’avvocato Ricci-Gramitto, luogotenente del
Generale ad Aspromonte, e venerato come una reliquia. Il partito
garibaldino girgentano reclama l’autorizzazione di una grande
manifestazione in onore del reduce Ricci-Gramitto e dello stivale.
Dopo averci a lungo ragionato, il prefetto concede l’autorizzazione,
“onde evitare ulteriore turbativa”, ma si attira l’inimicizia della
borghesia conservatrice e della nobiltà.
Di questa autorizzazione però noi italiani dobbiamo essere grati a
Falconcini.
Fu infatti in occasione di quella manifestazione che Caterina
Ricci-Gramitto, sorella di Rocco, conobbe un garibaldino compagno
d’armi del fratello, tale Stefano Pirandello.
I due si piacquero e si sposarono: dalla loro unione nacque Luigi
Pirandello.
Ai primi di novembre, il prefetto decide di andare a dare un’occhiata
al carcere, che era il castello di Agrigento, dal quale i 127 reclusi
sarebbero stati poi trasferiti nel piccolo ex convento di San Vito.
Rimane allibito per la sporcizia e il degrado.
Soprattutto lo colpisce il fatto che nel cortile razzolino delle
galline la metà delle quali sono dei carcerati e l’altra metà
appartengono al capo delle guardie di custodia.
Falconcini lo fa destituire e chiama al suo posto un capoguardia
settentrionale il quale, a sua volta, manda a spasso le altre guardie
sicchè i custodi, come annota nel suo diario l’avvocato Picone, “sono
tutti continentali”, fatta eccezione di un calabrese?
Ai primi di dicembre, il prefetto riceve una lettera anonima che lo
mette in guardia circa una possibile evasione di alcuni carcerati.
Falconcini ordina un’ispezione che viene effettuata il 22 Dicembre. Il
delegato centrale Francesco Gaudio, coadiuvato da una compagnia del 37°
reggimento, da una decina di Carabinieri e da “tutte” le guardei di
P.S. di Girgenti, mette sottosopra il carcere, fa battere spranghe di
ferro contro pavimenti, soffitti, pareti allo scopo di sentire
eventuali vuoti.
Le pareti e il suolo delle celle e dei cameroni “si trovaron del tutto
ignudi”.
Le povere cose dei detenuti e i detenuti stessi vengono perquisiti.
Non si trova niente di sospetto. Nessun preparativo di fuga, garantisce
nel suo rapporto al prefetto il Delegato centrale. Nel corso della sera
di Natale, i detenuti hanno il permesso di scambiarsi abbracci e auguri
sotto gli occhi dei custodi “continentali”.
La mattina del 25, giorno di Natale, uno strano silenzio regna nel
carcere. Infatti non c’è più manco un detenuto: tutti i 127 sono evasi
attraverso uno scavo effettuato proprio sotto a uno di quei cameroni
pigliati a sprangate di ferro per sentire se suonava qualche tratto
vuoto.
Il custode di guardia di quella notte, guarda caso il calabrese, non ha
visto né sentito niente.
Falconcini, in sua difesa, allega ai rapporti un “dettaglio dei modi e
mezzi usati” dai carcerati per evadere redatto a cura del Genio civile:
un documento particolareggiato che dimostra come tra i carcerati c’era
chi aveva ingegno e conoscenze tecniche di scavo non comuni.
Falconcini azzarda l’ipotesi che si sia trattato di una raffinata
vendetta del capoguardia e degli altri custodi licenziati per far posto
ai “continentali”; crediamo che sia un’ipotesi plausibile.
A nulla valgono le difese di Falconcini: da Torino, l’11 gennaio 1863
un telegramma del ministro
gli comunica che “ in data d’oggi è stato dispensato dalla carica di
prefetto di codesta provincia”. Non sarà mai più prefetto di
nessun’altra provincia, la sua carriera terminerà qui. Salutato con una
fuga, il suo soggiorno girgentano terminerà con un’altra fuga.
Questo libro, “Cinque mesi di prefettura in Sicilia”, un’autodifesa
corredata da un centinaio di documenti, ha un suo rilevante valore
storico per meglio capire le condizioni della Sicilia nel periodo
immediatamente successivo all’Unità.
Credo però che abbia valore anche e soprattutto come patetica e
involontariamente umoristica testimonianza della vana lotta di uno
sventurato contro un destino avverso o, più prosaicamente se volete,
contro una jella di rara implacabilità.
Andrea Camilleri
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